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15 Ottobre 2024

TRAME SOSPESE/2

Ottobre è il mese in cui le ombre si allungano e il confine tra reale e immaginario diventa sottile. Con l’autunno che avanza e le notti che si fanno più nere, i nostri autori esplorano l’inquietudine nascosta tra le pieghe del quotidiano, dando vita a storie che sussurrano di misteri irrisolti e paure ancestrali. Come gli orrori celati dalla porta di una STANZA CHIUSA, nutriti da anni di silenzi e per questo ancora più terrificanti e innominabili.

Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo

LA STANZA CHIUSA

«È morto?» domandò la donna rimasta seduta in poltrona con lo sguardo nel vuoto.

«È morto» confermò il marito che tuttavia aveva richiuso l’uscio della stanza a doppia mandata.

«Morto dici… Come lo sai con certezza? Lo hai toccato?».

«Certo che no, accidenti. Ma se lo vedessi anche tu non avresti dubbi. È morto».

«No, non voglio vederlo. Non voglio vederlo mai più» borbottò rafforzando il concetto con un diniego del capo «Lo hai slegato?».

«Non ci penso nemmeno! E se per caso non lo fosse?».

«Mi hai appena detto che è sicuramente morto».

«Lo so quello che ho detto, donna. Non rompermi l’anima con le tue chiacchiere».

Restarono in silenzio, lei seduta sulla poltrona e il marito appoggiato alla vetrinetta di finto mogano.

«Immagino che dovremo chiamare quel tipo orribile».

«Già» rispose l’uomo scuotendosi, come aspettasse un cenno.

Non era piaciuto nemmeno a lui quello sbruffone. Si era deciso a parlargli del loro problema perché, per quanto si lambiccasse, non riusciva a trovare una soluzione migliore. Non che gli avesse detto granché. Non era mica possibile spiegare la loro situazione senza essere presi per pazzi, quindi si era limitato a vaghi accenni e a promettere un compenso ben più cospicuo di una normale disinfestazione.

«Per quella cifra sono pronto a disfarvi perfino del diavolo in persona!» aveva commentato incredulo mentre rincalzava i pantaloni sotto la pancia prominente. Erano rimasti d’accordo che l’avrebbe chiamato al momento opportuno e sarebbe intervenuto in giornata.

«Pensi che sarà in grado di sbarazzarcene?».

«Non ne ho idea. Pareva molto sicuro di sé e allettato dalla ricompensa, ma…» l’uomo indicò la porta chiusa della stanza poi spalancò le braccia in un gesto fatalista “…chissà!”.

«Non mi sembra vero» sussurrò la donna sporgendosi in avanti, i gomiti sulle ginocchia e le dita intrecciate fino a sbiancare le nocche. Lui le si avvicinò e le strinse la spalla esile.

«Ci sarà cattivo odore qui dentro?»

«Certo che c’è, anche se noi non lo sentiamo più. Ma se ti stai preoccupando per quell’individuo che deve arrivare non pensarci… è abituato a fogne e sotterranei umidi».

«Come faremo adesso?».

«Ci penseremo più tardi… un problema alla volta».

Sulla puntualità l’uomo fu di parola. Poco più di un’ora dopo suonò il campanello e la donna dal citofono sussurrò «Quarto piano, dodici B». Era la prima volta che facevano salire qualcuno in casa.

Lo attesero sull’uscio sentendolo sbuffare dal piano di sotto, arrancando sulla penultima rampa appesantito dai ferri del mestiere. Aveva con sé una valigia di plastica rigida, uno zaino sulle spalle e una specie di grosso aspiratore munito di tubo flessibile.

«Non mi avete anticipato granché…» accennò nel sibilo del respiro mozzato «Quindi mi sono portato dietro un po’ di attrezzatura». Era paonazzo. Si sarebbe detto sull’orlo di un colpo apoplettico.

«Si accomodi».

«Oh, Signore, che puzza!» si lasciò sfuggire non appena varcata la soglia «Gran Dio, ma che ci tenete qui dentro?».

Scorgendo l’imbarazzo dei coniugi, nel timore di mettere a repentaglio la sua reputazione e l’ingente compenso, si fece subito rassicurante.

«Non dovete preoccuparvi di nulla. Sono qua io. Ora fatemi dare un’occhiata e in men che non si dica avrò risolto la situazione».

«Venga, da questa parte» accennò il marito mentre la donna tornava a sedersi sulla poltrona.

Si portò vicino all’uscio della stanza chiusa, ma prima di girare la chiave attese che l’uomo terminasse la sua vestizione: tuta di materiale plastico, stivali in gomma, mascherina e occhiali protettivi.

«Vediamo un po’» concluse baldanzoso.

Il marito girò due volte la chiave nella toppa e socchiuse appena il battente, lasciando all’uomo il compito di spalancarlo.

Entrò deciso inoltrandosi un passo oltre la soglia.

«Oh Cristo! Ma che…».

La donna alzò appena il viso. Il rossore sulla fronte persistette laddove le dita l’avevano stretta in un moto di angosciosa attesa.

Vide di scorcio l’interno della stanza che ben conosceva. Pareti insudiciate di vecchio sangue rappreso, con profondi solchi di unghiate fin quasi al soffitto. Una testa di coniglio parzialmentedivorata giaceva tra l’imbottitura di un materasso sventrato.

«Cosa… cosa…» balbettava l’uomo retrocedendo. Inciampò nella valigetta che aveva depositato a terra, stramazzò, ma continuò a rinculare spingendo sui talloni, aggrappandosi con le mani al tappeto del salotto e fermandosi solo contro la libreria dalla quale cadde la foto del matrimonio.

«Ma cosa diavolo…» La mascherina gli era scesa sul mento e sotto gli occhiali appannati era pallido come un cencio.

Il marito richiuse l’uscio rassegnato, quasi avesse presagito l’esito fallimentare di quel tentativo.

«Ma cos’è quello?» balbettava mentre raccattava carponi la sua attrezzatura.

«Ma come pensate che si possa fare uscire quel… quel…» in mancanza del termine indicava col dito tremante la stanza. L’odore nauseante si era propagato ovunque.

«Non passa nemmeno per l’uscio, Cristo!» gridò con quel poco di orgoglio che l’essersi rimesso in piedi gli aveva infuso.

«Pensavamo che magari, depezzandolo…».

«Depe… cosa?»

«Facendolo a pezzi» precisò la moglie con un filo di voce rotta dalla delusione.

L’uomo non le diede nemmeno retta. Con la sua ridicola tuta infilò le scale e scese la prima rampa sbatacchiando il bidone dell’aspiratore contro il corrimano.

«Aspetti» lo rincorse il marito «Lo zaino. Ha lasciato lo zaino».

Mentre lo aiutava a infilare le cinghie gli consegnò dieci delle duecento banconote pattuite per il lavoro. La mano che le strinse era tremante e sudata.

«La prego. Non ne faccia parola con nessuno».

Dovette accontentarsi di un vago cenno di assenso e un’unica parola sibilata nell’intontimento da shock: «Nessuno…».

Quando risalì trovò la moglie davanti alla porta chiusa.

«Apri, voglio vederlo».

«Avevi detto che…».

«Lo so cosa ho detto. Apri per favore».

Il tanfo si riversò fuori come l’acqua al cedimento di una diga.

«Non avevo realizzato di quanto fosse diventato enorme».

«Ti ho sempre detto di non dargli tutta quella carne».

«Non è colpa del cibo». Lei lo fissò dritto negli occhi, lui sostenne lo sguardo per qualche secondo poi socchiuse i suoi.

«È iniziato a crescere da quando abbiamo cominciato ad avere paura di lui, ormai tanto tempo fa».

Il marito sbirciò, giusto per verificare che il suo sguardo fosse ancora rivolto a lui. Era ancora lì, e preferì guardare il cadavere piuttosto che affrontare quella scomoda verità.

«Il cibo serviva solo a farlo restare calmo, ma è stata la nostra paura a farlo diventare così. Adesso chiudi, altrimenti finisce che vomito».

C’erano ottanta chili di carne nel congelatore della cantina, anche quello era un problema da risolvere.

«Che facciamo adesso?».

«L’unica cosa che possiamo fare» rispose lui come se cullasse quell’idea da tempo «Andarcene».

«Prima dobbiamo sistemare tutto questo…».

«No» la interruppe «Dobbiamo solo prendere le nostre cose e andarcene lontano».

«Ma come pensi che il padrone di casa…».

«Fatti suoi. Siamo stati inquilini modello per trent’anni. Mai un rumore, mai una richiesta. Ho imparato a essere idraulico ed elettricista pur di non far mai entrare qualcuno qui dentro… Che se la veda lui, adesso».

Capiva che l’idea cominciava a fare breccia nella mente di sua moglie e rincarò la dose.

«Inoltre non sono sicuro di aver tacitato quell’idiota appena scappato a gambe levate. Magari fra un mese o un anno si vanterà di aver visto ciò che ha visto…».

«Lo prenderanno per matto».

«E col cadavere, come faremo? Già da vivo il puzzo era insostenibile, fra un paio di giorni non potremo più gestire la situazione».

«Andarcene, dici… Da quanto tempo non usciamo da questa casa tu e io insieme, senza che uno debba restare per sorvegliarlo?».

«Ventidue anni abbondanti» rispose, ormai fiducioso.

«Saranno ventitré a maggio» precisò lei.

«Ventitré a maggio».

«Lontano, dici… Per non tornare mai più?».

Lui annuendo sorrise come non capitava da tempo. Lei faceva la ritrosa, ma dentro le si stava sciogliendo qualcosa, un grumo di dolore che forse non sarebbe mai riuscita a ingoiare del tutto.

«Per non tornare mai più».  

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