Il Meridione raccontato da Francesco De Core è amore e tormento, incisione profonda nella carne di un territorio dell’anima che poteva essere e non è, di una patria con troppe bandiere, un eterno purgatorio di attese tradite. Un cammino della speranza, repressa dagli occhi e voluta con il cuore. In buona, ottima compagnia di scrittori e artisti, apolidi e icone di un’Europa smarrita, anacoreti alla ricerca di un loro deserto dove vivere e pregare, poeti che amano parole e colori. Niente acquerelli, eppure non solo fotografie in bianco e nero, ma nitide tracce di un giornalista che oltre alla penna porta in valigia un’accetta affilata. Attento e curioso, ama aggirarsi tra le mura sbrecciate di Casertavecchia, come Pier Paolo Pasolini. Assieme ad Albert Camus si lascia abbagliare dai resti maestosi ed eterni di Paestum. Schiuma di rabbia con Giuseppe Berto sul suolo calabro violato e si ferma con pudore accanto a Leonardo Sciascia all’ingresso della Certosa di Serra San Bruno. Poi si tuffa nei versi di Alfonso Gatto, il coriaceo amante di Salerno e della divina costiera. A Marcianise, sulle orme di Roberto Saviano, sale sul ring nella fabbrica di campioni del maestro Domenico Brillantino: qui respira sudore e grinta, disciplina e sacrificio. Sembra soffocare nel corpo dilaniato di Napoli, con le lacrime di cenere di Giuseppe Montesano e i richiami a Elena Ferrante, Nicola Pugliese e Luigi Compagnone. Sullo sfondo il profilo rigoroso di un esule, Gustaw Herling.
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Africo, Reggio Calabria, Italia
Africo è il maschile di Africa, non solo un vento che taglia e non accarezza, che inquieta senza dare sussulti né forza, che pare dolce ma non lo è perché ti lascia addosso una sensazione di irrisolto. E di irrisolvibile. Dicono che il nome derivi dal latino apricus: ma è oggi tutt’altro che un luogo aperto, soleggiato. Africo la vivo come una breve in pagina, una pietra aguzza
in un ruscello che si è fatto fiume e che adesso mostra argini troppo deboli per tenere assieme tutta l’acqua che passa. Vorrei fosse una impressione sbagliata, mi rendo conto che lo è, non riesco però a convincermi che sia altro da quello che mostra, le ferite del passato e le brutture del presente. Ma Africo è più Italia di quanto gli italiani possano credere, sempre che sappiano cosa
sia e dove sia, Africo. Africo è una stazione da cui partire per non tornare più, un paese che svolta a destra sulla Statale che si affaccia sul mare cobalto, una strada dritta che spacca quel mondo tra la profondità dello Jonio e il pallore smunto di un ammasso indistinto di case tozze e di occhi che spiano dietro serrande accortamente abbassate. Sento Africo ultimo fra
gli ultimi per la prima impressione che mi lascia, per i libri e gli articoli letti, tanti, forse troppi, per tutti quei fogli da cui non trasuda mai speranza; o forse perché Africo subito mi vomita addosso il suo cattivo umore, un alito secco, impastato di rancore e ruggine, sarà per l’ora che si porta dietro, al mio arrivo, un sole inclinato verso il pomeriggio. Africo è il sud del Sud che si
potrebbe amare in una dimensione nostalgica se non fosse che la nostalgia è il peggiore dei sentimenti: ti porta a essere indulgente verso un tempo di oscurità, di facce povere e di ignoranza, di esistenze falciate a futuro zero. Perché suo malgrado Africo ha assunto su di sé tutti i peccati del mondo, quelli che scippano i volti della gente perbene, li rendono ostili al prossimo
come se qui il tempo non accelerasse mai, ma si perdesse nella notte dell’Aspromonte che è alle spalle, calato come la toga di un giudice che ha già emesso una sola sentenza. Ieri di morte e disperazione per mano della natura, sulla cima aguzza e sporgente di Africo Vecchio; oggi di morte e disperazione per mano dell’uomo, sulla piana sterile di un pezzo di terra
buttato al confine tra paesi che non hanno più nulla da chiedere, come Africo Nuovo, un nome che si ripete per non dimenticare un passato che invece è già remoto. Africo Vecchio è una gettata di pietre grande come un pugno su cui si è abbattuta una fiumana di fango e detriti dopo quattro giorni di pioggia, dal 14 al 18 ottobre del 1951, pioggia terribile e ininterrotta, e ha
perso il suo fragile equilibrio come un trapezista ubriaco. Oggi Africo Vecchio è un simulacro, il tempio della sospensione, il ghigno di un cataclisma, un gioco strano di natura selvaggia e massi che adesso sentono solo il fiato acre dei fantasmi. Africo Vecchio come una mosca sul dorso della Calabria è una scissione provocata dalla natura e mai sanata,
una vicenda breve ma non marginale di molti sudditi e pochi potenti oggi come ieri, dalla montagna al mare, dai terremoti e dalle alluvioni ai veleni nascosti nella terra come il peggiore dei segreti che si svelano nella carne marcita della gente. Vecchio e Nuovo hanno molto di vecchio e poco di nuovo, hanno il sapore guasto della peggiore Italia, hanno gli screzi di natura e il
disprezzo dei mafiosi, perché a volerla leggere tutta e bene, la storia del Paese oltre i fatti minuti ma sapidi del paese, qui è un gioco retorico di minuscole e maiuscole oltre il quale c’è solo l’immagine sfocata sotto una lente di ingrandimento. Africo Vecchio è la cronaca di molti soprusi e di pochi ammutinati, di (tante, non tutte) vite meschine affidate a un Dio girato
dall’altra parte, di sacrifici e di esistenze bestiali, rischiarate dalla sagoma affilata di un principe dell’altra Italia, Umberto Zanotti Bianco, che, tra la perduta gente, alla fine degli anni Venti, ci volle stare con la tenacia dell’uomo che credeva nel progresso e sapeva dare contenuto concreto alla pacatezza della ribellione. Zanotti Bianco, che qui chiamò un giovanissimo
Manlio Rossi-Doria per rifare il catasto, voleva vedere quello che troppi non vedevano. E soprattutto voleva cambiare, costruire, fare qualcosa che non rendesse inutile tanto la sua vita quando quella di una comunità condannata a morte precoce nel ventre di una montagna astiosa e compatta. Africo Vecchio è uno specchio che inghiotte una dolorosa
rassegnazione. Ora, quando respira al buio, ciò che resta del paese ridisegna sull’orizzonte tremulo i volti pesanti di chi non ha mai coniugato il verbo sperare. «Sullo spazio dinanzi alla baracca del Municipio siamo circondati da alcune donne che vociferano tutte assieme. Visi di furie stanche e fameliche, scavati dalle sofferenze e dalle fatiche, con una
espressione di animali inselvatichiti: visi così tirati dalle rughe, dalle curve amare delle bocche, da rendere impossibile la luce serena di un sorriso. Visi malati, vecchi anzi tempo». La luce serena di Zanotti Bianco è singolare; i visi, le sofferenze, le fatiche, le curve amare sono invece plurali. Ma è come se fossero una cosa sola. Africo Vecchio, già infiacchito dagli scossoni di
natura (il terremoto del 1908 e l’alluvione del 1951), è una piaga su cui lo Stato ha versato solo sale: tasse, non ambulatori; iniquità, non scuole; favori, non opere. È il margine bruciato di una pagina abbandonata dove persino il porco soffre accanto a un malarico febbricitante, nei tuguri che Zanotti Bianco non poteva fare altro che descrivere con minuzia indignata. «Non c’è porto
levantino che possa raccogliere una simile varietà di miseria». Africo Vecchio è un vento che ridesta nella notte come lo schiaffo vigliacco del destino. «Cerco invano di addormentarmi per non morire di malinconia: cerco invano un perché a tanto penare, una giustificazione, uno scopo a tanta assenza di bene: cerco invano di esaltarmi sognando la freschezza mattutina del
nostro avvenire, pensando alla potenza dell’amore che saprà un giorno raggiungere anche quest’angolo obliato della terra: ma le esalazioni di questa miserabile vita malata e dolorante mi uccidono il sonno». Africo Vecchio è un pane che non c’è più, il mischio di farina di lenticchie, cicerchie e orzo «dal gusto acido e amaro», e che oggi non piacerebbe neppure agli
estremisti del biologico, perché quel pane aveva il sapore della povertà, del freddo e della malattia. Al solo descriverlo, pare di sentire il rancido e la terra in bocca. Nel racconto di Giorgio Amendola il pane mangiato dagli abitanti di Africo era una pietra nera e dura. «Fui colpito dalla commozione di Zanotti Bianco, che conoscevo come uomo misurato e controllato. Si era nel 1928,
in pieno periodo fascista. Ma la miseria di Africo era antica». E antica, non nel pane ma in altre forme, è rimasta. È una miseria grassa, contemporanea, una miseria brusca, intima, che succhia e divora, come nelle «anime nere» di Gioacchino Criaco e Francesco Munzi. Una miseria che neanche il denaro prosciuga, anzi è fuoco che l’alimenta. Africo Vecchio – il paese più
povero, triste e infelice di Calabria, come lo rivelò ai lettori dell’Europeo il grande Tommaso Besozzi nel ’48 – è stato ricostruito persino nella letteratura, da Saverio Strati nel romanzo La teda, come lo fu Pescina per Ignazio Silone. Perché la terra desolata è uguale sempre, nelle comunità riscritte e in quelle reali. A Terrarossa (Africo o la vicina Casalnuovo, ma poco
cambia) come a Fontamara (Pescina), e non può esserci distanza che tenga dalla Calabria all’Abruzzo: al contrario di quanto sosteneva Tolstoj, anche le famiglie infelici si somigliano. Anzi sono tragicamente simili. Africo Vecchio ha una sua unicità anche in questo: case disegnate sulle pagine di un libro eppure tirate su mattone dopo mattone dalle stesse mani, quelle
appunto di Strati. I giovani muratori di Terrarossa, i braccianti ridotti in miseria, le donne fatte solo di corpo e con l’anima abrasa, gli istinti animaleschi, le rivolte soffocate, gli imbelli uomini di potere, i profittatori: un campionario umano, nel cuore dell’Aspromonte, a cui Strati sente di appartenere non per generica solidarietà con i vinti ma per irriducibile
senso di giustizia, che a ogni libro pulsa forte – in particolare nel romanzo Il selvaggio di Santa Venere. Pane e lavoro come speranza sottile, perché dopo la pioggia, e i crolli, e i lutti, arriva sempre «il sole a risplendere in cielo». Una scrittura arsa, tesa come corda di violino. Un neorealismo senza poesia, perché la poesia è fuggita da Terrarossa, da Africo. Per la cronaca Strati
è morto a Firenze, lontano dalla sua Calabria, in stato di indigenza. Africo Nuovo è un filmato in bianco e nero dell’Istituto Luce, che si perde in un grigio indistinto su YouTube. Il ministro Aldisio, un democristiano di Gela, assiste alla posa della prima pietra dell’insediamento post-alluvione; quindi inaugura centosessanta alloggi (di cui ottanta donati dalla
Croce rossa svedese) per gli africoti trasferiti nel paese nuovo, figlio di un compromesso tra Dc, Chiesa e Pci locali, in contrada Le Querce. Ossia la terra di nessuno a sud di Bianco dove molti non volevano andare, sradicati tanto dalla forza della natura quanto (peggio) dal cinismo della politica. Colpisce ma non sorprende il tono formale dello speaker: ecco «abitazioni
salubri, perfettamente e comodamente arredate», per un «avvenire meno duro di quanto non sia stato il passato». Diventa ancora più stridente, la voce neutra e impostata, quando si sofferma sui volti di alcune donne dall’età indefinibile che assistono all’inaugurazione stando ai margini, come a non voler disturbare gli estranei signori della festa, arrivati per subito ripartire.
Vestite di scuro e con i capelli arruffati, queste donne hanno marchiata sul viso la stessa espressione enigmatica, sembrano sfingi di terracotta. Nessuna parola esce da labbra minute e strette perché – pensano – non hanno nulla per cui esultare. «Che ci facciamo qui?» sembrano chiedersi. O, al contrario, «che ci fate voi qui?», rivolte al piccolo corteo dei cerimonianti,
rivelando nell’uno e nell’altro caso un sentimento di pudica inadeguatezza. Tanto quanto la mamma che porta in braccio una bambina vestita a festa: madre e figlia sembrano catapultate lì da un altro emisfero, ed è facile stare dalla loro parte, avvertendo più sofferenza che gioia, inquietudine che felicità. Nell’ultima inquadratura, un gruppo di
ragazze si affaccia alla finestra di un appartamento della new town. Un sorriso appena abbozzato da una di loro si spegne a uso e consumo della cinepresa di Stato. Forse è solo il presagio – o almeno a me così pare di capire, leggere, interpretare – di un destino già segnato. Lì sulla montagna come adesso a due passi da un lembo di costa che nessuno vuole
riconoscere. Africo è stata rifatta a un pelo dal mare ma odia il mare, nessuno possiede una barca e non esiste un marinaio o un pescatore, ha scritto nel ’79 Corrado Stajano, un giornalista lombardo che scese sul fondo del barile per raccontare le nuove dinamiche di potere, quelle impastate con la malta delle protezioni e delle clientele da preti come don Stilo e dalla corte
di ministri, sindaci, piccoli politicanti e lacchè ai suoi piedi; le parabole violente della Onorata Società, volgarmente ’ndrangheta, che sapeva (e sa ancora) dosare con cinismo il peso del ricatto e del fucile, ovvero della lingua e della sopraffazione; i riti di una religione che qui troppo spesso non è conforto ma folklore, lingua criptica e senso distorto dell’appartenenza;
di focolai di una ribellione atavica e mai azzoppata, che si riversa attraverso i nervi le parole le azioni dei Rocco Palamara e dei giovani il cui fuoco non si è spento ma arde in poche braci (i volontari, le associazioni, gli archeologi, i giornalisti di fogli inventati dal nulla e di siti web che non rimestano nella nostalgia o nell’astio). Urti e lacerazioni della seconda vita di un paese stanco.
Rileggo Africo e sento tutta l’impronta originale di uno scrittore spurio, che rimescola il materiale della vita come il vasaio di Benjamin. Stajano ha cercato costantemente nei frammenti di cronaca e nelle parabole di gente normalmente e a suo modo eroica (dall’anarchico Serantini all’avvocato Ambrosoli) le fibrillazioni della storia, un maestro per il suo stile lucido,
«un impasto di narrazione, di inchiesta, di analisi saggistica, di memoria», e la giusta intransigenza, quella che ci fa guardare negli occhi del mondo senza derogare ai principi che ci ispirano. «Sono uno scrittore di casi, hanno sentenziato i sociologi. Sì, i casi esistono, ben definiti, ma ho l’ambizione di pensare che i miei libri possano andare anche al di là di un caso specifico».
Una lezione di scrittura plurale, dal giornalismo d’inchiesta all’attività documentaristica, che si tiene su uno scheletro di rigore morale illuminista. Per me, un esempio. Tanto da condividerne, non solo emotivamente, le conclusioni, a distanza di anni che qui sono trascorsi come in una campana di vetro: «Forse non si saprà mai la verità sulle oscure vicende di Africo e sui suoi
personaggi dalle tante facce, ma quel che si conosce è sufficiente a capire qual è la vita, quali i problemi pubblici e privati e le storture, i drammi, le impotenze di un paese italiano, oggi, e dei modi usati, non solo sulla costa jonica, per esercitare potere, imporre soggezione e influenza. La verità è forse più d’una, in questo paese che appare privo di pietà e anche di un
barlume di innocenza e di tenerezza. Gli eterni profughi, gli zingari dell’alluvione, sono ancora in cammino, alla ricerca di una identità e di una patria, nel grigio lunare dell’abitato, nella precarietà senz’appigli della loro vita». Africo è, appunto, «la rimozione della questione meridionale». Africo non esiste, e se esiste val bene un buon libro.
O un bel film. Amen.
Un pallido sole che scotta
Un pallido sole che scotta
Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud
Pubblicazione: Maggio 2015
Dura, l'incanto, quel tanto che serve a immaginare il paradiso
Recensioni
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud”: Francesco de Core intervistato a Fahrenheit-RadioRai3. Ascolta.
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud” recensito da Giovanni Russo su Il Corriere della Sera
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud”recensito da Giuseppe Montesano su Il Mattino
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud”recensito da Gianni Mura su La Repubblica
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud” recensito dallo scrittore Roberto Saviano
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud”recensito da Andrea Di Consoli su IlSole24ore
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud” recensito da Francesco Durante su Il Corriere del Mezzogiorno-Corriere della Sera
Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud” recensito da La Repubblica
“Un pallido sole che scotta. Da Africo a Napoli, viaggio nel cuore del Sud” recensito da Fabio Ranucci su Conquiste del Lavoro.