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«Attenti, questo è un tòpos!». Lasciate andare scope, veleni e insetticidi. Un tòpos letterario è molto più di un topo con la “s”. In greco significa luogo e nel linguaggio critico contemporaneo, come nell’antica retorica, sta a indicare quei motivi ricorrenti, quei luoghi comuni appunto, che spesso attraversano le epoche più disparate. Essi rappresentano delle costanti, perché vi ricorrono autori distanti tra loro per cultura e storia, ma allo stesso tempo delle variabili, perché il medesimo tòpos subisce una declinazione differente ogni volta che uno scrittore vi incrocia il proprio sguardo. Ecco il senso di questa rubrica: esplorare la storia dei principali tòpoi letterari, raccontarne la persistenza dal mondo classico a quello moderno (in alcuni casi post-moderno) e utilizzare, così, degli scandagli che diano la misura delle varie stagioni della letteratura e dei rispettivi interpreti.
Rubrica di Alessio Bottone
IL RITORNO, DA ULISSE A MATTIA PASCAL
[…] Rinomato Ulisse, / tu alla dolcezza del ritorno aneli / e un Nume invidïoso il ti contende. […] / Pur, sebbene a gran pena, Itaca avrai […]
(Odissea, XI, vv. 133-139, traduz. di Ippolito Pindemonte)
Impossibile parlare di ritorni in letteratura senza partire dall’Odissea, archetipo di una lunga tradizione che giunge sino ai nostri giorni. Il capolavoro omerico appartiene, infatti, al ciclo dei cosiddetti “poemi del ritorno” (nòstoi), in cui si descriveva il rientro degli eroi achei in patria dopo la distruzione di Troia. Il viaggio di Ulisse verso Itaca rappresenta un punto di riferimento costante per quasi tutti gli esponenti della “letteratura del ritorno”. Odisseo, in quanto personaggio circolare, celebra il ritorno là da dove si era partiti e compie dunque un nòstos progressivo e lineare, teso verso la riconquista di ciò che gli appartiene (la casa, il regno, la famiglia). Egli torna per ritrovare, ma accanto al finalismo c’è anche l’erranza, perché per assecondare quel desiderio di conoscenza che lo renderà poi un simbolo di humanitas deve ritardare il suo nòstos, che ha un valore in sé e per quello a cui conduce.
[…] e a voi soltanto / calerà del ritorno? il suol nativo, / non però senza guai, fiavi concesso.
(Odissea, XII, vv. 180-182, traduz. di Ippolito Pindemonte)
Facendo qualche passo indietro, un predecessore di Ulisse può essere il protagonista dell’Epopea di Gilgamesh (opera che condivide, del resto, più di un elemento con l’Odissea), altro eroe-re che vaga in cerca della vita immortale e torna a casa sconfitto, mentre la tradizione ebraica vede insinuarsi il medesimo tòpos nel libro della Genesi, in particolare nell’episodio della cacciata dell’uomo dall’Eden, che è in fondo una condanna al non-ritorno.
Dopo Omero, invece, il nòstos si ritaglia uno spazio modesto all’interno del teatro classico greco, dai Persiani (l’attesa del ritorno di Serse dalla spedizione) alle Coefore (l’arrivo ad Argo di Oreste) di Eschilo, dalle Trachinie di Sofocle all’Eracle euripideo, dove si affrontano due differenti ritorni dell’Alcide. L’epica nuova che Apollonio Rodio costruisce con le sue Argonautiche passa giusto per una ridefinizione di temi ed episodi omerici, su tutti il motivo del ritorno, che domina il IV libro del poema e si concretizza in un itinerario che ricalca per certi versi quello ulissiaco. In questo caso si tratta, infatti, di un percorso circolare, in cui l’obiettivo finale coincide con la situazione iniziale e la valenza eroica del viaggio è, quindi, nettamente indebolita rispetto alla totale positività che esso incarnava nell’Odissea. La letteratura latina offre, poi, esempi altrettanto significativi: un nòstos comico è al centro dello Stichus plautino, uno rovesciato lo racconta l’Eneide (l’eroe parte dalla propria patria per ritrovarne una nuova), un altro ancora anima un famoso carme del Liber catulliano (Paene insularum, Sirmio, insularumque), in cui il poeta mette in versi la gioia del ricongiungimento con la terra e la casa natie, gioia festosa e irrefrenabile, al punto da richiedere un metro solitamente usato per i contesti tipici della satira o dell’invettiva, il trimetro giambico scazonte.
Che allegria piena, distesa, Sirmione, / rivederti più bella di tutte le isole e penisole / che Nettuno solleva sulle acque diverse / dei laghi trasparenti o del mare immenso. / Quasi non credo d’essere lontano dalla Tinia, / dalle terre bitinie e guardarti sereno. / Vi è felicità più grande che scordare gli affanni, / quando, stremati da viaggi in terra straniera, / la mente si libera del proprio peso e a casa / si torna per riposare nel letto sospirato? / Di tutte le fatiche questo è l’unico premio. / Sirmione, bellissima mia, rallegrati / e rallegratevi anche voi onde lidie del lago: / risuonino nella casa solo grida di gioia.
(Catullo, Liber, XXXI, traduz. di Mario Ramous)
Nelle stesse tragedie di Seneca si ricorre più volte alla situazione drammatica del ritorno, come in numerosi autori successivi, ma per leggere in maniera più “utile” la durata multisecolare di questo tòpos è necessario tralasciarne qualcuno e avvicinarci all’età moderna. Fa da ponte un patrimonio letterario trasversale, quello fiabesco, che unisce il Medioevo e il Barocco, Basile e Andersen, ed è ben nutrito di ritorni, tanto da costringere Vladimir Propp a dedicarvi un’apposita funzione nel teorizzare il celebre schema compositivo. Tuttavia a inaugurare una folta schiera di nòstoi problematici (cioè moderni) è Foscolo, con il sonetto Nè più mai toccherò le sacre sponde, dove si esprime il dolore di un ulisside cui è interdetta la strada verso Itaca-Zante, ma che in compenso è in grado di cantare il suo non-ritorno e adempiere simbolicamente qualcosa di irrealizzabile.
Analogamente nei Promessi sposi l’abbandono del paesello fissato nell’ “Addio ai monti” segna un allontanamento irreversibile e, difatti, al termine del romanzo i due giovani saranno costretti a sradicarsi per iniziare la loro vita insieme, dal momento che l’irruzione della storia (il male) nel nido domestico (l’idillio) ha cambiato le cose per sempre (non a caso qualche critico ha parlato di una cacciata dall’Eden di Renzo e Lucia). Un altro finale, quello dei Malavoglia, sancisce il nòstos del giovane ‘Ntoni ad Aci Trezza, ma si tratta ancora di un approdo che non può restaurare uno status quo ante e il personaggio ne è consapevole, a tal punto da trasformare il proprio ritorno in un ultimo saluto, un addio. Alle soglie del nuovo secolo un anomalo Bildungsroman, Il Giardino della conoscenza di Leopold von Andrian, narra una storia in cui non vi è alcuna crescita per il protagonista, che anzi vive un processo involutivo, in cui l’abbandono della casa paterna è solo esilio, mai avventura, e il ritorno è un ritorno indietro, il contrario del nòstos di Ulisse. Il fu Mattia Pascal, infine, ricorre a diversi tòpoi classici del genere romanzo, ma questi sono ormai dei detriti, non sono più veri dal punto di vista narrativo e il nòstos non fa eccezione: Mattia Pascal è un ulisside senza volontà di ritorno, nel suo peregrinare ha smarrito la sua identità e, di conseguenza, il rientro a Miragno risulta imperfetto, perché a effettuarlo è un “escluso”, un “forestiere della vita”. Pirandello si dimostra anche da questo punto di vista un esemplare testimone della cultura novecentesca e, in quanto tale, dà l’avvio a un filone pressoché dominante in cui un’altra odissea, quella dell’Ulisse di Joyce, svolgerà un ruolo cruciale.
Continua…