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  • Eravamo riusciti a sederci un attimo prima che suonasse anche la seconda campanella. Il professor Pinna era già sulla porta e con passo marziale, senza guardare nessuno in faccia, si era diretto alla cattedra su cui aveva sbattuto la sua valigetta. Aveva recitato e fatto recitare il Padre Nostro a ritmo di marcetta dei bersaglieri. Si era seduto aggiustandosi il ciuffo alla Beatles, aveva

    aperto la ventiquattrore, tirato fuori i libri e i fogli degli appunti. Poi con apparente noncuranza aveva dato una scorsa al registro. Aveva estratto la penna dal taschino interno della giacca e fatto l’appello – tutti presenti, un manipolo di soldatini a cui mancava anche il coraggio di disertare. Fino a quando non doveva dare qualche verdetto terribile, non alzava mai la testa. La frangiona e gli occhiali

    spessi erano una sorta di armatura che lo proteggeva dalla timidezza. Non era molto alto, arrossiva di fronte agli sguardi dei suoi allievi – ma soprattutto di fronte a quelli delle allieve – e anche per le sue rare battute, eppure era impensabile che qualcuno mettesse in discussione la sua autorevolezza. Era di gran lunga il professore più temuto della scuola. Aveva sollevato gli

    occhi al rallentatore come per accrescere la suspense: chi sarebbe stato il primo giustiziato della mattina? A volte le interrogazioni con lui duravano meno di cinque secondi, il tempo di arrivare davanti alla cattedra, di aprire bocca e di dire una castroneria qualunque. Non c’era appello, si tornava a posto e toccava a un altro. Il record tuttora imbattuto era di Porazzi: rimandato

    indietro quattro volte nella stessa giornata. «Stamattina non interrogo» aveva detto a sorpresa. Poi, notando i sospiri generali, era subito arrossito. «Mancano pochi giorni alla fine della scuola e vorrei sapere che cosa vi aspettate dalla maturità, e in generale dalla vostra vita fuori di qui». Davanti a Pinna quattro ragazzi e nove ragazze avevano smesso di esultare per lo scampato pericolo e

    avevano subito sentito odore di trappola. Su Tacito potevamo ancora sfangarla, ma su noi stessi? Che ne sapevamo di chi eravamo, di cosa volevamo, di come saremmo diventati? In quel maggio 1996 eravamo ancora dei fanciulli, dentro corpi più o meno adulti – il mio, ad esempio, non era ancora uscito dall’adolescenza, ero magro e precario ed ero tormentato da una

    fioritura di brufoli. Il mondo oltre la scuola per noi era misterioso quanto lo spazio profondo. Ci eravamo guardati l’un l’altro, a dir poco perplessi. Qual era la risposta giusta? L’ordine di chiamata era quello consolidato da anni: prima fila a destra (a sinistra di Pinna) con le due amichette siamesi che parlavano solo tra di loro e perdipiù sottovoce;

    dietro, io e Alberto; poi tutta l’ultima fila con il cosiddetto “coro greco”: Francy, Betty, Ely ed Emy, le quattro che si muovevano in gruppo, si scambiavano bacetti e diminutivi ma si sparlavano dietro l’una con l’altra; in seconda fila a sinistra (a destra di Pinna) le due fidanzatine Angela e Giorgia, fidanzate non tra di loro ma con due tizi più grandi che

    andavano all’università e venivano a prenderle all’uscita; risalendo in prima fila Tommy, ex bulletto ora ravveduto, e la Falletti, che non era una persona, era un’Entità, la prima della classe, la favorita di tutti i professori, la più odiata dagli italiani. E da qui di solito, se si trattava di un’interrogazione al volo tipo quiz televisivo, giungeva la risposta esatta.

    Senza arrivare all’ultima e inutile chiamata, il banco attaccato alla cattedra in cui vegetava il povero Porazzi, un anno in più di noi e il rendimento scolastico peggiore di tutti. Ma questa volta non c’era una risposta giusta o sbagliata. E se invece c’era, come al solito sarebbe uscita dalla bocca della Falletti. La maledetta, maledettissima Falletti. Quindi

    tanto valeva non preoccuparsi e smettere di sudare freddo. La Di Lorenzo, la prima delle due amichette siamesi, aveva detto: «Spero...» risatina imbarazzata, qualche borbottio a voce bassissima «... bene». La Racca, la seconda delle due amiche siamesi, aveva assentito con grandi movimenti di testa e concesso una delle sue risposte articolate: «Idem».

    Mai che si dimostrassero utili: neanche il tempo di pensare e in due secondi toccava già alla seconda fila. Aveva preso la parola Alberto e con aria severa aveva detto: «“Di doman non c’è certezza”. Cerchiamo intanto di portare a casa la maturità e magari, già che ci siamo, anche la Champions». La parola Champions aveva fatto tremare i polsi di tutti, ma

    soprattutto del professor Pinna, che come in un vecchio cartone animato era passato in pochi secondi dalla sua tinta grigia all’arancio, al rosso Ferrari, al carminio, al violetto, e poi si era trasformato nell’Enola Gay sganciando la bomba del mattino: «Dato che lo trovate divertente, passiamo a interrogare». E quella mattina, come aveva pronosticato Alberto

    prima di entrare in aula, non si era salvato nessuno. Stridore di denti e sangue a volontà, smembramenti e insufficienze irrimediabili. Alla fine del massacro, mentre Pinna salutava e se ne andava soddisfatto, avevo tirato un “coppino” sul collo di Alberto. E lui aveva pure provato a difendersi: «Te l’avevo detto che stamattina finiva così». «Non sarebbe

    finita così se tu non fossi l’idiota che sei. La Champions, diomio, la Champions!». «Ammettilo che anche tu pensavi la stessa cosa». «Sì, ma dirlo ad alta voce... A Pinna, poi!».

    Prendi i tuoi sogni e scappa

Prendi i tuoi sogni e scappa

Pubblicazione: 7 marzo 2025

Collana: Dissensi

Pagine: 200

ISBN: 9791280955142

Disponibilità: ottima

Prezzo: 16.00 

A quell’età non si conoscono le mezze misure: tutto va benissimo oppure tutto va malissimo. Bianco e nero, come i colori della mia squadra che non a caso porta il nome della gioventù.

Se, come sosteneva Jean-Paul Sartre «il calcio è una metafora della vita», allora l’adolescenza non può che essere una finale di Champions, dove ti giochi il tutto per tutto. Lo è per Jacopo, «campione del mondo di sogni a occhi aperti»: è il maggio del 1996, la sua squadra del cuore sta per disputare la partita decisiva e lui, diciottenne, all’ultimo anno di liceo, sta per vivere la stagione più esaltante, spaventosa e straordinaria della sua esistenza. Alberto è il compagno di banco, l’amico per la pelle, sicuro di procurare due biglietti per il match. Bisogna colmare la distanza da Torino a Roma, e Jacopo riesce a prendere l’agognata patente. Ma l’adolescenza è un caos terribile e meraviglioso, ogni evento sembra nello stesso tempo possibile e irraggiungibile. Ci sono la maturità, i genitori con il fiato sul collo, la nonna malata, e poi l’universo ragazze non sempre gira nel verso giusto: Rossella è l’amore platonico di Jacopo, lei sì che gli sembra una chimera inafferrabile. È come stare sulle montagne russe: all’apice della felicità, tutto precipita. La sera della partita, dopo un gol entusiasmante, Jacopo prova una rinnovata fiducia di poter cambiare le cose. Corre fuori. La strada è lunga. Si ferma in un bar durante i rigori, per poi riprendere la sua personale missione… dichiararsi a Rossella.

Un romanzo sull’amicizia, sulle passioni non solo calcistiche, in cui scorre veloce, travolgente, sorprendente, impetuosa, irresistibile la vita: «Eravamo ancora così giovani e innocenti da essere pura potenza».

Libro pubblicato con il contributo della Regione Campania.

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