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14 Giugno 2016

Uomini e Tòpoi. Il ritorno, da Alvaro a Kundera

«Attenti, questo è un tòpos!». Lasciate andare scope, veleni e insetticidi. Un tòpos letterario è molto più di un topo con la “s”. In greco significa luogo e nel linguaggio critico contemporaneo, come nell’antica retorica, sta a indicare quei motivi ricorrenti, quei luoghi comuni appunto, che spesso attraversano le epoche più disparate. Essi rappresentano delle costanti, perché vi ricorrono autori distanti tra loro per cultura e storia, ma allo stesso tempo delle variabili, perché il medesimo tòpos subisce una declinazione differente ogni volta che uno scrittore vi incrocia il proprio sguardo. Ecco il senso di questa rubrica: esplorare la storia dei principali tòpoi letterari, raccontarne la persistenza dal mondo classico a quello moderno (in alcuni casi post-moderno) e utilizzare, così, degli scandagli che diano la misura delle varie stagioni della letteratura e dei rispettivi interpreti.

Rubrica di Alessio Bottone

IL RITORNO, DA KAVAFIS A PASOLINI

Di nòstoi è piena la narrativa italiana del Novecento e sono soprattutto i romanzi italiani ad aver ispirato questa terza e ultima puntata sul tòpos del ritorno.

Per il pendio riconobbe forme umane che non potevano essere altre che quelle del suo paese. Il treno rallentò la corsa. I viaggiatori si affacciarono al finestrino. Quegli uomini portavano sulle spalle una barella costruita con due rami d’albero e intrecciata di ramoscelli coperti di fronde. Uno di essi, presso il treno, lo guardò fisso. Una donna scalza e vestita di nero s’era inginocchiata presso la forma umana che, ora si vedeva, era un contadino che giaceva inanimato, col cranio sanguinante.- È uno d’un paese vicino – disse uno dei viaggiatori – che ieri arrivò dal reggimento in congedo. Appena vide le montagne del suo paese, credendo di far presto a raggiungerle, si precipitò dal treno in corsa. Ha battuto la testa contro le sbarre del ponte ed è rimasto là secco. È un brutto ritornare.

(C. Alvaro, L’uomo nel labirinto)

Con L’uomo nel labirinto Corrado Alvaro, calabrese sensibile alla cultura europea, descrive un “brutto ritornare” che riguarda strettamente la modernità: Sebastiano Babel ha vissuto la perturbante esperienza della babele cittadina e opta, così, per un rientro al paese natio che ha solo le sembianze di una risoluzione. La realtà sfigura rispetto ai ricordi, la gente assomiglia a un “ammasso di panni sudici” e tutto sembra “infinitamente piccolo e rattrappito”, a testimonianza di una condizione alienata e inautentica che appartiene antropologicamente all’uomo moderno.

Un nòstos di diversa caratura lo racconta Elio Vittorini in Conversazione in Sicilia, dove il trentenne Silvestro rientra nella sua Sicilia per far visita alla madre Concezione e vive un ritorno che è ricerca di significato, plenitudo e autenticità. Come sottolineato da Vincenzo Consolo, si tratta di una combinazione tra l’archetipo dell’Odissea e quello dell’Eneide, dal momento che il protagonista realizza una necessaria immersione nella terra primitiva delle origini (Itaca), ma solo per poter poi riemergere e ripartire alla volta della nuova società (la nuova Troia).

Gian Carlo, Calma, Ritorno a Itaca.
Gian Carlo, Calma, Ritorno a Itaca.

Il tòpos ha una forte centralità anche nell’opera di Cesare Pavese, fin dal componimento di apertura della raccolta Lavorare stanca:A questo ritorno aperto e fondativo se ne oppone diametralmente un altro, quello del Don Giovanni in Sicilia di Vitaliano Brancati, che reca il segno della resa e della chiusura. Se, infatti, per Silvestro riappropriarsi dei luoghi dell’infanzia significava orientarsi a nuovi doveri, per il “gallo” Giovanni Percolla non rappresenta altro che una rinunciataria regressione.

[…]Mio cugino ha parlato stasera. Mi ha chiesto
se salivo con lui: dalla vetta si scorge
nelle notti serene il riflesso del faro
lontano, di Torino. “Tu che abiti a Torino… ”
mi ha detto “…ma hai ragione. La vita va vissuta
lontano dal paese: si profitta e si gode
e poi, quando si torna, come me a quarant’anni,
si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”. […]

                                                                           (C. Pavese, I mari del sud)

Qui il ritorno alle Langhe è termine e approdo di ogni esistenza nomadica, ma il nòstos pavesiano è un concetto in evoluzione, che passa attraverso la vicenda di Clelia in Tra donne sole e culmina nel romanzo conclusivo La luna e i falò, in cui si riduce a un mito destinato a fallire tragicamente, come Anguilla stesso può presto constatare:

[…]le facce, le voci e le mani che dovevano toccarmi e riconoscermi, non c’erano più. Quel che restava era come una piazza l’indomani della fiera, una vigna dopo la vendemmia, il tornar solo in trattoria quando qualcuno ti ha piantato.[…]

La tregua di Primo Levi, come disse Franco Antonicelli, è una piccola Odissea che segue alla piccola Iliade di Se questo è un uomo, mentre in Tutto il miele è finito Carlo Levi descrive una Sardegna dove “ogni andare è un ritornare”. Ma è grazie a due autori siciliani che il motivo del nòstos occupa un posto di rilievo anche nella letteratura del secondo Novecento.

Il primo è Stefano D’Arrigo, che nel magmatico Horcynus Orca narra il ritorno del marinaio ‘Ndria Cambria al villaggio natale di Cariddi, un nòstos che è nekya e discesa agli inferi. In questo romanzo che rilegge l’Odissea omerica attraverso Melville e Joyce (è un’interminabile cronaca di un brevissimo viaggio) il protagonista si mette sulla strada della terra delle madri e dell’infanzia, come il Silvestro di Conversazione in Sicilia, ma il suo è un avvicinamento alla morte e al nulla, destino luttuoso che spetta a ogni spatriato in quanto tale.

L’altro è Vincenzo Consolo, che non a caso è stato un commentatore d’eccezione dei nòstoi di Vittorini, Brancati e D’Arrigo, oltre ad aver condotto una riflessione profonda riguardo al problema-Odissea. Il tema occupa, infatti, un ruolo cruciale all’interno della sua produzione, da Retablo a L’olivo e l’olivastro. In un primo momento è ancora valida la lezione “positiva” di Vittorini, mentre con gli anni ’80 Consolo risale a Omero e alla difficoltà del ritorno di Ulisse, finendo per ridurlo a qualcosa di possibile e necessario, ma il cui compimento è solo consolatorio. A scoprirlo per esempio è il Petro Marano di Nottetempo, casa per casa:

[…]la sua Isola, la sua Itaca, la terra della memoria è scomparsa, è stata devastata, cancellata dai Proci, tutte le terre della memoria sono ormai ridotte a rovine. L’eroe sconfitto può compiere allora il viaggio solo per esprimere furore e dolore, piangere sulle rovine[…]

(V. Consolo e M. Nicolao, Il viaggio di Odisseo)

Il ‘900 si chiude con Luigi Malerba, che in Itaca per sempre ripropone un nòstos omerico sdoppiato nell’alternanza e il parallelismo delle voci narranti di Ulisse e Penelope. Nel frattempo altre forme d’arte, come il cinema, hanno mostrato ritorni altrettanto straordinari. Su tutti il greco Theo Angelopoulos e l’italiano Franco Piavoli (Nòstos – Il ritorno).

Eppure la storia millenaria di questo tòpos sembra destinata a continuare e a inaugurare il ventunesimo secolo è L’ignoranza di Milan Kundera, ultimo tassello di un mosaico ricchissimo.

FINE

Prossimo tòpos: il cibo…