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4 Maggio 2024

“VITA IMMAGINARIA/2”

-5 al Salone del libro di Torino. Quest’anno il tema è “Vita Immaginaria”. Il nostro countdown continua con il nuovo racconto di Flaminia Festuccia: ma i ricordi che condizionano la nostra esistenza sono davvero reali? Noi intanto TI IMMAGINIAMO GIÀ QUI: Edizioni Spartaco – Stand Q59 – Padiglione 3 – Lingotto Fiere – 9/13 maggio.

Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri

Mio fratello

«Sai qual è la cosa più strana?». Gli costa fatica dirlo, eppure cerca di mettere nel tono quanta più leggerezza possibile, Alberto, quasi fosse un normale spunto di conversazione. «Non ho nessuna foto con lui»

Chiara, seduta al bancone della cucina, lo guarda senza rispondere. Sono questi i momenti in cui lui riesce a dire più cose, con gli occhi di lei addosso ma indaffarato a fare altro, senza doverla guardare a sua volta.

Sta preparando il sushi, stasera, un’attività abbastanza impegnativa da dargli modo di far uscire le parole evitando di pesarle troppo. Ha inumidito e steso l’alga nori sul tappetino di bambù, e ora sta disponendo il riso bagnato con l’aceto in uno strato uniforme e geometrico.

L’ha scoperto da poco, quanta pace gli mette cucinare questi piatti elaborati, dalle preparazioni precise. La cucina quotidiana lo sfinisce, mentre seguire ricette complesse passaggio dopo passaggio è una terapia che non aveva considerato.

Ne ha parlato con la dottoressa Attili, di recente, e lei si è limitata ad annuire commentando laconica: «Ognuno trova i suoi meccanismi di coping». Gli stanno diventando familiari tutti questi termini che la dottoressa lascia cadere qua e là. Durante le prime sedute non osava chiedere per non sentirsi troppo ignorante, poi appena usciva dallo studio si affrettava a cercare su internet. Coping: strategie mentali per fronteggiare situazioni problematiche. E ce n’è di problematico, nelle sue situazioni. L’ansia, ad esempio, fedele compagna che lo tiene per mano da che ha memoria, irrigidendogli le spalle e chiudendogli la gola, inumidendogli le mani e rendendo la voce incerta e tremula. Ci sta provando anche ora, ma lui tiene gli occhi fissi sul filetto di salmone, le mani decise sul coltello affilato che si muove preciso, in tagli obliqui e sottili.

«Ne hai parlato con tua madre?».

Gli chiede Chiara, dopo un silenzio che a lui è parso lunghissimo, ma che sarà stato al massimo di un minuto. È la domanda logica da fare, ma Alberto quasi perde il controllo sul coltello, che si ferma a un millimetro dal suo indice sinistro. Quest’ultima fetta di salmone è storta, imperfetta. La mette da parte prima di rispondere con una domanda di cui sa già la risposta

«Tu pensi che dovrei?».

Chiara, abile, gli rilancia la palla. «La dottoressa che dice?».

«Di prendermi i miei tempi», mente lui. Magari era anche vero tre mesi fa, ma adesso anche la Attili lo sta pressando perché affronti l’argomento.

«Non se ne esce in altro modo, Alberto», gli ha detto anche questo pomeriggio. Gli dà del tu, lei. Lui non riesce. Per lui lei è la dottoressa anche quando ripensa alle sedute nei giorni successivi.

È stata Chiara a spingerlo a vederla, o meglio: stare con Chiara gli ha fatto capire i cumuli di spazzatura irrisolta che aveva ammassato dentro di sé, e che stavano inquinando ogni angolo, colando liquami nel sottosuolo della sua anima. Non ci viveva male, in quella discarica, abituato a fare uno slalom quotidiano tra i detriti peggiori. Chiara lo aveva costretto a considerare l’idea di invitarci degli ospiti, in quel caos. La dottoressa Attili era tipo una di quei tizi dei programmi tv che entrano nelle case degli accumulatori seriali e gli insegnano a scrostare decenni di sporco.

Insieme, in quei mesi, erano arrivati al nucleo. Il mucchio originario, il primo sacchetto di spazzatura lasciato lì a marcire invece di essere portato fuori.

La morte di suo fratello.

Un ricordo così strano che alcune volte pensa che sia stato un sogno. Ma troppi dettagli confermano che sia vero, nonostante i suoi genitori non gliene abbiano mai parlato. Certo, una scelta come un’altra. Condivisibile, pure. Come fai a raccontare a tuo figlio che a tre anni o giù di lì ha ucciso il suo fratello gemello?

Quando lo ha raccontato a Chiara, lo ha fatto con lo stesso tono piatto con cui le avrebbe detto di un ingorgo di traffico trovato per arrivare al lavoro una mattina. Non è stata la prima persona a cui l’ha detto, e ogni volta ha avuto reazioni simili: paralisi, mutismo, orrore, qualcuno una risatina imbarazzata, e a volte delle domande curiose, morbose. Lei no. Lei si è alzata dal divano e gli si è parata davanti, prendendogli il viso tra le mani. «Sai che non può essere stata colpa tua, lo sai vero?»

Lo sapeva, certo. Ma nessuno gliel’aveva mai detto, non con quella decisione e quegli occhi limpidi e privi di giudizio.

Si ricorda il giardino della casa al mare, il muretto a secco con le pietre grigie e le sporgenze e le rientranze perfette per arrampicarsi. Si ricorda la conquista di quel muretto, e poi – stavano litigando? Difficile dirlo. Sicuro si strattonavano e si spingevano. E poi l’altro era caduto giù.

Si ricorda anche le urla di sua madre che sollevava da terra un piccolo corpo, lo stringeva tra le braccia sporcandosi di sangue. E lui, seduto in cima a quel muretto, dimenticato e solo, mentre intorno panico, e un asciugamano chiaro che si tingeva di rosso, e una macchina messa in moto in fretta e furia, la corsa in ospedale. Se lo ricorda con la chiarezza che solo i traumi sanno avere.

Eppure a casa non se n’è mai parlato. Non una parola, non un ricordo, non una foto di quel fratello di cui lui ha un’unica memoria: il giorno in cui è morto.

«Prova a capire le loro ragioni: hanno voluto proteggere il figlio che gli era rimasto», ha detto la dottoressa Attili nel corso di una delle prime sedute.

Alberto ha finito di chiudere il primo rotolo di sushi, lo ha tagliato a fette dello stesso spessore, disposto su un vassoio di legno. Ora passa al secondo, con l’avocado e il tonno cotto. 

«Sicura che non ti dispiace se io mangio questo al salmone?»

Chiara ha sorriso, la mano in un gesto istintivo a toccarsi la pancia

«Lo sai che non mi pesano queste rinunce».

«Ma possiamo farle in due».

«Ah, dai, non fare l’idiota. Sarebbe stupido se ti negassi il pesce crudo anche tu. Dolce, ma stupido. Lo so quanto ti piace».

E poi lo ha fatto. Glielo deve, questo, a Chiara, e al bambino che arriverà tra cinque mesi. La conversazione con sua madre è iniziata quasi allo stesso modo.

«Non capisco perché non ho nessuna foto con lui».

Solo che lei, al contrario di Chiara, non ha annuito con aria d’intesa, ma ha aggrottato le sopracciglia.

«Scusa ma di che stai parlando?».

«Lo sai. Cioè, lo capisco anche, e in fondo lo apprezzo pure, però dopo più di trent’anni non serve più proteggermi».

Si era preparato bene questo discorso, tutta l’analisi fatta con la dottoressa Attili, le lunghe conversazioni con Chiara. Da quando avevano saputo di aspettare un bambino si erano avvicinati ancora di più, e certe notti le avevano passate svegli a parlare di tutte quelle cose che hanno bisogno del buio per essere dette. Solo attraverso di lei, attraverso la sua compassione, aveva potuto decidere di affrontare quel ricordo silenzioso che si era trascinato dentro per oltre tre decenni.

«Alberto io non so davvero a cosa ti riferisci».

Bevendo un tè, come due adulti civili e quasi estranei, al tavolo del salone, gli sembra quasi di sentirla, la presenza di quel fantasma, nel posto vuoto accanto a lui. Gli sembra quasi di poter allungare la mano e toccare il braccio identico al suo, di potergli dare un calcetto sotto al tavolo come a dirsi eh, la mamma, sempre uguale…

«Mamma per favore. Per favore. Lo so che è stata colpa mia, lo so che sono stato io. Ho bisogno di sentirtelo dire. Ho bisogno che smettiamo di fare finta che non sia successo. Sto…ci sto lavorando, sai. Su di me. Mi dispiace trascinarti di nuovo in questa cosa, in questo dolore, ma…».

Lei ha posato la tazza sul piattino, lentamente, guardandolo come uno completamente folle.

«Devi essere più preciso, tesoro. Capisco se nel tuo percorso di analisi stanno venendo fuori cose, ma se decidi di tirarmi dentro dovresti almeno spiegarmi».

Lì si è arrabbiato. Oh, se si è arrabbiato. E ha alzato la voce. È stato bello farlo, sentirsi riecheggiare forte in quel salotto ordinato, con il tavolo e la tovaglia e le tazze da tè.

«Spiegarti? Sei tu che dovresti spiegare a me perché non mi avete mai voluto dire nulla di…me lo ricordo perfettamente, senza che fai quella faccia. La casa al mare, il muretto. Sono stato io a spingerlo, io l’ho…».

«Alberto ma cosa dici?».

«Mio fratello. Mio fratello, mio…».

La voce gli si è spezzata in un singhiozzo secco. Sua madre si è alzata di scatto, facendo il giro del tavolo. Lo ha preso per le spalle, costringendolo a voltarsi.

«Alberto. Guardami. Non c’era nessun fratello, quel giorno. Sei tu che sei caduto dal muretto, non ti ricordi? Ti dicevo sempre di non arrampicarti, ma è stato un attimo. Sei caduto e hai battuto la testa, forte… il sangue, mi ricordo il sangue ovunque e tu che eri… sembravi come… e la corsa in ospedale, la paura che ho avuto. Giorni, giorni interi e tu non ti svegliavi».

Le parole di sua madre gli arrivano distanti, come il racconto di una vita vissuta da qualcun altro. E ha tutto senso, ha tutto davvero molto più senso.

«Ma io mi ricordo» dice lo stesso, testardo. «Tutti questi anni. Mi è sempre mancata una parte, ho sempre avuto un buco». Ha nascosto di nuovo la faccia tra le braccia.

«Eri tu quel bambino, tesoro. Eri tu. Senti».

Sua madre gli tocca la testa, infilando le dita nella massa di ricci sulla nuca, come a cercare qualcosa.

«Ecco. Senti anche tu. Ti hanno dovuto ricucire le ossa, qui. Si sente la cicatrice, ancora dopo tutti questi anni».

Ed eccola, infatti. Seguendo le dita di sua madre sente la sutura dell’osso, la cute di una consistenza diversa. Non se ne era mai accorto. Eppure, eppure. Può aver vissuto tutti quegli anni con quel ricordo, con quella colpa, solo per sapere dopo trent’anni che non era vero nulla?

«Io mi ricordo. Io mi ricordo» dice ancora, più a se stesso che a lei, ormai «mio fratello, io avevo un fratello».

Si aspetta che sua madre lo corregga di nuovo, e invece non lo fa. Il silenzio che cala sulla stanza ha una qualità diversa, ora, più densa. Non è più solo quello della sua ostinazione, ha il sapore della somma di due sofferenze. Quando alza gli occhi su di lei, la vede che fissa un punto lontano, lontano.

«Mamma?».

«Non è possibile che ti ricordi».

«Cosa? Ma hai appena detto che…».

È pallida, tirata. La sensazione di quella presenza, di quel fantasma, è ancora più forte. Qualcuno a cui dire ma che cos’ha la mamma, non l’ho mai vista così.

E alla fine è lei a rompere il silenzio, un silenzio lungo come gli anni, i mesi e i giorni passati dal 9 aprile del 1980. 

«Il giorno in cui sei nato, Alberto. Avevi un gemello, che non è sopravvissuto».

Etichette: 9-13 maggio 2024, edizioni spartaco, Flaminia Festuccia, la stagione dei papaveri, Lingotto Fiere, Salone del libro di Torino 2024, Stand Q59, Vita Immaginaria