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Avevo osservato Sara sparecchiare muovendosi in cucina con gesti misurarti come fosse una consuetudine.
La goffaggine adolescenziale si era trasformata in leggiadria che sarebbe mutata in grazia. La magrezza appena tornita nei punti giusti. La statura media evidenziava l’inconsueta lunghezza delle dita affusolate.
«Posso venire a cena da voi, domani, per festeggiare il compleanno di nonna?» mi aveva chiesto al telefono. Lo sguardo era corso al calendario.
Già febbraio, Dio del cielo…
Nel giorno sei c’era una X a pennarello rosso. Avevo finto di ricordarmene.
Martedì… avevo considerato: Niente Champions, niente Coppa Italia, nessun posticipo…
«Se vi va cucino qualcosa poi guardiamo insieme Sanremo».
Già Sanremo, Dio del cielo!
«Hai comprato un presente?» avevo chiesto maledicendo la mia indolenza.
«Ancora no. Pensavo a un plaid…».
«Perfetto. Partecipo anch’io. Domani ti darò la mia parte».
Così, eccoci qui. Accoccolati sul divano in ordine decrescente di primavere. Le novantatré di mia madre, sprofondata tra cuscini che le sostengono il busto e il nuovo plaid che l’avvolge come una squaw, le mie sessanta, rimarcate dalla barba incolta e dalla tuta di pile sformata, e le ventidue di Sara, destinate a maturare in infinite splendide estati.
Da quando mia moglie mi ha lasciato per un nuovo, più intraprendente compagno, e sono tornato a vivere da mia madre, Sara si sente in dovere di prendersi cura di noi. Quasi si sentisse in colpa per la scelta coraggiosa di sua zia. A me non dispiace. A piccole dosi è una creatura deliziosa. Attenta, sensibile, coscienziosa… le stesse ragioni per cui dopo un pomeriggio con lei mi sento soffocare.
«Sei comoda nonna?» chiede sporgendosi, stringendo con quelle splendide mani una tazza fumante di tisana.
«Mmmhhh…» annuisce mia madre intorpidita dall’alchermes della zuppa inglese. La porzione che le ho servito equivaleva a una pistola carica concessa per gioco a un ragazzino.
«Com’è andata la visita, ieri?» mi domanda Sara sottovoce, indicandola.
Rispondo con un gesto che glissa sulla negatività della diagnosi. Il suo cuore è al capolinea. Siccome lo era anche cinque anni fa non diamo più peso a sentenze così ultimative, ma lo stupore del cardiologo nel rivederla anche questo semestre era di per sé un chiaro responso.
«Vuoi anche tu un po’ di zenzero?» le chiede Sara mostrando la tazza.
«Quando comincia?» domanda lei di rimando.
«E tu, zio?».
La guardo di sottecchi e con la lingua scalzo tra i denti un fastidioso filamento di grasso di salame.
Spot, annunci, anteprima dell’anteprima, prologo… quando parte la sigla mi sembra di essere davanti allo schermo da una vita. Alla spiegazione del palinsesto e del meccanismo di voto mia madre ha già chiesto se tra i big ci fosse Celentano, poi, riavendosi da un breve torpore, domanda se avessero già cantato i Ricchi e Poveri.
«No, nonna, non ancora» risponde Sara. La guardo storto come ad ammonirla di non prendere per il culo sua nonna e lei mi rassicura:
«Ci sono, ci sono»
Ancora i Ricchi e Poveri… Dio del cielo!
«Ti piace davvero ‘sta roba?» domando a Sara mentre seguo le movenze delle mani dell’artista sul palco. Un alfabeto muto che ignoro, incredibilmente articolato rispetto a quello in voga ai miei tempi: ti voglio bene, peace and love, fottiti…
«Dipende, la trap l’ascolto in auto, o mentre corro al parco. Per divertirmi preferisco il pop latino oppure la Techno».
Fingo di comprendere. In fondo dev’essere come preferire l’hard rock al punk. Mi stupisce questa polifagia musicale. Una trasversalità sconosciuta prima. Vuoi per l’inusitata quantità di proposte, vuoi per la facilità di fruizione, la vedo assaggiare di tutto, senza mai abbuffarsi di nulla.
«Ho sentito una band fantastica» mi confessa l’altro giorno «Secondo me la conosci. Posso frugare tra i tuoi dischi?».
La lascio fare. Ha una sacra venerazione per i miei vinili. Tocca le copertine come sfogliasse antichi manoscritti e se vuole ascoltare qualcosa mi prega di metterlo sul piatto. Io gongolo ostentando indifferenza.
«Ecco… questi!» esulta estraendo un album degli ACDC. Come li concili con i gorgheggi del Marocco-pop che intanto stiamo ascoltando mi sfugge, ma il bello è che non ne sente il bisogno.
«La TV si è rotta» esclama mia madre gridando a causa della cuffia che ha indossato per ovviare alla sordità. Credendola addormentata sobbalziamo dalla sorpresa.
«No, nonna, è l’autotune. Un software che manipola la voce» spiega Sara alzando il tono.
«La TV… si è rotto il volume» insiste.
Alzo un cuscinetto auricolare e sbraitando vicino al suo orecchio
la rassicuro: «Ora si riaggiusta».
«Peccato… perché questo era bravo!» si rammarica.
Sara sorride, e io le racconto di una sera del 1984 quando, rincasando a tarda ora, mi siedo con lei sul divano a beffeggiare un ragazzo dall’aria coatta che sta cantando “Terra promessa” nella sezione Nuove proposte.
«Questo è bravo» aveva affermato anche quella volta.
«Ma chi? Questo?».
«È bravo, è bravo. Vedrai che vince».
«Ma che vuoi saperne?» avevo obbiettato con l’arroganza dei miei vent’anni «Non senti la voce fastidiosa che ha?».
Poi dovevo essermi ritirato in camera, messo sul piatto Bruce Springsteen e addormentato cullato da The river.
Si susseguono giovanissimi artisti dall’aria truce che si sforzano di apparire duri dal cuore tenero, inframezzati ad altri piuttosto attempati dall’aspetto amichevole, come mentori o maestri Yoda.
«Non ti disturba questo?» chiedo a Sara indicando lo schermo.
«Cosa?».
«Che i tuoi idoli giovanili se la facciano con quelle cariatidi?».
Ride di gusto. Del concetto… forse di me.
«Perché dovrebbe? Se fa audience, perché no?».
«Perché è immorale mischiare così gli stili, gli ideali, le fedi musicali…» la vedo spalancare gli occhi. Occhi scuri, immensi, con tanto futuro dentro che i miei non saprebbero contenere.
«Ehhh come la fai lunga, zio. Questo è spettacolo, mica realtà».
Mi zittisco, conscio che il Signore mi sta impartendo una lezione gratuita.
«Non è che questi siano davvero così incazzati. È una posa. Nella vita vera hanno mogli, figli… sono professionisti. Sai quanti soldi fanno con queste apparizioni?».
«Soldi!» tento di controbattere «Macchine, monili e orologi da ostentare… non dovrebbe essere questo il loro traguardo».
«E perché no, se possono raggiungerlo facendo quello che amano?».
«Vorresti dire che oggi un ragazzo sogna di essere un cantante di successo per sfoggiare fuoriserie e patacche al polso?».
Dio del cielo, io volevo essere Keith Richards perché le mie dita volassero sulle corde di una chitarra, per fottere il sistema, per essere un figo pazzesco, non per il suo conto in banca!
Ecco… magari per vivere alla grande. E per il fumo gratis. E per le ragazze. Per le ragazze, certo… quelle sì. Il sospetto che non sia poi così diverso m’inquieta.
«Tu parli di idoli, di fedi musicali… guarda che non è così. Loro propongono la loro musica, se ti piace l’ascolti, altrimenti pace».
«Noi giudicavamo i coetanei dalla musica che ascoltavano» affermo con orgoglio.
«Già, la nonna lo faceva dal titolo di studio, suo padre dalla posizione sociale e il padre di suo padre, forse, dal colore della pelle…».
Touchè. Non reagisco. Evito di guardarla, ma entrambi sbirciamo la nonna che dorme profondamente con la bocca dischiusa. Tre giovani cantano con voce baritonale un brano che s’intitola “Capolavoro”. A mia madre piacerebbe, ma non voglio svegliarla. Sbuffo di noia mentre Sara li ascolta con la stessa attenzione dedicata a Dargen D’Amico.
Ce li sorbiamo tutti, fino a un’ora improponibile. Gli anacronismi viventi, gli ospiti, i cantanti sulla cresta dell’onda e quelli (per me) sconosciuti. Tutti intonati, impostati, tecnicamente perfetti, niente voce stridula alla Dylan, né erre mosce alla Guccini.
Anch’io comincio a cedere al sonno e nel dormiveglia un ricordo mi coglie. Un antico Sanremo in cui mio fratello mi scaraventò giù dalla poltrona su cui cercavo di raggiungerlo. Cadendo sbattei la testa contro la gamba del tavolo e mi procurai un bernoccolo. Lui fu spedito a letto in malo modo e a me fu consentito di seguire tutta la serata in braccio a mamma, che inumidiva una pezza in un catino d’acqua fredda e mi tamponava il bozzo. Ancora oggi, risentendo “Chi non lavora non fa l’amore” un dolce languore mi pervade.
«Ora vado… guarda che ora si è fatta!» esclama Sara alzandosi.
«Non è un festival…» persevero nella mia indignazione «È un sequestro di persona».
«Sveglio nonna per salutarla?».
«No, lasciala dormire che poi s’inquieta pensandoti in giro a quest’ora. Te la saluto io».
L’accompagno all’uscio e di Sara resta il profumo e l’umidore di un bacio veloce sulla mia guancia ispida.
«Ma’…» chiamo mentre rassetto il tavolino del salotto. Dalla cuffia filtra altissimo l’audio della sigla del dopofestival.
Dorme ancora a bocca socchiusa, abbandonata e indifesa come una bambina.
Dio del cielo! Dopo cinquantaquattro anni da quella magica sera eccoci ancora qua! Tutto uguale ad allora in un mondo tutto diverso.
«Mamma» appena le sfilo la cuffia si desta con un sobbalzo.
«Chi ha vinto?» domanda spaesata.
«Andiamo a letto. Vieni che ti aiuto ad alzarti».
Dovrei essere io, stavolta, a rassicurarla. A convincerla che i lividi della vita si curano con un po’ d’acqua gelata e che domani andrà meglio. Invece mi sento smarrito e bisognoso di dolcezza come allora.
«Quindi… chi ha vinto? Quel ragazzo con i tatuaggi?».
Ha ragione lei. I cantanti cantano, la giuria giudica… ecco tutto. And the winner is…
Macché, domani si ricomincia. E dopodomani, e dopo ancora… Dio del cielo!
«Non è così semplice» dico mente ripiego il plaid, senza capire se mi riferisco al festival o all’accettazione delle inclinazioni altrui in un mondo che, per quanto corriamo, ci lascia inesorabilmente indietro.
«Non è così semplice».
Dopo l’otto settembre del 1943, in un’Italia divisa tra l’avanzata dell’esercito alleato e la rappresaglia fascista, un parroco di campagna nella provincia emiliana si trova tra l’incudine della neonata Repubblica sociale e il martello dei combattenti partigiani. Da entrambi deve guardarsi e contemporaneamente preservare la parrocchia, aiutando i devoti che si affid…
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