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8 Ottobre 2024

TRAME SOSPESE/1

Ottobre è il mese in cui le ombre si allungano e il confine tra reale e immaginario diventa sottile. Con l’autunno che avanza e le notti che si fanno più nere, i nostri autori esplorano l’inquietudine nascosta tra le pieghe del quotidiano, dando vita a storie che sussurrano di misteri irrisolti e paure ancestrali. Tutto ha una spiegazione razionale, anche i rumori sospetti che si levano in mezzo a canneti e acquitrini durante una battuta di caccia tra amici. Ma ignorare LA VOCE DELLA PALUDE può non essere una scelta saggia.

Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri

LA VOCE DELLA PALUDE

Le regole gliele ha dettate una vecchina sdentata di quelle che pensavi fossero estinte, labbra rugose ritratte sulle gengive, un unico incisivo giallo che spuntava da sotto in su.

«Strega» ha sibilato Enrico, stringendosi la giacca addosso come se avesse freddo e non fosse una mattina stranamente tiepida. Giulio l’ha guardato sorridendo fra sé. Fa tanto il gaggio, Enrico, coi muscoli e la palestra e la testa rasata e gli occhiali scuri da gangster, ma sotto sotto è una mammola che quasi ha ancora paura del buio come quando erano bambini.

Accanto a lui, Laika uggiola impaziente. Una furia quella cagna. Ha fiutato l’acquitrino già da qui, con le sue promesse di piume frementi e piccoli corpi da raccogliere ancora caldi e pulsanti.

«Ma che ha detto la vecchia?» gli fa Enrico quando quella se n’è andata, lasciandogli le chiavi della casa – poco più di una baracca, un casotto per cacciatori ai margini della palude, alla fine di uno sterrato infinito su cui il vecchio Land Rover di Giulio ha tossito per chilometri esalando fumi di diesel esausto. 

La signora parlava un dialetto stretto che pure Giulio, che qui al nord ci vive da vent’anni, ha faticato a capire.

«Ha detto che la stufa fa un po’ di fumo, di lasciare le finestre aperte», traduce. «E di non bere l’acqua del lavello, che non è potabile. Se vogliamo c’è il pozzo fuori»

«Ah, per fortuna siamo arrivati preparati» lo interrompe Enrico, indicando le due casse d’acqua minerale che ha appena tirato giù dal bagagliaio «Figurati se mi fido a bere l’acqua di qui».

«Possiamo sempre farla bollire» dice Giulio «E poi ho le pastiglie di cloro in caso».

«Solito boy-scout»

«Solito principino»

Si punzecchiano così mentre finiscono di scaricare la macchina. C’è un sole pallido che ancora non scalda, velato dietro la nebbiolina che si alza dalla palude.

Potrebbe essere il Mississippi, invece è solo una distesa salmastra di canneti e acqua maleodorante da qualche parte tra il fiume e l’Adriatico.

«E per fortuna che avevano bonificato, gli amici tuoi» dice Giulio, un po’ scherzando e un po’ no. Provocare Enrico sulle sue preferenze politiche è il suo sport preferito.

«Mica qui. Giù da noi lo hanno fatto» gli risponde Enrico senza scomporsi.

È un po’ fascio, Enrico, ma è un buono come ce ne sono pochi, uno che per gli amici si butta nel fuoco. A chi del vecchio gruppo gli chiede perché continua a vederlo, Giulio risponde con un’alzata di spalle «È un fratello, non fa niente se ha sbandato a destra».

Mentre entrano nella casa, odore di umido e polvere, finestre sporche, parlano ancora della signora, che come gli ha dato le chiavi e ha incassato l’affitto si è affrettata a biascicare le ultime raccomandazioni prima di risalire sulla vetusta Panda verde pisello e sgommare via sullo sterrato.

«Ha detto pure di non far caso ai rumori, la notte» dice Giulio, a cui in realtà quella parte del discorso l’ha inquietato più del dovuto. «Ha detto che dopo il tramonto si sentono urla che sembrano persone, ma sono i cinghiali, e di non andargli dietro perché sono aggressivi».

Più che il discorso, l’aveva stranito il modo in cui la vecchia l’aveva detto, sgranando gli occhi e facendosi il segno della croce. Ma a Enrico non lo dice, un po’ per salvare la faccia, un po’ perché lo conosce, lui, è il tipo che si fa suggestionare da queste cazzate e non vuole averlo lì sempre sulle spine, che gli rovina tutto il weekend di caccia.

Enrico, per fortuna, col suo modo letterale di prendere la vita, fa una mezza risata e dice «E che ci ha presi per coglioni, quella là, che ci mettiamo a inseguire i cinghiali di notte?».

Giulio alza le spalle. Ce l’ha qualche battuta di caccia al cinghiale all’attivo, lui, e non gli è mai sembrato urlassero come persone. Ma forse sono diversi, i cinghiali di qui. Forse c’è qualche maiale inselvatichito, in mezzo. Quelli sì che strillano che sembrano umani, quando li becchi.

Si volta a guardare il cielo, non in alto ma sulla linea dell’orizzonte, a filo con il canneto che nasconde il loro premio. Qualche rumore, qualche frullo d’ali, Laika che è già tesa come una corda. Freme anche lui, come lei. Un gran cane, Laika, gliela invidia un sacco a Enrico, una setterina tutta ossa e pelo che vive per i momenti in cui vola sull’acqua stagnante e poi si blocca in ferma perfetta, aspettando solo il cenno del padrone per far involare la preda. Non vede l’ora di vederla alla prova in quella palude.

«Forza Enrì, che qui è pieno. Ci sistemiamo dopo».

La giornata prometteva bene, ma è stata bugiarda. Ha una strana qualità questo terreno, ha notato Giulio, un modo di trasmettere i suoni che forse ha a che fare con le pozze d’acqua, forse con le macchie di canneto che assorbono i rumori. Pure Laika è sembrata spaesata, dopo il primo entusiasmo. Ha avuto problemi a trovare gli uccelli, anche se i pochi che ha puntato li hanno buttati tutti giù, a parte un germano che ancora non è stagione. Giulio in realtà, preso dall’impeto agonistico, aveva alzato pure il fucile, ma Enrico che è più ligio di lui gli ha abbassato la canna. Così l’anatra, un bel maschio paffuto, aveva teso il collo verde smeraldo verso il cielo e se n’era andata ignara del pericolo scampato. Giulio aveva sbuffato, e pure Laika si era voltata verso il padrone con un verso di disappunto: che spreco farlo andare via così, dopo la fatica che aveva fatto a trovarlo.

Sono rientrati col carniere più leggero del previsto, ma il morale ancora alto. Il sole scende in fretta, l’umidità sale, e pregustano la cena al caldo nel capanno, coi salumi e il vino rosso e i piedi asciutti.

Ci mettono un po’ a far andare la stufa, che poi però scalda che è un piacere. Fa fumo, è vero, ma si ricordano di lasciare accostate le finestre e pure la porta per far girare l’aria. Il vino va giù veloce, aprono anche la seconda bottiglia. Il buio fuori è denso che pare di poterlo toccare, e Giulio si lascia prendere da una gioia velata di malinconia, che è sicuro sia di tutti quelli che per un po’ riescono a staccarsi dalla frenesia della vita, e si mettono in mezzo alla natura con solo quattro pareti di legno e un buon amico e un buon cane e un buon vino, e la fatica, buona anche lei, nelle gambe e nelle braccia. Enrico sbadiglia e si massaggia il collo, anche lui è zitto da un po’. Fa una carezza a Laika che dorme sul tappetino davanti alla stufa e poi con uno scatto stranamente agile rispetto alla sua stazza va a occupare il letto più grande.

«Mio» dichiara, col sorrisetto impunito di quando erano bambini. A Giulio viene da ridere, e nemmeno protesta per essere stato lasciato col giaciglio più stretto e scomodo senza possibilità di replica. Tanto appena la testa tocca il cuscino ha giusto il tempo di sentire Enrico che bofonchia un “buonanotte” impastato prima di crollare in un sonno meravigliosamente profondo.

Li sveglia Laika, che si è tirata su di scatto e ringhia in direzione della porta, il pelo sulla schiena dritto che pare la cresta di un dinosauro.

«Giù bella, è il vento» dice Enrico, voce di sonno. Di solito lei lo ascolta, ma stavolta no, stavolta continua a puntare fissa la porta. Giulio si strofina gli occhi e li abitua al buio. Sopra al ringhio basso del cane, sente il rumore del vento, ma anche qualcosa d’altro. Sembrano urla, lontane e vicine allo stesso tempo.

«I cinghiali» dice, ricordando le parole della signora. Già, i cinghiali. Ma cazzo se sembrano voci umane, pensa, voci che minacciano e chiedono aiuto.

«Inquietanti ‘sti cinghiali» commenta Enrico, che con uno sbuffo e un verso sfastidiato si mette seduto sul letto e richiama Laika ancora una volta, e Laika di nuovo lo ignora.

«Dai basta, ragazza, è tutto ok» dice, mentre allunga la mano a prenderle il collare. 

Laika gli si rivolta sentendo la mano sul collo, e una folata di vento forte spalanca la porta che avevano lasciato socchiusa per via del fumo della vecchia stufa. In un istante Laika è fuori, Enrico caccia un urlo e tira indietro il braccio imprecando.

«Ti ha morso?» gli chiede Giulio, che si sbriga a accendere una torcia per constatare il danno.

«Di striscio, maledetta. Che gli è preso» e poi è già in piedi, che si infila pantaloni e scarpe e la giacca, e si affaccia alla porta urlando «Laika! Laika!» il graffio sulla mano che sgocciola sangue sull’uscio. 

Laika non torna, la sentono abbaiare come presa dalla frenesia della caccia.

«La scema è andata dietro ai cinghiali» dice Giulio, mentre Enrico continua a chiamarla e a fischiare, invano. 

«Aspetta che provo a seguirla col satellitare» fa Enrico, che armeggia col cellulare. E per un po’ in effetti la vedono, puntino sullo schermo che fa cerchi concentrici intorno alla casa. Quando si addentra nella palude, però, il segnale va via. Enrico già ha la torcia in mano, già si tira su il cappuccio della giacca a vento. È Giulio che lo ferma. «Io fuori di notte nella palude coi cinghiali non ti ci faccio andare. Si sarà scaricato il trasmettitore, vedi che torna. Tra poco fa giorno, usciamo appena c’è luce». Enrico esita, ma lo sa che Giulio ha ragione. E la regola è, anche se la detesta, che non si rischia la vita per un cane, che gli incidenti ci sono, che un uomo vale più di una bestia. La chiama altre volte, così forte che sul finire gli si spezza la voce. Poi torna a sedersi sul letto, con un sospiro pesante. «Dai cerchiamo di farci un’altra ora di sonno» gli dice Giulio. «Appena fa giorno la andiamo a cercare».

Quando aprono la porta, ancora nella luce grigia prima dell’alba, vedono quello che Giulio nemmeno osava sperare, Laika inzaccherata che gli va incontro, a coda bassa ma apparentemente senza un graffio. Enrico si illumina, si accovaccia e apre le braccia chiamandola. Laika però non si avvicina più di tanto, li annusa da lontano come se stentasse a riconoscerli.

«È tutto ok, bella, è tutto ok» mormora Enrico, e poi quando quella ancora esita dice a Giulio «Si sente in colpa perché mi ha morso, perché è scappata. Ecco cosa. Ora la faccio mangiare e poi vedi che ci passiamo una bella giornata insieme». E Laika mangia, vorace come fosse digiuna da giorni, come se covasse una fame atavica. Enrico prova a esaminarla per vedere se ha ferite, ma lei ancora non si fa toccare.

Chissà che ha passato, stanotte, pensa Giulio. Di solito è un pezzo di pane, con le persone, non ha mai rifiutato una carezza. Poi però sul campo pare di nuovo lei, efficiente e veloce.

«Guarda, il gps funziona, ora» dice Enrico «Si vede che c’è una zona morta più in là e lei ci è finita in mezzo». Laika sfreccia sull’acquitrino che è una gioia per gli occhi, le prime ore passano in un lampo, la caccia è meglio di ieri e l’umore è alto nonostante una nebbiolina insistente che sembra quasi una pioggia fine, e si alza dall’acquitrino offuscando la luce e impregnando tutto di un umido salmastro. Nel primo pomeriggio, mangiato il pranzo al sacco, si spostano più verso la costa, sperando che la brezza del mare smuova quell’aria ferma e pesante. È lì che Laika prende di nuovo la fuga, in direzione opposta alla loro. Enrico la richiama, invano.

«Ma che le è preso a quella cagna» dice a denti stretti, mentre fa cenno a Giulio di cambiare strada, di andare dalla parte verso cui è sparita Laika. 

Seguono il suo percorso col satellitare, la traccia di piante schiacciate nei punti dove è passata. Poi il segnale sparisce, quando sono solo a poche decine di metri. «Di nuovo!» dice Giulio, che inizia a covare un certo risentimento per quel cane che ha deciso di complicargli la vita. «Vedi, neanche i cellulari hanno campo qui» esclama, tenendo alto il suo telefono e ruotandolo in aria in cerca di un segnale. Enrico si guarda attorno, in ascolto, poi va diretto verso un folto di canne.

«Eccola!» urla, e la sua voce ha un suono strano, metallico, quasi facesse fatica a fendere l’aria morta dell’acquitrino. Laika sta girando in tondo su un isolotto affiorante, come fa quando trova un nido. In mezzo però non c’è il mucchietto di legni e foglie che rivela la presenza della selvaggina, ma un piccolo masso levigato, che quando si avvicinano rivela sulla superficie delle incisioni, c’è la mano dell’uomo di sicuro ma una mano antica, perché le lettere che riescono a decifrare non sono nulla di conosciuto, e hanno l’aria di essere lì da secoli, almeno. Giulio passa la mano sopra quei segni consumati. Sembra una lapide, o un masso votivo. Chissà qual è stato il motivo per metterlo lì, in mezzo al nulla della palude.

«Dai, andiamo via» dice Enrico, e di nuovo il cane lo ignora. La richiama più deciso, ma è parlare al vento. Quando fa per prenderla dal collare, ecco che succede ancora. Laika gli si rivolta, a denti spianati. Lui fa un salto indietro, e anche Giulio sussulta. La nottata mezza in bianco, e le urla dei cinghiali, e ora questo. Sta diventando tutto un po’ inquietante, pure per la sua ferrea razionalità. Enrico invece è concentrato sul cane, fa un cappio col guinzaglio e riesce a recuperarla, tirandola via.

«Andiamo dall’altra parte, chissà che ha fiutato qui» dice, quasi a giustificarla.

«Ma io tornerei, che dici? Qualcosa abbiamo preso, e tra un po’ viene buio» dice Giulio, e quasi gli dispiace suggerire di rinunciare, ma quel brivido d’inquietudine di poco fa gli fa desiderare di mettere quanti più metri possibile tra loro e quell’isolotto.

«No, dai, facciamo un ultimo tentativo» dice Enrico. Giulio esita un attimo, ma si lascia convincere. Hanno un’ora, forse due prima del crepuscolo, che qui pare arrivare più in fretta che altrove. Magari tirano giù due beccacce e la giornata si conclude in bellezza.

Si allontanano dall’ isolotto, con Laika legata che trotterella con la coda tra le gambe. Trascina un po’ il passo, come se qualcosa la trattenesse. Man mano che procedono, però, torna vispa. Se non fosse un cane, Giulio direbbe che ha l’aria sollevata.

Enrico la slega e lei subito parte in cerca, come se nulla fosse. L’eco degli spari suona secco e preciso, il carniere si riempie, mentre il sole inizia la sua parabola discendente.

«Ultimo e poi andiamo» dice Enrico, spronando Laika a ripartire dopo aver recuperato un codone appena abbattuto. Laika tira su le orecchie, si blocca ad annusare il vento. E parte, ma parte nel modo sbagliato, parte come ha fatto prima, in direzione di quell’isolotto che ormai sarà distante un paio di chilometri o anche di più. Ma si capisce che sta tornando là, e a Giulio si piegano le gambe dalla fatica all’idea di doverla seguire di nuovo. Anche Enrico impreca, ma non può non andare, in fondo è il suo cane. Parte all’inseguimento, e Giulio dietro, qualche decina di metri di svantaggio perché si è attardato a tirare su le loro cose.

Camminano dietro al cane, e il sole scende veloce. Davvero, sembra che in questi posti il tempo abbia una qualità diversa, obbedisca a leggi sue. Credeva avessero un’ora almeno prima del buio, e invece già le ombre si fanno lunghe, già si mescolano e si confondono nella luce sempre più bassa. Il segnale satellitare del collare di Laika li guida sulla strada percorsa poco prima, ormai quel maledetto isolotto sarà vicino. Quando il segnale scompare Enrico dice «Ci siamo, sarà qua dietro, aspettami che la recupero». Si addentra nel folto di canne, chiamando il cane a gran voce. Passano minuti. E poi altri. Il crepuscolo lattiginoso confonde i colori, è tutto grigiastro e immobile. E silenzioso, pure. La voce di Enrico non si sente più. 

Giulio armeggia con la torcia, quella grossa, il fascio di luce si accende per un attimo e poi sfarfalla e muore, mentre il buio cala più veloce. Chiama Enrico, una volta, due. Chiama Laika, anche. Gli risponde solo il silenzio. Riesce a malapena a vedersi la punta delle dita, nell’ultimo chiarore che resta prima della notte. 

Chiama di nuovo. Stavolta a rispondergli sono quei gridi strani della notte prima. I cinghiali. I cinghiali, di nuovo.

«Enrico!» urla, mentre suo malgrado sente le gambe farsi di pietra e il respiro bloccarsi in gola. Un ululato, altre grida. Ora tra le voci quasi umane dei cinghiali ce n’è un’altra, che sembra tanto quella di Enrico. E sembra chiamare il suo nome.

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