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Estate a tempo di musica con i nostri TORMENTONI ESTIVI del numero di luglio di Spartaco Magazine.
Quello del treno per Rossella Tempesta è un ritmo che corre sui binari del ricordo. Lo sferragliare di un piccolo convoglio regionale, che lambisce la costa e attraversa i paesini, evoca una stagione lontana, spostando lo sguardo fuori e dentro di sé.
Rossella Tempesta, autrice di “La pigrizia del cuore“
I TRENI DELL’ESTATE
Attendere.
Salire sul treno Agropoli – Napoli all’ora mattutina dei pendolari.
Come risalire su tutti i treni della vita, rivedere tutte le stazioni sovrapporsi a questa.
Comprendo (sempre tardi) che ho amato -e tanto- anche questo, questo partire per piccoli viaggi italiani, per certe mete. Certe e meridionali.
E quale viaggio ricordo per primo?
Mia madre nemmeno ventisei anni, bella e castana col corpo sensuale il naso greco.
Mia madre ed io, l’estate dei miei tre anni o poco più -lei dice- che saliamo sul treno da o per Napoli, da o per la Puglia.
Pieno zeppo, con un caldo afoso.
I controllori offrono alla bella e giovane madre con figlia esile e biondina ospitalità nel proprio scompartimento poi le offrono il caffè freddo dalla bottiglina di vetro col tappo di plastica bianco o rosso.
La giovane e bella mamma neanche lo beve il caffè, anzi la nausea perché in gravidanza le veniva voglia di mangiarlo in polvere a cucchiaiate, e adesso persino l’odore…
Ma loro cerimoniosi, e lei no grazie, e la bimbetta – prezzemolina ogni minestra – Alla mia mamma non piace il caffè!
I controllori sorridono: Che bella bimba, che favella!
Poi, lanciano la bottiglietta vuota dal finestrino.
Nasce l’integralista, ora e per sempre, nel primo viaggio, l’estate dei mieitre anni: la giovane, troppo giovane mamma sprofonda arrossisce ride tossisce tenta di calmarmi.
I controllori sprofondano arrossiscono si scusano dicono che ho ragione, che non si fa. Come sarà finito il viaggio?
Oggi lo specchio è un finestrino molto diverso da quelli del treno del far-west, il trenino locale delle ferrovie private Bari-Nord; sedili in legno, o legno e pelle in prima classe.
Terlizzi-Bari/Bari-Terlizzi per anni.
Sul trenino del far west, è lì che dev’essere avvenuto il contagio del verde.
Campagne, campagne ovunque. Persone stivate dentro e campagna fuori; persone assediate dalla natura, lanciate in velocità in una cellula stagna che le isolava che impediva loro di contaminare. Guardare ma non toccare. Il dominio inverso. La giusta proporzione.
Pronto? Dove sei? In treno, si sente poco.
Non molto tempo fa -ma pare un’altra vita- non si sentiva nulla.
Se non col naso l’odore ferruginoso delle rotaie e con la schiena il ritmo lento-veloce-lento-accelerato del vagone che si aggrappava alle curve che si imbucava nelle gallerie.
Il mondo mi sapeva riportare dentro ad un suo candore, per esempio attraendo il mio sguardo con le mura a calce di luminoso aspetto e i gerani rosa gesso alle finestre della casa del Capostazione.
O con la nitida scritta bianca su panello nero ardesia: TERLIZZI.
La gente era di ogni tipo – probabilmente sempre la stessa – ma avevo già allora la grazia di non riconoscere mai nessuno e dunque ogni volta ricominciava il gioco di osservare le facce capire quanti studenti, quanti lavoratori, ascoltare spezzoni di storie.
Cresciuto il seno, finito il mio privilegiato punto di osservazione, l’anonimato. Passata in un’estate da spia a spiata.
Il trenino aveva tre vagoni minimi e una larga campagna per sferragliare.
L’intercity ora passa dentro Torre del Greco ma così dentro che le tende parasole di un secondo piano sventolano davanti al finestrino.
Poco prima invece è sfrecciato radente la spiaggia, ha quasi fatto il bagno e alla curva, derapando, ha sollevato sui pochi bagnanti stesi al sole qualche sbuffo di sabbia lavica nero-vesuviana.
Le case viste da qui dentro hanno un fascino indicibile. Gli “interiors” degli appartamenti visti per un attimo dal treno. Gli interni, l’interiorità.
Di sera, in un censimento allenato alla rapidità della corsa del treno,individuo soprattutto le cucine e le sale. M’immagino le famiglie a cena, la calma e l’intimità che spero per loro.
Questa invece è una famiglia della nuova società, questa incrociata in Stazione Garibaldi, Napoli, Italia, Mondo.
Uomini neri, di diverse provenienze, cinque o sei, parlano tra loro in napoletano, ridono molto e spingono rapidi verso qualche estenuante treno regionale carrozzine e passeggini senza figli, carichi soltanto di bustoni azzurri con le merci da vendere in spiaggia.
La spiaggia vista dall’alto di Castellabate nel Cilento, alle sei del mattino.
Castellabate nel Cilento, Campania, luogo dichiarato Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
La spiaggia, ovvero qualunque cosa vista da qui, provoca la sensazione fisica di trovarsi sul pianeta Terra, di vederne all’orizzonte la sfericità.
Posso ripassare a memoria la composizione del globo terracqueo, davanti agli occhi ho mari, colline degradanti in valli, promontori con le chiome ricce di vegetazione.
Se chiudo gli occhi, posso accostare a questa terra di mare anche le montagne maestose delle Stagioni di Mario Rigoni Stern.
La vita vegetale dei boschi mi respira dentro mentre in treno scorrolentamente le pagine e adesso li alzo solo ogni tanto, gli occhi, sulla campagna di Paestum e quelli s’incollano al paesaggio e per un attimo dimentico la danza primaverile dell’urogallo in amore.
Castellabate è di una bellezza che supera lo spasmo, mi addomestica le pulsazioni accelerate dall’emozione dello sguardo, mi quieta. Mi aspetta.
Lo sento che aspetta, appena scendo dal treno ad Agropoli. E già Agropoli mi accoglie con l’aria domestica della provincia del Sud.
Poi, i tornanti lunghi fino a Santa Maria, infine l’arrampicata dolce tra gli olivi, la chiesa di Santa Maria della Pace sulla pace del creato, e il borgo medievale di pietra e calce è qui, mi attende nei secoli.
Penso a Recanati, alle ginestre gialle in estate, alla similitudine di bellezza; provo a immaginare con gli occhi stretti del conte Giacomo lo stesso infinito.
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