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Ottobre è il mese in cui le ombre si allungano e il confine tra reale e immaginario diventa sottile. Con l’autunno che avanza e le notti che si fanno più nere, i nostri autori esplorano l’inquietudine nascosta tra le pieghe del quotidiano, dando vita a storie che sussurrano di misteri irrisolti e paure ancestrali. Il fascino per antiche leggende è un gioco pericoloso, nel buio di una notte senza luna al CASTELLO DI CARINI, dove antiche suggestioni si fanno tangibili, e il passato prende le sembianze di uno spettrale “uomo in frac”.
Marco Castagna, autore di “I casi di Bolla, La Morte e il Mago”
I MISTERI DEL CASTELLO DI CARINI
«La tua è una fissazione, Lucrezia! Ci butteranno fuori a calci nel sedere!»
«Ti ho detto e ti ripeto che ho un piano!»
«Va bene, va bene. Sentiamo un po’ questo piano» disse Giacomo incrociando le braccia.
Era un bel giovane alto e magro con un viso simpatico caratterizzato dai suoi occhi verde oliva e un grosso paio di baffi molto curati che gli davano l’aria di un nobilotto d’altri tempi. E d’altri tempi sembravano anche i suoi modi sempre gentili e morigerati.
Tutto il contrario di Lucrezia che al suo confronto sembrava un demonio nonostante l’aspetto minuto e il viso d’angelo!
Lei tirò fuori dei rotoli di carta ingiallita e li stese sul letto. Erano delle planimetrie molto antiche.
«Guarda» disse indicando un punto sulla mappa. «Questo è il salone principale, qua si svolgerà il ricevimento».
Avevano ricevuto l’invito per la festa di matrimonio di un’amica e il caso aveva voluto che si svolgesse proprio nel castello Lagrua Talamanca di Carini: un luogo che era diventato l’ossessione di Lucrezia.
«Come fai ad avere queste carte?» la interruppe Giacomo.
«Te l’ho detto che in quel castello hanno vissuto i miei avi! Le ho trovate nel baule delle cose che sono state di mia nonna Michela.»
Giacomo aveva capito che era inutile replicare. La cosa si sarebbe fatta, che lui lo volesse o meno.
«Va bene, continua a illustrare il piano».
«Dopo cena ci sarà il taglio della torta e poi si apriranno le danze che dureranno un paio di ore. Sarà allora che noi due, senza dare nell’occhio, saliremo per questa scala fino al primo piano e percorreremo questo corridoio».
Lo sguardo di Giacomo seguiva l’indice di Lucrezia correre lungo un percorso immaginario sulla pianta dell’edificio.
«Arrivati in questo punto saliremo per questa scala a chiocciola e ci troveremo nell’ala dismessa del castello. Aspetteremo che gli invitati se ne siano tutti andati così come faranno anche gli inservienti, dopo avere messo in ordine».
Giacomo la ascoltava, ammirato dalla sua determinazione.
«Ti prego, spiegami di nuovo perché facciamo tutto questo».
«Una mia antenata, Laura Lanza di Trabia, fu la famosa baronessa di Carini, protagonista di una tragica vicenda che si svolse proprio nel castello Lagrua Talamanca: la sua dimora da sposata» Ripeté Lucrezia, che adorava raccontare quella storia. E Giacomo adorava ascoltarla, così accesa di entusiasmo, pronto a seguirla in qualsiasi impresa. «Suo padre combinò le sue nozze con un membro di una facoltosa e blasonata casata e nel dicembre del 1543, all’età di quattordici anni, Laura andò in sposa al sedicenne don Vincenzo II La Grua Talamanca con il quale visse al castello per vent’anni ed ebbe otto figli» continuò Lucrezia, che stava arrivando ora alla sua parte preferita. «Laura, però, si era innamorata di Ludovico Vernagallo, cugino del marito, con il quale intrecciò una relazione clandestina. La relazione andò avanti per lungo tempo, fino a quando, un giorno, suo padre li sorprese insieme mentre facevano l’amore e li uccise senza pietà con la sua spada. Colpita al ventre, la baronessa si toccò la ferita e, appoggiandosi al muro con la mano, vi lasciò un’impronta insanguinata che rimase presente nel castello fino alla metà del XX secolo, quando il custode, infastidito dal continuo passaggio dei turisti che venivano per vederla, la raschiò dal muro».
«Perché ho l’impressione che queste storie ti piacciano più del normale?»
«Non dire sciocchezze!» tagliò corto Lucrezia, per poi proseguire senza battere ciglio «Il caso della baronessa di Carini non fu subito di dominio pubblico: le famiglie coinvolte misero a tacere i diaristi del tempo, che si limitarono a riportare solo la data e la notizia della morte. Il vedovo si risposò rinnovando alcune stanze del castello e chiudendo per sempre quelle che potevano ricordargli la prima moglie e sono proprio queste le stanze che voglio visitare» disse infine con un lampo negli occhi che Giacomo conosceva bene: per Lucrezia era già iniziata una delle sue avventure. La giovane si mise a cantare un brano della canzone popolare che parlava del delitto.
Signuri Patri, chi viniti a fari? Signura figghia, vi vegnu a ammazzari! E lu baruni chinu di furori tira la spada e ci spacca lu cori. Lu primu corpu la bedda cadiu, l’appressu corpu la bedda muriu.
«Ma cosa pensi di trovarci, insomma?» la interruppe Giacomo.
«Non lo so. So soltanto che devo andare a vedere. Se mi vuoi accompagnare: bene. Altrimenti: addio».
«Va bene, va bene. Ma non pensi che dopo tutti questi secoli quell’ala del castello sia stata restaurata?»
«Impossibile! Risulta che quelle stanze siano rimaste chiuse fino al 1812. Quando avvenne la caduta del feudalesimo. I La Grua Talamanca scapparono in Francia e il castello entrò nel degrado. Soltanto nel 1975, dopo il crollo dell’ala ovest, mio nonno donò il castello al Comune di Carini. Indovina dove si trovano le stanze della baronessa».
«Nell’ala ovest?»
«Esatto! Il Comune in questi anni ha restaurato l’ala est ma non l’altra! Hanno soltanto chiuso gli accessi al pubblico»
«Ma sarà pericolante!»
«È possibile» disse Lucrezia con un’espressione sorniona.
«Scusa, ma il castello non è visitabile?»
«Sì».
«Ho letto che è possibile vedere anche la stanza della Baronessa!»
«Qua ti volevo! È tutta una messa in scena! Hanno ricreato una stanza credibile per i turisti! Le stanze della baronessa erano tutte nell’ala crollata!»
«Quindi se tutto va bene, siamo rovinati!».
«Hai paura? Se è per questo, si dice che il fantasma della nobildonna abiti ancora lì e che la notte si sentano i suoi lamenti. C’è chi giura di avere visto ricomparire l’impronta della mano insanguinata sul muro».
«Ecco! Adesso sono terrorizzato!». Un po’ la prendeva in giro, un po’ lo inquietava davvero tutta quella storia.
Lucrezia fece una risata che sembrava un cinguettio.
«C’è un’altra storia strana attorno al castello di Carini» proseguì Lucrezia, che questi dettagli ancora non glieli aveva raccontati. Dovevano essere frutto delle ultime ricerche. «Uno degli ultimi discendenti della famiglia della Baronessa: Raimondo Lanza di Trabia, era un tipo sui generis. Fu tenente del Regio Esercito durante la Seconda Guerra Mondiale, fra il 1940 e il 1943. In quegli anni frequentò e fu amico di Curzio Malaparte, Gianni e Susanna Agnelli e, dopo la guerra, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Aristotele Onassis. Ebbe relazioni internazionali con personaggi di rilievo del suo tempo, ebbe dei flirt con molte donne famose come Rita Hayworth e Carroll Baker, viaggiò spesso in Europa e negli Stati Uniti. Fu un uomo brillante, avventuroso e mondano e soprattutto fu un appassionato di occultismo. A quanto pare visitò più volte, di nascosto, il castello di Carini e organizzò diverse sedute spiritiche per incontrare il fantasma. Morì nel 1954 per un sospetto suicidio, in circostanze misteriose e mai acclarate, in seguito a una caduta da una finestra di un hotel. La sua tragica morte ispirò Domenico Modugno per la famosa canzone Vecchio frac.»
E finita la lezione di storia, Lucrezia prese a cantare le strofe che parlavano del suicidio davanti allo specchio mentre indossava l’abito da sera.
Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo dorme tutta la città. Solo va un uomo in frac. Ha il cilindro per cappello, due diamanti per gemelli, un bastone di cristallo, la gardenia nell’occhiello e sul candido gilet: un papillon. Un papillon di seta blu. Bonne nuit, bonne nuit, buona notte, va dicendo ad ogni cosa: ai fanali illuminati, ad un gatto innamorato che randagio se ne va. È giunta ormai l’aurora, si spengono i fanali, si sveglia a poco a poco tutta quanta la città. Sbadiglia una finestra sul fiume silenzioso e nella luce bianca galleggiando se ne van un cilindro, un fiore e un frac.
Giacomo la guardava, sempre più diviso tra inquietudine e ammirazione «Mi fai venire i brividi! Non avevo mai fatto caso al fatto che la canzone parlasse di un suicidio!»
«Il castello, gestito dal Comune, è adesso anche sede di eventi come la festa di matrimonio alla quale stiamo andando. Ho controllato sul sito ed è evidente che tutte le attività si svolgono nell’ala est e nel cortile. Te lo dico io: l’ala ovest è rimasta intoccata fino a oggi. Dai, sbrighiamoci! Puoi alzarmi la cerniera, per favore?» chiese Lucrezia girandosi di spalle.
La torcia emetteva una luce ballerina sulle pareti di un corridoio che sembrava non avere fine. Dopo due interminabili minuti si trovarono davanti alla scala a chiocciola. Era una scaletta di legno che prese a cigolare appena cominciarono a salire. Cercarono di muoversi più lentamente possibile per fare meno rumore.
Già dopo i primi scalini si trovarono avvolti dalle ragnatele. Segno che nessuno passava di là chissà da quanto tempo.
Alla fine si trovarono in una piccola stanza buia con quattro poltroncine coperte da lenzuola impolverate.
«Si accomodi, barone!» disse Lucrezia.
«Come puoi avere voglia di scherzare in un posto così lugubre?» rispose Giacomo.
I due giovani si sedettero e rimasero in attesa fino a quando non sentirono più nessun rumore provenire dalle stanze in basso.
Giacomo si era anche appisolato e adesso non capiva più quanto tempo fosse passato. Due ore? Forse tre?
Vide Lucrezia fare luce sulla mappa. La luce riflessa dal basso in alto sul suo viso deformava la sua espressione angelica. Sembrava un’altra persona!
«Non si sente più nessuno, muoviamoci!»
Giacomo seguì Lucrezia che attraversava le stanze con passo sicuro. La luce della torcia guizzava ora sulle pareti attorno a loro, ora sulla mappa tra le mani della ragazza.
Le stanze sembravano tutte uguali: i mobili coperti, la carta da parati sdrucita, qualche quadro ancora appeso alle pareti.
«Eccola! È questa!» esclamò Lucrezia entrando nell’ennesima stanza.
Era simile alle altre, ma molto più ampia. La caratteristica fondamentale era che mancava la parte centrale del soffitto.Alcuni resti del tetto crollato giacevano sul pavimento.
Alzando la testa, Giacomo si sentì avvolto nel buio di una notte senza luna.
Alle pareti erano appesi molti ritratti.
Giacomo ebbe un brivido. Sembrava che tutti guardassero verso di loro.
«Lucrezia… Che facciamo qui?»
La giovane, al centro della stanza, stava osservando i quadri.
«Sss… Fai silenzio! Ascolta!»
Effettivamente si poteva sentire una specie di lamento lontano. A Giacomo era sembrato il sibilare del vento, ma adesso non ne era tanto sicuro.
«Questa è lei! La Baronessa!!» disse Lucrezia illuminando uno dei ritratti.
Era una giovane donna con la pelle diafana e i capelli lunghi, mossi e neri. Gli occhi incavati e contornati da occhiaie scure. Le labbra blu.
Trasalirono. Il ritratto sembrava seguirli con lo sguardo.
«Hai visto? Si è mossa!» urlò Giacomo terrorizzato.
«Non è un quadro…» disse Lucrezia girandosi di scatto e illuminando l’angolo opposto.
«È uno specchio!»
Era stata lì, immobile, per tutto il tempo.
Adesso ce l’avevano davanti. Indossava una camicia da notte bianca sporca di sangue. Del sangue gocciolava anche dalla sua mano destra.
La creatura emetteva uno strano lamento. Sembrava un suono che venisse da lontano e invece proveniva dalla sua bocca chiusa.
Prese ad accarezzarsi il ventre squarciato in maniera convulsa. Aprì le labbra.
«Ahi, ahi, ahi…» disse con una voce innaturale. Poi si rivolse ai due giovani.
«Dovete andare via! Subito!»
Non sapevano più cosa fare, si sentivano immobilizzati dal terrore. La scena era orribile.
«Lui sta arrivando! Scappate!»
Si sentì un forte rumore: come se cento finestre si fossero improvvisamente spalancate a causa del vento.
I due giovani si guardarono intorno senza sapere cosa fare. Scappare, sì. Ma da che parte?
Si girarono nuovamente verso la baronessa e trovarono con sorpresa che accanto al fantasma era apparsa un’altra figura. Era un uomo ben vestito. Indossava un frac, un gilet bianco e un papillon blu. Brandiva un lungo stiletto con il quale prese a colpire la baronessa al ventre più volte.
«Vedete?» urlò piangendo la baronessa che si toccò il ventre e mostrò la mano insanguinata.
«Avete visto? Questo è l’incantesimo maledetto che si ripete ogni notte!»
Si appoggiò al muro, ma le gambe non le ressero e cadde a terra in una posa scomposta.
Sulla parete, l’impronta di sangue della mano, spiccava come se fosse fluorescente.
L’assassino sembrò accorgersi solo allora della loro presenza. Li squadrò entrambi dall’alto in basso con lo stiletto ancora in mano.
«Pensate che la maledizione stia nell’infliggere ogni notte questa pena a mia figlia? Come un’eterna punizione per avere pregiudicato l’onore della nostra famiglia?»
I due erano impietriti. Dalla lama gocciolava ancora del sangue e la baronessa giaceva a terra in una pozza rosso cupo.
«Ebbene, non è così. questo sortilegio non è solo una punizione per mia figlia: è soprattutto la mia condanna».
Si avvicinò alla coppia. Giacomo, istintivamente, si portò davanti a Lucrezia come per difenderla con il suo corpo.
«Sì! Sono condannato a uccidere il sangue del mio sangue… La mia amata figlia per l’eternità! E per cosa? Per il più stupido ed effimero dei valori morali: l’onore! Ma a cosa serve l’onore adesso? Voi lo sapete?»
Aveva gli occhi fuori dalle orbite, sembrava fuori di sé.
«Ve lo dico io: a niente! Non serve a niente!»
Sembrò calmarsi. Lasciò cadere lo spadino a terra.
«Questa maledizione è il mio tormento e quello di questa povera mia creatura» disse indicando la baronessa riversa sul suo stesso sangue.
«C’è solo un modo per salvarci… Per venirne fuori. Per uscire dall’incantesimo che ci distrugge ogni notte per l’eternità».
Sotto gli occhi increduli dei due giovani, la baronessa si rialzò lentamente e si mise al fianco del padre che continuò a parlare.
«Parecchi anni fa ero riuscito a incarnarmi nel corpo di un discendente della famiglia di mia figlia. Infatti, adesso voi mi vedete nelle sue spoglie».
“L’uomo in frac!” pensò Giacomo con terrore.
«Purtroppo, quell’uomo aveva uno spirito particolarmente forte e, piuttosto che vivere una vita da posseduto, preferì uccidersi!»
Si avvicinò ancora di più. Giacomo sentì il suo alito gelido sul volto.
«Ma forse oggi…»
Lucrezia stava scherzando con le amiche in un locale alla moda. Avevano finito di cenare, era stata davvero una bella serata.
Andò in bagno per rinfrescare il trucco. Si guardò allo specchio: era perfetta. Orecchini in pendant con la collana, capelli raccolti a formare uno chignon, tailleur bianco, pochette in tono con le scarpe avorio. Una scintilla diabolica negli occhi.
Non era mai più tornata al castello e Giacomo… “Povero Giacomo” pensò. Giacomo era in coma da quasi un anno ormai.
Una volta fuori dal locale, salutò le amiche e si avviò per strada. Avrebbe fatto quattro passi prima di tornare a casa.
Ingannò il tempo canticchiando.
È giunta mezzanotte, si spengono i rumori, si spegne anche l’insegna di quell’ultimo caffè. Le strade son deserte, deserte e silenziose, un’ultima carrozza cigolando se ne va. Il fiume scorre lento frusciando sotto i ponti, la luna splende in cielo, dorme tutta la città.
Solo va un uomo in frac.
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