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Giornate a ritmo di musica con i nostri TORMENTONI ESTIVI del numero di luglio di Spartaco Magazine. Quelle ricorrenze stagionali di cui non sappiamo liberarci, magari un po’ banali ma che hanno tutto il sapore delle vacanze.
C’è chi non rinuncia ai suoi rituali, anno dopo anno, estate dopo estate. Con il ritmo sotto la pelle, Enrico ne ha viste tante di stagioni passare, e potrebbe essere il momento di tirare i remi in barca. Ma il protagonista del racconto di Flaminia Festuccia non ha nessuna intenzione di rinunciare alla sua dose di adrenalina.
Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri“
KHOROVOD
Avete mai visto la danza delle renne? Quei video ripresi dall’alto di intere mandrie di grossi ungulati che iniziano a correre in cerchi concentrici, in un movimento così coordinato che sembra artificiale, come fossero possedute da una forza soprannaturale che le spinge a girare, girare, girare. Non si sa con esattezza se lo fanno per difesa, per inquietudine, per disorientare i predatori. Seguono il capobranco: non appena quello inizia a girare, ecco che la mandria gli va dietro, rigorosamente in senso antiorario. Possono andare avanti per ore.
Una roba uscita da un mito vichingo, un tributo a Thor, un rituale per Odino. O uno scherzo di Loki, dio dell’inganno. I russi li chiamano khorovod, come le danze popolari fatte di balli in circolo e canti sincopati.
È il richiamo ancestrale della musica.
Quando è così, Enrico non sa più dire se il cuore che batte al ritmo dei bassi o se è la cadenza della musica ad essersi adattata a quella furiosa del sangue che va e viene nel petto, nelle braccia, nelle orecchie. Sta sotto alle casse, perso nella sua trance. Quelli intorno un po’ lo evitano un po’ lo additano, ridendo voltati per non farsi accorgere: un vecchio strambo a un concerto rock, coi suoi capelli grigi troppo lunghi, i vestiti sbagliati, i movimenti sconnessi, in mezzo ai ragazzi giovani e belli.
Enrico lo sa, a Enrico non importa.
Ogni anno aspetta l’estate solo per quel momento lì, quel rito collettivo e singolare che è il motivo per cui sopporta gli altri nove o dieci mesi senza dare di matto del tutto.
Ha preso ad andare in palestra, pure, Enrico, ché non è più un ragazzino, e mica può permettersi di trovarsi sul più bello col fiato corto o coi muscoli doloranti. Va in palestra e va pure a correre, quando ha tempo. Ci va la mattina presto, prima di andare in ufficio. Incontra sempre Marlon, il badante muscoloso che lavora nel suo palazzo, dall’ammiraglio Gatti ormai novantenne e ferocemente rincoglionito, irascibile e ombroso come un vecchio toro. Solo Marlon riesce a tenergli testa, ormai, gli ha confessato la figlia dell’ammiraglio, incontrata un giorno sul pianerottolo del terzo piano. Enrico le ha detto due parole di circostanza, e dentro di sé ha pensato: se mai mi riduco così, sparatemi in testa come si fa agli animali. Ha sperato che non gli si leggesse in faccia mentre si congedava con un mezzo sorriso.
È per questo che aspetta l’estate, quando la città si anima di eventi e concerti e musica dal vivo. L’inverno non è lo stesso, poche cose al chiuso in capannoni soffocanti, coi gruppetti locali lagnosi e un po’ sfigati. Da giugno in poi, invece, tutto cambia. È il momento degli eventi all’aperto, dell’odore dei fiori che si mescola alla birra e alla polvere e al sudore, e tra le decine di appuntamenti c’è sempre quella manciata di band di qualità, che meritano la sua presenza. Vorrebbe dire che sono sempre meno, ma non è vero: basta cercarle. Il rock non è qualcosa che puoi cancellare a colpi di classifiche viziate, di streaming ossessivo dei tormentoni estivi. Non è qualcosa che semplicemente sparisce, il rock. Magari può andare in letargo, di tanto in tanto, seguendo la natura ciclica dell’universo, ma è sempre lì, in agguato, pronto a emergere dal sottosuolo, pronto a sfondare il soffitto, più in forma che mai.
Enrico lo segue col fiuto di uno che è fatto della sua stessa sostanza, alieno che cerca di ricongiungersi alla navicella madre. Compra i biglietti, studia le date. Aspetta. Quando arriva l’estate, ha il suo piano di battaglia ben stilato. Esce presto dall’ufficio, via la camicia, via la cravatta. Un mucchio disordinato per terra, in un angolo della stanza, piccole anarchie domestiche che già lo mettono di buonumore. Fuori dal garage lo scooter un po’ scassato che non prende quasi mai, ma che nell’aria rovente del tardo pomeriggio estivo gli toglie anni a ogni curva. Nemmeno la briga di legarlo, nessuno se lo frega un rottame così. Birra e sigaretta di rito prima di entrare, che poi non c’è tempo, che poi deve stare concentrato.
Scivola silenzioso tra la gente, trova la sua posizione. Ha l’occhio esperto di decenni di concerti. Sa quando attendere, sa quando farsi da parte, individua le correnti e i movimenti, le tensioni sotterranee e l’energia imbottigliata dentro alle persone che cantano e si dondolano e battono le mani e fischiano e urlano. Soprattutto, sa quando farla esplodere. Tasta il terreno. Un saltello, poi due. Si prende lo spazio, urta con la spalla uno dei vicini. Se serve, si sposta ancora. Quando parte la canzone giusta, parte anche lui. È questione di secondi, tutta l’energia compressa che si libera nello spazio. Intorno a Enrico si scatena un pogo selvaggio, il circolo sotto il paco dove si salta, si vola, si plana sulla folla, dove la musica non la senti più se non come un’onda elettrica, un rimbombo nella pancia e nei polmoni. Intorno a lui tutto gira, e gira, e gira, tutto lo porta e lo trascina, in aria e poi giù, in circolo, in senso antiorario. Come le renne. Come se fosse lui, per una volta, il capobranco.
Etichette: edizioni spartaco, Flaminia Festuccia, la stagione dei papaveri, Spartaco Magazine, Tormentone estivo