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6 Maggio 2024

“VITA IMMAGINARIA/3”

-3 al Salone del libro di Torino. Quest’anno il tema è “Vita Immaginaria”. È ora di partire assieme alla sposa di Federico Guerri. Ma attenzione a non deragliare, potreste ritrovarvi “Senza centro”. Noi intanto TI IMMAGINIAMO GIÀ QUI: Edizioni Spartaco – Stand Q59 – Padiglione 3 – Lingotto Fiere – 9/13 maggio.

Federico Guerri, autore di “Senza disturbare i tulipani

Senza centro – Quanto tempo è passato da quando il tuo corpo nudo è stato vicino a un altro corpo nudo?

Il cervello di Sara è altrove. 

Gli occhi di Sara funzionano ma non riesce a vedere bene.

Ha la testa leggera e pesante; una stanchezza diffusa in tutto il corpo eppure i piedi vanno lo stesso. 

Mettono un passo dietro l’altro e nessuno dei passi porta da qualche parte. 

I treni che arrivano al binario si fermano per far salire qualcuno oppure sferragliano avanti senza logica. Non hanno partenza o destinazione. In questa stazione va chi vuole partire senza arrivare. Tutti qua si sono dimenticati da dove vengono o almeno così pare. 

La voce degli annunci elenca nomi di città che non esistono in una lingua straniera a tutti. Gli altri viaggiatori, proprio come Sara, sanno di essere lì soltanto perché c’era necessità di partire. 

Ci sono distributori automatici di caffè, distributori automatici di snack e oggettistica varia: forbicine per tagliare le unghie, tronchesine, cerotti usati, bisturi e altri giocattoli da sala operatoria, pennelli già intinti nel colore seccato, tutte cose di cui puoi aver bisogno in viaggio.

Distributori automatici di cose che hai dimenticato a casa, di cose che ti ritroverai in tasca qualche mese dopo averle raccolte chiedendoti dove le hai prese e a chi appartenessero, pezzi di plastica sulla battigia levigati dalla marea e dalla sabbia. 

Sara inserisce un petalo e ottiene in cambio un moncone di plastica giallo, naufrago, utile al niente. 

Il cellulare le vibra in tasca, le arrivano decine di messaggi da utenti sconosciuti. 

Esatto.

Ci vediamo alle 16.

Sì, sotto casa tua. 

Perché sei fuggita?

Sono risposte a domande che non ricorda di avere mai fatto. Conversazioni avviate per il solo amore del rumore bianco. Perché le parole che ti spuntano in testa prima o poi, da qualche parte, dovranno arrivare. Come i treni di questa stazione che ha più gente nell’androne che sui binari. Anime perse in un grande salone fissano pannelli colmi di orari arbitrari e destinazioni casuali, si avvicinano a vecchi tabelloni di carta gialla scoprendo che i caratteri minuti sono in realtà formiche sottovetro che mutano continuamente posizione. Chi tenta di leggere non ci riesce, come nei sogni.

Parte del cervello di Sara è addormentato, non sa decifrare il senso, non sa creare il senso, non sa se ci sia, un senso. 

Prende coraggio e sale su un treno, entra nel vagone e si siede in un posto casuale. Tutti gli altri viaggiatori le danno le spalle. Il treno parte, prende velocità e in un attimo, aldilà del finestrino, ecco una campagna che non le ricorda niente. Chiude le tendine per non venirne accecata. Cerca di dormire ma non ci riesce. Riapre le tendine. Vorrebbe recuperare il cellulare in tasca ma la coglie una paura irrazionale e ingiustificata d’esserselo dimenticato, di mettere la mano in tasca e trovarci solo fili su fili di carta colorata. 

Come si chiama, in gergo clinico, la paura di avere le tasche piene di stelle filanti di carnevali passati?  

È da tanto tempo che Sara non partecipa a un carnevale: il luogo in cui tutto è finto e tutto è finto. Bambini e bambine con abiti del discount da principessa o incredibile Hulk o tutine da Spider-Man e sulla faccia una maschera in plastica da Spider-Man che lascia vedere le guance, le orecchie, i capelli e il collo e ti chiedi se quel bambino abbia un volto o se, tolta la maschera, non ci sia sotto solo un’altra maschera da Spider-Man ma fatta di carne stavolta. Tutti che si aggirano per la piazza mentre un altoparlante butta fuori musica pop, hit parade, festival di Sanremo e ci sono le bancarelle che vendono lo zucchero filato e quelle che vendono le bombolette spray piene di zucchero filato.

Un adolescente, per sfida, si spruzza l’intero contenuto della bomboletta in bocca e deglutisce e Sara lo immagina steso a terra con la schiuma alla bocca e invece quello salta su come un ossesso perché è penetrato chissà come nella verità del carnevale, nell’idea assoluta di carnevale, e se ne va a zonzo estatico, prova il calcinculo e i tappeti elastici finché non te lo ritrovi a tarda sera a galleggiare in cielo come un astronauta. 

Forse ho solo bisogno di un caffè – pensa Sara. E poi – È colpa del pranzo di nozze. I pranzi di nozze non finiscono mai.

Sei bellissima in tacchi e vestito da cerimonia ma dopo un po’ ti stanchi, ti sciogli pian piano sulla sedia e non ti vergogni neanche più di apparire distrutta davanti a un tavolo pieno di sconosciuti che spiluzzicano roast-beef freddo e patate arrosto. 

Non dovrebbero servire il secondo, ai matrimoni. Ai matrimoni, nessuno mangia davvero il secondo e le imprese di catering piangono.  

Tutti si sono già sfondati con aperitivo e antipasti, fonduta e bis di primi. Tutti vogliono andarsene ma non si può prima del taglio della torta. 

Ogni matrimonio – pensa Sara – è un lungo addio.

Nessuno vede più gli amici, dopo che si sono sposati, o almeno, nessuno li vede più come prima. I saluti della sposa a ogni tavolino sono frammenti di un discorso funebre: “Grazie di aver fatto parte della mia vita.” 

Lo sposo, spesso, non passa nemmeno. Beve vino. 

È l’ultimo dei sacramenti. Il prossimo sarà un battesimo – che li riguarderà indirettamente – per poi passare al funerale – di cui saranno oggetto e non soggetto. 

Un matrimonio – pensa Sara – è l’ultimo momento in cui si è prima persona singolare per poi divenire seconda plurale.

E poi pensa – Da quant’è che sono vestita da sposa? 

Poco prima, al distributore automatico, al posto delle monete, in effetti, ha usato il petalo di un fiore del suo bouquet. 

Il treno, intanto, abbandona la necessità lineare per divenire altro. Sara ne ascolta il rumore sui binari e quel rumore fa tru-trun tru-trun tru-trun, musica di sottofondo e nessuna storia, tru-trun tru-trun tru-trun, da quanto tempo non vivo una storia, tru-trun tru-trun-trun, da quanto tempo tutto quello che faccio è sorridere a frammenti di storie altrui? 

Quel rumore fa: come si racconta la tenerezza?

Quel rumore fa: come si raccontano la tenerezza e l’inconsapevolezza?

Quel rumore fa: come si racconta quanto siamo dolci e dolcemente, brutti? 

I nostri corpi non s’incastrano mai perfettamente l’uno con l’altro, pezzi di un puzzle privo di soluzione che non combaciano mai del tutto e, quando combaciano, si stancano presto della perfezione che hanno accanto. 

Quel rumore fa: quanto tempo è passato da quando il tuo corpo nudo è stato vicino a un altro corpo nudo? Quanto tempo da un abbraccio desiderato da entrambi? Quanto ti manca la consolazione di perdersi nel calore di un’altra persona? 

Si potrebbe piangere, per una cosa del genere. Per una tiepida primavera altra.

Aldilà del finestrino, solo in mezzo a un campo da basket polveroso, un ragazzo si agita come un animale ferito, le spalle lo trascinano a destra e a sinistra, si lascia spostare dalla parte del corpo che, in quel momento, gli diventa pesante. A volte è la testa che crolla in avanti e il busto la segue, insegue la nuca per qualche passo, gli occhi fissi sul cemento sfocato. Poi è la gamba destra che s’addormenta e lui la trascina, il movimento si fa circolare finché il ginocchio crolla, la spalla sinistra diventa d’improvviso leggerissima e uno strattone lo fa esplodere verso l’alto in un salto improvviso che si spezza quando il sedere diviene cemento e tocca terra. Il ragazzo si trascina con mani e unghie, poi si ribalta come una tartaruga rovesciata quando la spina dorsale prende cento chili. Gli arti si sollevano verso il cielo e sventolano come bandiere, come i pupazzi di plastica con l’aria dentro di fronte alle concessionarie americane. Sembra uno spettacolo di danza contemporanea.

Pare danza contemporanea ma è come Sara si sente adesso: senza centro, dimentica di come si guidi il proprio corpo. 

Il suo corpo è un’auto e al volante c’è una ragazzina di diciassette anni alla prima lezione di scuola guida. Tira il freno a mano, schiaccia sulla frizione, tutto si spegne, lei va nel panico e l’istruttore le dice: “Stai calma, fa’ una cosa alla volta, che cosa devi ora, metti la freccia, svolta a sinistra, no quella non è la sinistra, la sinistra è l’altra, che cosa fai, questo è un senso unico…”

Le altre auto le vengono addosso, suonano il clacson e lei non può che spegnere tutto, chiudere tutto, persino gli occhi, accogliere il buio e lasciare che ogni cosa – le urla, i clacson, i consigli dell’istruttore, il corpo di metallo che la circonda – sparisca. Essere il niente al centro del tutto, delegare ogni responsabilità, succeda quel che succeda. 

Si può essere stufi di essere il centro di sé stessi?

Tutta l’esperienza di Sara è filtrata dal corpo che ha, dalla macchina di carne in decomposizione che le è dato di guidare. Si è presa i bozzi, gli incidenti, ha rinnovato l’assicurazione ma non può cambiare auto, se la dovrà portare fino alla fine, le dispiacerebbe persino cambiarla perché in fondo ci si è affezionata, le ha dato un nome, le piacciono la musica che esce dall’autoradio, le cianfrusaglie abbandonate negli scomparti laterali, le bottiglie di plastica sotto i sedili. Quell’auto è il posto in cui ha fatto l’amore per la prima volta, è il primo viaggio in famiglia, ci ha pure dormito, qualche volta, l’ha portata ovunque, quell’auto.

È tempo di riordinare i miei pensieri – pensa la sposa in fuga. Ripartire da capo e dare senso a questo vomito vitale. 

Lo scopo di Sara non è mai stato il diario, ma il racconto. Perché non esistiamo che in relazione, vero? Non esiste storia senza lettore. E allora ci addomestichiamo pensando a chi ci leggerà, ci facciamo belli, ci ripuliamo, ci trasformiamo in storie per qualcun altro, ci vestiamo, ci profumiamo, ci mettiamo in tiro, ci pettiniamo, ci leghiamo le stringhe, ci puliamo lo sporco d’attorno alla bocca, ci soffiamo il naso e usciamo sembrando parole diverse da quelle che siamo, parole che vanno bene, parole presentabili anche quando offendono o tolgono l’equilibrio, il tappeto da sotto i piedi. 

Parole di senso. 

Vite che sembrano che tu le abbia pensate e invece sono loro che hanno pensato te. Il treno va avanti senza bisogno di pensarlo.

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