Potenza è la prima tappa della vicenda in L’odore della polvere da sparo, che prende il via davanti alla prefettura un martedì di aprile del 1947. La polizia spara sulla folla scesa in piazza contro la fame e la disperazione che dilaga nelle campagne. Piove a dirotto e, nel vicino liceo classico, il professore Lodovico Marotta è nervoso, agitato, distante, mentre spiega un passo dell’Eneide. Il racconto di Gianni Ceccante, all’epoca studente timido e incerto e oggi affermato attore di teatro, comincia da quella mattina. A raccogliere le sue memorie è lo scrittore Pietro Mattei, che ricompone vite segnate da un brutto morbo, un focolaio che si diffonde a macchia d’olio anche fuori dai confini del Belpaese, subdolo, dalle mille facce. Gianni impara a leggere in profondità la realtà che lo circonda finendo per caso in una libreria, un covo libertario frequentato dal suo insegnante, ex confinato politico, e dal compagno di classe Diavolorosso. La nuova rotta lo porta a Roma. Una sera, mentre recita, i suoi occhi incontrano quelli di Alejandra, la Maga. L’esistenza della ragazza è segnata da ossessioni e paure, dettate da immagini che vengono da un futuro che insanguinerà l’Argentina, terra verso cui è attratta dall’amore per Victor e da un destino ineluttabile. Ma il fascismo è un cancro in metastasi anche in Italia. Mai domo, nemmeno quando la Storia ne certifica la fine. L’epilogo si svolge a Torino, dove Gianni spopola in teatro. Ormai non è più lui a raccontare. A tirare le fila è lo stesso scrittore Pietro Mattei che mette insieme gli ultimi pezzi del mosaico nel nome di Camillo Bentivenni, orologiaio e anarchico.
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Gianni scostò lentamente un orlo della tenda. Era rientrato da poco a casa, e mentre se ne stava con la fronte appiccicata al vetro pensò che quella mattina la fortuna lo aveva assistito per ben due volte. La pioggia era caduta senza sosta per tutta la notte e fin dalla sera precedente. Poi, come per una improvvisa grazia accordata dal cielo, era cessata appena un attimo
prima che lui uscisse per recarsi a scuola. Giusto il tempo di varcare l’enorme portone di legno ed ecco che l’acqua aveva ripreso a venire giù insistente. La sentiva scrosciare mentre, assieme ad alcuni suoi compagni di classe che aveva incontrato nell’atrio, saliva su per l’ampia e severa gradinata che portava all’ultimo piano. Un’atmosfera precisa si impossessò di ogni cosa e
definì il generale tono dell’intera mattinata. Grigi i muri della classe, grigia la voce dei professori, grigi i loro sguardi che non si staccavano neppure per un secondo dalla lavagna o dal libro di testo. Grigia persino l’aria che si respirava. E poi, durante l’ultima ora di lezione, quella del professore Lodovico Marotta, ci fu come uno sconquasso. Il grigio mutò pesantemente
in nero e nell’aula si fece quasi del tutto buio. La reazione dei ragazzi a questo improvviso scivolare nelle tenebre fu forse eccessiva. Ma quel rannuvolarsi, che scese tra pareti banchi attaccapanni, a qualcuno tolse il respiro. Altri si guardavano intorno spauriti, quasi a voler individuare una via di fuga. E si squadravano a vicenda per avere conferma della pesante sensazione che li
inchiodava. Fuori la pioggia cadeva e cadeva. Mista a grandine, e con la furia del diluvio. Non si riusciva a tenere il conto dei lampi e dei tuoni che si scaricavano uno sull’altro come se tutto dovesse davvero finire di lì a poco e non ci dovessero essere più altre stagioni, altri temporali, altri giorni di grigio che si trasforma in nero. Sembrava un’apocalisse, tanto che il professor Marotta, sollevati
gli occhi dal libro e alzatosi lentamente dalla cattedra, si lasciò sfuggire un sonoro «porcaputtana». E mentre si dirigeva verso la parete di fianco alla porta per accendere la luce, rincarò la dose ripetendo con lo stesso tono il porcaputtana di prima. Aggiungendovi, nel tragitto di ritorno, un sibillino «e proprio oggi, proprio oggi». Cercò solo di sussurrarlo, ma non fu abile fino in fondo nel
dosare il tono di voce perché Gianni, lui soltanto, lo sentì. Per il resto della classe l’imprecazione fu il momento più eccitante della giornata. Una ventata di luce, di aria pura, di vita vera entrata con forza tra le pareti della scuola. Il soffio di una autentica rinascita dopo il panico dei minuti precedenti. La restituzione a un istante spensierato di giovinezza, come era giusto che
fosse in un periodo dell’anno che avrebbe dovuto regalare segnali di primavera. Sarebbe stato ragionevole sperare che odori, suoni, colori filtrassero dalle grandi finestre dell’edificio. E invece no. Tempesta. Al secondo porcaputtana, con il professore ormai diretto verso l’interruttore della luce, i ragazzi avevano riconquistato la baldanza dell’età e quelli che
stavano davanti avevano trovato il coraggio e la forza per girarsi verso i compagni dell’ultimo banco. Se solo il professor Marotta non si fosse concentrato su quel suo indecifrabile pensiero riaffiorato alle labbra nel sussurro percepito da Gianni, lui stesso avrebbe colto che i suoi studenti, come un corpo unico e con un movimento della testa perfettamente
sincronizzato, stavano chiedendo a qualcuno, giù in fondo, che cosa stesse accadendo. E avrebbe carpito la risposta che arrivò fulminea, in codice. Camillo Bentivenni, chiamato Diavolorosso per via del colore dei capelli ma soprattutto per il carattere ribelle, s’era portato l’indice destro alla tempia e lo aveva ruotato su se stesso diverse volte, quanto bastava a farlo diventare
una proposizione di senso compiuto e inequivocabile. La traduzione in linguaggio verbale, «è impazzito», arrivò assieme alla risata mal trattenuta dei compagni. Il professore però era così preso dal suo pensiero sulla misteriosa importanza di quella giornata che si perse lo spettacolo. Ritornato alla cattedra si fece forza e cercò di riprendere al meglio l’ispirata lettura
del libro IV dell’Eneide e del millenario dramma amoroso di Didone. Uritur infelix Dido totaque vagatur urbe furens... Qualche minuto appena; un paio di versi soltanto, e il fragore dell’ennesimo tuono distolse gli occhi di tutti, insegnante e allievi, da quelle pagine leggendarie. Gli sguardi fuori a scrutare la montagna in lontananza avvolta da nuvole nere.
Su questo erano concentrati, in silenzio e come in attesa di una tragedia oscura ma imminente. E Marotta pareva inebetito con il suo pince-nez ancora sul naso, attratto dal finestrone, inquieto come mai i ragazzi lo avevano visto. E nervoso, molto nervoso. Didone ardeva d’amore ed era sempre lì che s’aggirava tra i versi di quel libro. E andava, invasata, per la
città come cerva colpita da una freccia, senza conoscere il destino di solitudine e di morte che il fato le riservava. E intanto bramava di poter ascoltare di nuovo dalla viva voce di Enea i travagli e la fine di Troia. Pendetque iterum narrantis ab ore. E ancora una volta pende dalla bocca che narra. Come se quella storia e il racconto di quella storia potessero essere la chiave adatta
ad aprire il cuore di Enea così come avevano dilaniato il suo. Eppure chissà, forse nelle pieghe del suo animo – insondabile come l’animo di ogni uomo e di ogni donna – Didone già sentiva accendersi la scintilla della follia. Forse già la sua passione diventava disperazione per quell’amore che gli dei non le avrebbero concesso di vivere. Forse cominciava a
capire, nello stesso momento in cui più si concedeva alla voce di Enea, la solitudine irresolubile del suo cuore. E forse tremava anche per quel diluvio che distraeva il professor Marotta, e che impediva al suo ardore di donna straziata dalla passione di trasformarsi in dolce parola, in poesia capace di commuovere chiunque avesse la giusta tranquillità per stare
ad ascoltare. Quella tranquillità mancava. Era così, e sembrava che nessuno potesse farci nulla. A ogni tuono che scuoteva i vetri, a ogni improvvisa folata di vento che entrava o usciva da chissà quale dimenticata fessura del palazzo, a ogni assordante crescere di rovescio da quel cielo di piombo, Marotta si lasciava rapire da quanto stava accadendo fuori.
Se ne tornava con gli occhi alla grande finestra, tre quattro metri dalla cattedra, e si perdeva di nuovo in quel turbine di boati, scrosci, sibili, lampi. Per lunghi attimi sprofondava in una autentica catalessi, appena scossa da quella sua rabbiosa litania che gli prorompeva così, senza pudore, accompagnata da un tono di voce che col passare dei minuti era
diventato più deciso fino a sembrare il ringhio di un animale ferito. Porcaputtana. Immobile, il libro ancora aperto davanti a sé, continuava a guardare fuori. Era a tal punto catturato dalla tempesta, che non percepì quell’altro urlo, anch’esso bestiale, che esplodeva giù nella strada, nella via che salendo da piazza 18 Agosto 1860 si dirigeva, percorrendo l’extramurale,
verso il centro cittadino. Seduto alla sua cattedra, nell’aula al sesto piano, con lo sguardo perduto tra pioggia e nuvolaglia e lampi, il professore non poteva vedere l’infinito serpente umano nero e fradicio, sferzato da quello che il cielo gli mandava addosso, carico di fango e vento e acqua, avvolto in giacche e in raffazzonati impermeabili, rimpicciolito sotto ombrelli neri del nero
nel quale era stata inghiottita tutta la città. Non sentiva altro che il sibilo del vento, lo scroscio della pioggia, il rombo dei tuoni. Gli unici suoni riconducibili a una voce umana che gli arrivavano alle orecchie erano quelli che a intervalli non regolari uscivano proprio dalla sua bocca. Porcaputtana. Il grido della strada apparteneva a un’altra galassia smarrita in
un universo parallelo. Inutilmente diventava boato, inutilmente s’innalzava e ancora inutilmente si placava per riprendere rabbia e vigore, e sempre inutilmente s’innalzava di nuovo. Confuso nel tuonare della tempesta, quel grido non riusciva a sollevarsi fino alle orecchie del professore e dei ragazzi, su all’ultimo piano del gigantesco palazzo dove era stata
sistemata la classe terza del liceo classico Orazio, già Luigi La Vista, già Real Liceo Salvator Rosa, temporaneamente trasferito nei locali della gloriosa scuola elementare di via Roma. E dopo le prime considerazioni sull’improvvisa pazzia del professore che aveva suscitato risate soffocate a stento, l’aula di liceo, e la classe che vi era contenuta, s’erano chiuse in
un silenzio tombale di fronte a quella litania. Porcaputtana. Poteva diventare addirittura uno scandalo senza precedenti la parolaccia proferita da un esimio professore in luogo austero e alla presenza di giovani anime innocenti. Ma quel martedì 29 aprile 1947, giorno della bufera, della bestemmia, dello stupore e del sangue, giorno fatidico, tutto perse importanza di fronte a
quanto stava accadendo fuori dai muri del liceo Orazio, fuori dalle case di Potenza, nello spazio compresso tra il Palazzo del Governo, il teatro Francesco Stabile e l’antico decumano che attraversa il centro della città da una parte all’altra. «Tutto perse importanza. E tutto fu presto dimenticato...» mi dice Gianni con la sua voce profonda e impostata guardandomi dritto negli
occhi adesso, dopo tanti e tanti anni: «Uritur infelix Dido totaque vagatur urbe furens... versi lasciati così, a svanire tra le pareti dell’aula, senza il tempo necessario per trovare il posto che meritavano nelle anime di quei ragazzi che eravamo allora». Ancora oggi Gianni ricorda di aver avuto un attimo di sbalordimento di fronte al porcaputtana di Marotta. Ma, mi ripete, ciò che lo
aveva letteralmente affascinato era stato quello che il professore aveva aggiunto dopo: «E proprio oggi...». Perché quella era una giornata così importante? Solo pochi minuti dopo, quando anche lui si trovò a pochi passi da piazza Mario Pagano, quel soffio del professore, quella sibillina frase sfuggita agli altri ma non a lui, si caricò di tutto il significato che aveva.
Tempesta o non tempesta, bestemmia o non bestemmia e, per una volta, chissenefrega di Didone che arde d’amore e, come sempre da duemila anni, vaga nella città come cerva colpita da una freccia e, invasata, va incontro al suo tragico destino: tutto passava in secondo piano perché quella mattina Gianni era incappato, senza volerlo, nel lato in ombra del professor
Marotta. E ne sarebbe rimasto segnato per sempre. Tante cose da allora si sarebbero incastonate una nell’altra così, senza sforzo apparente. E Gianni le avrebbe incrociate tutte, una dietro l’altra, con la facilità con cui si beve un bicchiere d’acqua. Non credo di sbagliare se dico che proprio in questo modo comincia la storia. Quel 29 aprile del 1947
fu il giorno in cui ogni cosa ebbe inizio. Il confuso destino di un Paese. Un dramma per molti. La rivelazione per due ragazzi. E, intorno a loro, tutto come alla deriva in un mare di sangue.
L'odore della polvere da sparo
L’odore della polvere da sparo
Pubblicazione: Giugno 2015
Recensioni
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