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  • La canzone di Filomena

    Una stanza ampia in penombra. Nell’oscurità, in circolo ma distanziate, siedono quattro figure, due uomini e due donne. Si alza una donna e va al centro della scena. DONNA: «Vi voglio raccontare una storia. Ve la voglio raccontare stanotte, che questo vento caldo scuote le imposte e la pioggia martella quel che rimane dei vetri. Stanotte, che questo vecchio palazzo

    decrepito sembra ancora di più un gigante intrappolato nella rete di vicoli disperati, lui che era nobile e forte nell’infanzia di questa triste città urlante. Tanto possiamo solo starcene qui, seduti a sentire il pianto del vento e a vederne le lacrime; non è la nostra notte, questa. Possiamo raccontare. Solo raccontare. Vi ricordate i primi anni del secolo? Quando il mare profumava

    l’aria fino alla collina, e da lì in poi erano piante ed erba erba giovane, e l’aspro odore delle pecore e delle canzoni d’amore? Non me lo dite, chi di voi c’era. Però ricordate certo le risa dei bambini, gli zoccoli dei cavalli carichi di fieno sulle salite ripide. E ricordate gli inverni, e il tenero odore di legna bruciata che faceva pensare a casa, e faceva affrettare il passo. Ricordate i cappelli e

    gli inchini, e il suono delle fisarmoniche ambulanti, e il Natale degli zampognari, con i canti e il battere delle mani dei cento, mille scugnizzi scalzi, geloni e pantaloni corti con lo spago in vita, come d’estate. E il carretto della pizza, il carretto della verdura, il carretto della pasta, e i cento, mille carretti che legavano la città in una rete di urla e richiami. In quegli anni in

    cui tutto sembrava possibile, il vecchio e il nuovo sottobraccio a guardare avanti, in quegli anni c’era una bambina. Proprio ai piedi di questo nostro vecchio palazzo triste, che ora conosce il vento e le lacrime solitarie dell’antico dolore, in uno dei bassi oscuri in cui si soffoca e si trema, c’era una bambina. Occhi grandi senza lacrime, bocca chiusa, serrata a non

    lasciare uscire un sospiro. Non ricordo il nome, lo sapete: non ci è dato di ricordare quello che non è stato scritto. Diremo Filomena, che significa quella che si deve amare, perché lei meritava di essere amata nel mio vago ricordo. Prima di sei paia d’occhi neri, la pelle bruna cotta dal sole maledetto di dodici estati, le mani nervose abituate ad abbrancare il cibo per i

    fratelli affamati, a sminuzzare quello che trovava dietro ai grandi cortili, dove grasse nutrici gettavano avanzi di pasti sconosciuti. E quante volte le mani restavano vuote, e vuoti di lacrime gli occhi, e vuote le pance gonfie, il pianto dei più piccoli leggero leggero come un cinguettio di passeri morenti. E la disperazione di un domani senza sole, e la paura della notte.

    Dovete sapere, voi che mi sentite raccontare nel vento e nella pioggia di questa notte sospesa, che Filomena aveva perso la madre, morta nel sangue dell’ultimo parto, quello dei due gemelli. Le vecchie vicine avevano urlato per due giorni, nell’aria ferma di una primavera silenziosa. Nemmeno le ruote delle carrozze della strada grande si sentirono, in quei due giorni in cui

    Filomena diventò adulta a dieci anni, senza sedersi e senza dormire, per non sognare tutto il sangue che dalla paglia del letto gocciolava sulla terra battuta. Tutti, c’erano, fuori la porta del basso. E dietro la cassa di legno chiaro, sulle spalle del padre e degli zii, nel silenzio del dolore fino a Poggioreale. E dovete sapere del padre di Filomena, un uomo solo e debole, che la disperazione

    portò all’inferno, nell’abisso di se stesso, a cercare pace, senza trovarne, in vini nuovi e taverne rumorose, lui che non aveva più moglie ma ancora figli quando c’era da raccogliere comprensione e compassione; non quando c’era da trovare da mangiare. Lui che riusciva a procurarsi solo un poco di lavoro a ore, sulle assi malferme dei cantieri nei quartieri nuovi, quelli che

    andavano crescendo come piccole foreste dietro le vie vecchie o vicino al mare, sotto la montagna. E però i soldi se li beveva, o se li giocava a carte seduto sulle cassette di legno, nel buio stretto vicino al porto in mezzo agli strilli dei gabbiani».

    Gli altri fantasmi

Gli altri fantasmi

La canzone di Filomena. Storia di Papo e Bimbomio. La casa è il mio regno
Introduzione di Francesco Saponaro. Postfazioni di Chiara Baffi e Tony Laudadio

Collana: Dissensi

Pagine: 72

ISBN: 9788896350249

Disponibilità: Buona

Prezzo: 10.00 

Una «trilogia delle anime» dalla penna del creatore del commissario Ricciardi

Cammino per ore, pioggia o sole che ci sia, freddo o caldo. Cammino per strade che non conosco, sfiorando persone frettolose, cariche di pacchi e di pensieri, e non riesco a credere che non capiscano, che non si fermino di fronte a me, la mano sulla bocca, gli occhi spalancati sul baratro della mia sofferenza. Ma non si vede nel mio sguardo? Non si capisce dai miei lineamenti, dai capelli sporchi attaccati alla fronte, dalla camicia male abbottonata? Dalla barba di tre settimane, dalle borse sotto gli occhi, dalle scarpe slacciate?

Nei romanzi gialli dello scrittore Maurizio de Giovanni gli spiriti svelano gli ultimi istanti di esistenza dei morti ammazzati. Nella raccolta Gli altri fantasmi, pensata per il teatro, queste presenze prendono il sopravvento confondendosi con i personaggi reali. È un incontro tra anime in pena, le anime di una città. «Napoli è così – scrive de Giovanni –: milioni di persone in uno spazio ridottissimo, una sull’altra e ognuna con la sua memoria, i suoi affetti, la testarda voglia di sopravvivere a tutto, persino a se stessa».

In questa «trilogia della sospensione tra la vita e la morte», come la definisce il regista Francesco Saponaro, «c’è la città con i suoi vagheggiamenti e le sue ferite che non si rimarginano». Qui è possibile imbattersi in una bambina scalza, dai grandi occhi neri che non versano lacrime, che corre tra i vicoli dei Quartieri Spagnoli agli inizi del Novecento, e che riconosce nel viso di una Madonna lo spettro di sua madre: nel testo La canzone di Filomena, la prosa di de Giovanni si eleva a lirica del dolore. In Storia di Papo e Bimbomio, racconto forte, dolente, infame per usare un’espressione dell’attore Tony Laudadio, un padre, attraverso le pupille di un vecchio cieco, ripercorre nei ricordi tutte le declinazioni della sofferenza, dalla malattia alla morte del figlio.

Registro diverso per La casa è il mio regno, che induce a un sorriso amaro e ammicca a un caffè d’autore di eduardiana memoria. Stavolta è l’odio a irrompere sulla scena, un veleno letale nel condannare all’infelicità marito e moglie, potente nel tenerli uniti per l’eternità.

Gli altri fantasmi, «ora li guardo vivere le loro storie – recita Chiara Baffi – e ne rimango incantata».

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