È il 2 maggio del 1945. Martin Bormann, braccio destro di Adolf Hitler, scompare per le strade di Berlino durante l’avanzata sovietica. Vent’anni dopo, fonti prossime alla CIA lo identificano come Martin Weisberg, finanziatore eccentrico e pacifista della rock band The Love’s White Rabbits vicina al Movimento radicale. Da qui ha inizio una caccia all’uomo che coinvolgerà settori deviati dei servizi segreti americani e israeliani, uno scovanazisti italiano, un attore cieco fan di Charles Bronson, un reduce dal Vietnam fuori di testa. La vicenda è ambientata prevalentemente negli Stati Uniti, con incursioni fra Città del Guatemala, Singapore, Saigon. Sullo sfondo il clima esplosivo dell’estate del ’68. Storia, cronaca e finzione si rincorrono fondendosi dalla prima all’ultima pagina di Quando le chitarre facevano l’amore, questo originale romanzo dal ritmo incalzante e dal finale al cardiopalma. Così accade che una spia in gonnella semini il Caos. Uno scheletro sia perdutamente innamorato di Anita Garibaldi. Una chitarra racconti la Beat generation. Una scultrice plasmi marijuana e hashish. E mentre scorrono fiumi di limonata all’LSD, esplode la questione nera, le università sono in rivolta, la musica psichedelica spopola tra i giovani e gli agenti dell’FBI reprimono le proteste. Tutto è possibile per Mazzoni , definito dallo scrittore Enrico Pandiani “una delle penne più felici, ironiche, prolifiche e feroci del panorama noir italiano”.
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Berlino, bunker del Fürer, 2 maggio 1945, ore ventitré. Mentre all’esterno esplodevano continui i colpi dell’artiglieria russa, i sopravvissuti, devoti a Hitler, si preparavano a lasciare quel luogo sinistro e senza speranza. Il generale Mohnke cercava di impartire ordini, qualche soldato bruciava i documenti, la maggioranza degli altri militari beveva da bottiglie di whisky o
barcollava nella vasta anticamera. Avevano abbandonato le ricche uniformi. Tutti tranne Martin, che si presentò all’appello con una divisa da generale delle Ss. Uno dopo l’altro, incespicando, ridacchiando o rabbrividendo, uscirono da una finestra, attraversarono il Wilhelmsplatz illuminato a giorno dagli incendi e scesero, facendosi strada
fra i detriti che bloccavano la rampa d’accesso, alla stazione Kaiserhof della metropolitana. Preceduto dal suo assistente Werner Naumann, Martin chiudeva la fila dei fuggiaschi. Il segretario personale del Fürer rifletteva fra sé, per quanto l’alcol, ingollato senza pausa da almeno ventiquattr’ore, glielo consentisse. Il capo che si uccide, il leggero corpo della signorina, anzi
signora Braun trasportato fuori. L’ultimo sguardo al volto cinereo di Hitler prima che fuoco e benzina lo carbonizzassero. E quelle parole – «sei il mio più fedele camerata» – sussurrategli dal numero uno del Reich mentre si ritirava nella sua stanza sotterranea per farla finita con l’orrore che lui stesso aveva generato. «Il mio più fedele camerata»... poteva anche essere vero.
Del resto Martin era rimasto fino alla fine. Lui, non quel pallone gonfiato di Göring, dileguatosi con i suoi quadri preziosi. Lui, e non quel pallido decerebrato traditore di Himmler, scappato come un coniglio. Certo, anche Goebbels era rimasto. Ma mentre inciampava sulle macerie, trattenendo a stento un opprimente senso di nausea, Martin si convinse che lo zelante
ministro della Propaganda, suicidatosi qualche ora prima con moglie e figli, l’avesse fatto proprio perché sapeva di non poter competere con lui. «Il mio più fedele camerata». L’esecutore testamentario del Fürer. Il discreto servitore sempre nell’ombra. Colui che aveva suggerito all’orecchio del capo il rogo della Notte dei Cristalli, la Gnadentod per dare il colpo di grazia ai
minorati psichici, la conferenza di Berlino-Wannsee per la «Soluzione finale». Colui che aveva fatto nominare il suo vecchio compagno di galera, Ferdinand Höss, direttore di Aushwitz. Sì, «il mio più fedele camerata», eppure era vero anche quello che gli aveva detto suo fratello Richard molti anni prima: «Martin, sei entrato nel partito perché non hai voglia di lavorare».
Esatto. Si era sempre disinteressato degli ideali nazisti. Ciò che voleva era raggiungere il potere senza il minimo sforzo e Hitler, fino a qualche ora prima, era il potere. Un imbianchino che aveva scalato le vette. Un imbianchino che aveva fatto tremare il mondo e portato ricchezza e prosperità. Se non altro nella vita di Martin, adesso impaurito sotto i
bombardamenti dei bolscevichi e ubriaco fradicio, tremante nel chiudere la fila di un gruppo di uomini e donne che sarebbero passati alla storia come i peggiori criminali dell’era moderna. Nelle gallerie c’erano morti, feriti, topi, disperati accucciati alle pareti, maschere antigas, uniformi. Era un caos precariamente illuminato dalle lampade tascabili dei
fuggiaschi. Avanzarono in quel lezzo asfissiante. A causa dell’oscurità non si accorsero di aver svoltato in direzione della stazione di Fried richstrasse. Salirono in superficie alla stazione Stadtmitte, giunti allo scoperto dal lato opposto alla Gendarmenmarkt, dove ci sarebbero state molte più possibilità di svignarsela. L’avanzata si faceva difficile. I russi erano
ovunque. Sparatorie, esplosioni, schegge impazzite, grida. I fuggitivi si dispersero. Martin correva e gli faceva male la milza. Aveva perso Naumann nei meandri della metropolitana. Non che avesse molta importanza adesso, nel mondo che veniva, avere un assistente personale. Cosa avrebbe potuto fare Naumann se fossero stati insieme e i russi li avessero
catturati? Farsi fucilare al suo posto? Martin ebbe un conato. Gli lacrimavano gli occhi. Era intontito. Non aveva idea di come poter uscire vivo da quell’inferno di fuoco, pallottole e vendette. Seguì Erich Kempka, l’autista di Hitler, Artur Axmann, il responsabile dell’ormai estinta gioventù del Reich, e il dottor Stumpfegger verso il ponte Weidendamm. Quando vi
giunsero lo trovarono bloccato da una barriera anticarro. Tornarono indietro sulla Friedrichstrasse e proseguirono in direzione della Schiffbauerdamm, verso la stazione ferroviaria di Lehrter. Continuavano a bere e a strisciare contro i muri berciati. Razzi, esplosioni nel cielo. Mitragliatrici da tutte le parti. I bolscevichi entravano in città e non
c’era più nulla da fare, nulla. Era tutto finito. Giù un altro sorso. Il Fürer e la sua potenza erano andati in malora e Berlino con loro. Solo fumo, e macerie, e dolore, sotto un cielo vivo e lucente come solo la fine può esserlo. Intanto, camminavano lungo la Invalidenstrasse in direzione della stazione Strettiner. Erano le due del mattino, la notte non finiva mai. Carri armati.
Martin, indeciso, esausto, si appoggiò al muro di una casa. I camerati di vecchie battaglie lo lasciarono lì e proseguirono verso la stazione. Un carro armato, da qualche parte, fece fuoco. Un’esplosione, un lampo. Quando il fumo si diradò Martin non c’era, era scomparso. Vaporizzato.
Quando le chitarre facevano l'amore
Quando le chitarre facevano l’amore
Pubblicazione: Aprile 2015
Lorenzo Mazzoni è un autore di belle storie, alla Graham Greene. Roberto Coaloa, Il Sole24Ore-Domenica
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