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  • L’aveva vista aggiustarsi la gonna con una cura nervosa, superflua. Si era fermato di fronte all’uscita, sicuro di un suo cenno. Nemmeno si era voltata. La serata si era chiusa con l’immagine della schiena di lei, la testa riccia, i piedi da bambina che avevano già ripreso il ritmo della musica. L’aria nella sala era satura di foxtrot e fumo, lei una figura sfocata in mezzo alla calca in movimento.

    Natale aveva sbattuto dietro di sé la porta del locale. Il freddo novembrino gli aveva inferto l’ultima coltellata. Ogni passo verso casa un pensiero: aveva giocato con la vita e con la morte fin da ragazzino, era scampato alla guerra, e ora? Solo me ne vo per la città, passo tra la folla che non sa e non vede il mio dolore, cercando te, sognando te, che più non ho...

    E ora era preda di una ragazza, dei suoi umori. E di quel motivetto appiccicoso, di quelle parole che facevano da megafono all’inquietudine che cercava di scacciare. Da ex marinaio – ma un marinaio resta tale per sempre – aveva elaborato una teoria. Esistono tre tipi di ragazze. Quelle d’acqua alta, che riesci ad agguantare solo se sei molto bravo a nuotare.

    Quelle d’acqua bassa, più facili da prendere e soprattutto molto più numerose. E poi ci sono quelle che si lasciano trasportare dalle onde e sono le più sfuggenti e misteriose. Mariuccia era inafferrabile. Avrebbero dovuto solo divertirsi quella sera e invece erano naufragati in uno dei quei litigi che ti portano alla deriva. Serata danzante alla Confreria, appena fuori città.

    A lui ballare non piaceva. Lei si annoiava a stare seduta. Qualche volta Natale cedeva e la accompagnava sulla pista ma più spesso la lasciava a uno dei loro amici. Un giro, un altro giro, un altro ancora... I pretendenti si erano moltiplicati. E tutti gli parevano sentirsi in diritto di ricevere attenzioni e un ballo ancora. Su una sedia, un po’ in disparte, la guardava e si convinceva che flirtasse con ognuno

    di loro, e che lo facesse apposta per indispettirlo. Un giro, un altro giro, un altro ancora... ... e il vaso della gelosia era traboccato. Si era alzato di scatto, l’aveva presa da parte e le aveva detto che non gli stava bene che si comportasse così. «Così come?». «Non voglio che continui a dare retta a quelli lì». «Ma smettila».

    Questo aveva peggiorato le cose, Natale aveva alzato la voce, Mariuccia lo aveva invitato a non fare scenate davanti a tutta quella gente che li conosceva – c’erano pure i suoi fratelli, le amiche. «Lasciami stare, lasciami vivere». «Sei tremenda». «E non disturbarti per il ritorno. Mi arrangio da sola. Magari prendo la corriera con i miei fratelli».

    L’orgoglio aveva fatto il resto. L’orgoglio dei vent’anni, senza controllo, senza argini, può fare danni inimmaginabili. E così Natale se n’era andato. Senza aggiungere altro. Si era incamminato verso casa, a piedi, nel freddo pungente. Neanche per un secondo aveva smesso di pensare a lei che era ancora là a ballare. Aveva passato in rassegna le facce di tutti quelli che volevano portarsela via

    e aveva concluso: ecco cosa succede a voler sempre accontentarla. E poi giù a maledire le volte in cui aveva allungato la strada all’andata e poi al ritorno, con lei seduta sulla canna della bicicletta. E ora che faceva freddo, quel freddo cuneese che ti penetra nelle ossa, lui era rimasto a piedi e lei sarebbe tornata a casa con la corriera, ma non prima di essersela spassata ancora un po’.

    Due chilometri e mezz’ora dopo, aveva varcato l’uscio con naso e orecchie congelate, il tempo di cambiarsi e si era infilato nel letto, continuando a rimuginare sull’accaduto. Al risveglio, quella domenica mattina, ancora il pensiero di lei e quella canzone di Natalino Otto, quelle parole che gli si piantavano dentro le tempie come chiodi. Mentre si gettava manate d’acqua fredda sulla faccia,

    aveva preso una risoluzione: visto che il mondo là fuori c’era ancora e non si sarebbe fermato per così poco, anche lui doveva andare avanti e fare le stesse cose di sempre. Sarebbe uscito comunque, si sarebbe vestito di tutto punto, senza trascurare alcun dettaglio: giacca e cravatta, cappotto scuro, una lucidata alle scarpe e qualche minuto davanti allo specchio per scolpire

    una perfetta scriminatura laterale con la brillantina. Si era messo in testa il Borsalino, aveva salutato i genitori e loro gli avevano detto di portare un saluto a Mariuccia. «Sì, certo...». Poi, quasi per caso, il suo sguardo era finito sul grande viadotto sulla Stura, che era stato minato e messo fuori uso dai tedeschi.

    Da lì si lanciavano tutti i suicidi di Cuneo. Aveva scrollato le spalle: se era sopravvissuto alla guerra, poteva sopravvivere anche all’amore. «Buongiorno Natale». «Buongiorno, buongiorno». A Cuneo proprio non c’era modo di evitare contatti con persone conosciute. Infastidito, aveva ripreso la sua marcia solitaria.

    In un quarto d’ora era arrivato in centro, sotto i portici bassi di via Roma. Nel Medioevo i cuneesi avevano ricevuto il progetto da un famoso architetto, ma era piegato a metà e loro non l’avevano aperto per paura di rovinarlo, così avevano costruito i porticati alti solo tre metri. Indicativo, l’aneddoto, dello spirito della città e dei suoi abitanti.

    Un po’ come il campanile trecentesco di Santa Maria della Pieve con la lapide: «Questo campanile è stato fabbricato qui». Storia vera, come i fatterelli che si sprecavano sulla visita nel 1851 del re Vittorio Emanuele II (chiamato familiarmente Toiu) per la posa della prima pietra del ponte sulla Stura. I cuneesi in quell’occasione accesero a mezzogiorno

    tutte le luci a gas per fargli vedere la nuova illuminazione e spararono fuochi d’artificio senza aspettare la sera; poi nascosero nelle cantine tutti i concittadini col gozzo – malattia tipica della zona per via dell’acqua – sostituendoli con forestieri di bella presenza, un trucco smascherato dagli stessi indigeni gozzuti che, al passaggio del re,

    si erano fatti sentire attraverso le grate dei seminterrati gridando in coro: «Siamo noi, quelli di Cuneo!»; quanto alla notte, avevano svegliato il povero Toiu ogni due ore per cambiargli le lenzuola in modo che il letto rimanesse sempre fresco e pulito. Davanti alle vetrine della pasticceria Arione, anche Natale sentiva delle voci provenire dal sottosuolo, voci che

    gli ripetevano senza sosta: Solo me ne vo per la città, passo tra la folla che non sa e non vede il mio dolore, cercando te, sognando te, che più non ho... Pensava alle domeniche con lei, alle passeggiate su e giù per i portici. Prendevano un cartoccio di caldarroste o un paio di fette di farinata e di castagnaccio. A volte,

    se faceva troppo freddo, si infilavano in un cinema senza badare al titolo del film in programmazione. Quel che non era mai parso straordinario adesso lo era diventato. Osservava le coppie che gli venivano incontro sorridenti, le ragazze a braccetto dei fidanzati, e sembravano tutti nascondere un segreto. Era dentro e fuori dalla vita,

    spettatore di uno spettacolo da cui era stato estromesso. Testardamente proseguiva il suo cammino, a dimostrare a se stesso che tutto era ancora lì, a portata di mano. Se voleva, poteva fare le cose di sempre. Ma era solo, o quasi: nella sua testa quella voce cantava e ricantava il refrain. Poi l’aveva vista: dall’altra parte dei portici, assieme a un paio di amiche. Non era così strano che anche lei fosse

    lì. Dopotutto ci abitava, in via Roma. Eppure gli faceva effetto che fosse in compagnia di altre persone, senza di lui. Sorrideva. La gonna scura che le arrivava sotto il ginocchio, il cappotto chiaro, i guanti, e quel cappello appoggiato sui capelli neri e ricci che la faceva assomigliare a Rossella O’Hara. Le scarpe col tacco ai suoi piedi da bambina. Come se non fosse successo niente

    come se nessun cataclisma si fosse abbattuto sulle loro vite. A un certo punto, stavolta sì, si era voltata verso di lui. I suoi occhi gli erano sembrati più distanti di quanto non fosse lei, lo avevano attraversato come se fosse trasparente e avevano guardato oltre. Di rimando, anche lui aveva finto disinteresse e si era rimesso in cammino. Per tutto il pomeriggio Natale era rimasto da una parte

    dei portici, e Mariuccia dall’altra. Ma i portici di Cuneo, oltre a essere bassi, non sono nemmeno lunghissimi. I due giovani si lanciavano occhiate a distanza, senza che nessuno dei due fosse disposto a capitolare. Lei si tormentava i guanti, lui si tormentava e basta. Ripensava a quando si erano conosciuti in tipografia. Mariuccia, appena quattordicenne, era stata assunta alla Saste

    come apprendista legatrice. Natale all’epoca di anni ne aveva diciassette e stava imparando a destreggiarsi tra i minuscoli caratteri di piombo della linotype. Gli sembrava una vita fa e in qualche maniera lo era: la guerra aveva azzerato tutto ma loro fino a quel momento erano apparsi immuni a quell’aria di cambiamento che si respirava ovunque. Di recente avevano fatto una gita,

    l’ennesimo tentativo di Natale di ammirare il mare dalla vetta della Bisalta ma il primo con lei. Era davvero possibile o soltanto una leggenda? Partiti di mattina assieme a un gruppo di amici, a metà strada lei aveva preso una buca e la sua bicicletta si era rotta. Mariuccia sulla bici di Natale, lui sbuffando con quella di lei caricata sulle spalle, erano stati costretti a tornarsene indietro e a rimandare

    l’impresa – forse per sempre. Ripensava, poi, alle discussioni con i fratelli di lei. Mariuccia era la quinta figlia, l’unica femmina che suo padre aveva tanto desiderato ma che non aveva visto crescere poiché era morto quaranta giorni dopo la sua nascita. E così la mamma rimasta vedova, sola con cinque figli, aveva lasciato tutti gli altri parenti a Madonna dell’Olmo e si era trasferita a Cuneo,

    una scelta coraggiosa. I fratelli provavano a sostituire il padre, ma lo facevano in maniera ingenua, mossi soprattutto dalla gelosia. Le vietavano di truccarsi, volevano che rimanesse per sempre la loro bambina. E a lui, Natale, toccava il ruolo del nemico pubblico. Aveva combattuto per lei, e adesso che ne era di quel fuoco? Possibile che bastasse così poco a spegnerlo?

    La loro storia era forse giunta al capolinea e intanto ecco di nuovo Natalino Otto che ricominciava nella sua testa. Forse lì intorno qualcuno stava suonando quella stessa canzone, forse proveniva dalla radio di un bar o forse era solo la sua immaginazione a lavorare senza tregua. Quel che è certo è che non riusciva a togliersi dalla mente musica, ragazza e parole

    – e non ci sarebbe riuscito per il resto della giornata. Gli sembrava che i versi parlassero di lui e di quello che stava provando. Ma quando hai vent’anni, tutte le canzoni parlano di te. Era lui il tizio che se ne andava solo per la città, era lui che passava tra la folla che ignorava il suo dolore, era lui che cercava invano di dimenticare lei e il loro perduto amore. E lo sarebbe stato per sempre, ogni volta che

    in futuro avrebbe riascoltato la melodia. Ancora e ancora sarebbero saltate fuori come da una scatola magica le stesse sensazioni, intatte, e si sarebbe rivisto sotto quei portici, a pensare che tutto era finito. Si sarebbe presto dimenticato i dettagli del litigio, ma quelle note che gli stringevano lo stomaco le avrebbe ricordate fino all’ultimo giorno della sua vita. Comunque.

    Non so chi abbia fatto poi il primo passo. Quel che so è che alla fine quei due ragazzi hanno messo da parte l’orgoglio e hanno fatto pace. So che un giorno si sono sposati e molto più tardi sono diventati i miei nonni.

    Lungomare nostalgia

Lungomare nostalgia

Pubblicazione: 26 maggio 2023

Collana: Dissensi

Pagine: 248

ISBN: 9791280955043

Disponibilità: Ottima

Prezzo: 15.00 

Se la scelta è fra trattenere e lasciare andare, io voglio trattenerti mentre ti lascio andare. Trattenerti qui, almeno. Attraverso quelle parole, fatte di carta e inchiostro, che ci uniscono da sempre.

I libri: una passione che accomuna nonno e nipote. Il primo tipografo linotipista, il secondo scrittore ed editore. Ma quando Andrea va a trovare l’anziano ricoverato e in fin di vita si rende conto che, con lui, sta per perdere anche la sua storia che da anni si era ripromesso di scrivere. E così gli tocca fare i conti con i ricordi. Aneddoti singolari e vicende comuni, che tuttavia hanno lo stupore e la potenza dello straordinario. Le bravate da ragazzo del nonno. La fuga rocambolesca dalla guerra. La minaccia di fucilazione da parte di nazifascisti e partigiani e poi la salvezza. La sorprendente vittoria alla Lotteria durante il boom degli anni Sessanta. Il lungo e doloroso addio alla compagna di tutta una vita. Nel mezzo, circa cinquant’anni a comporre libri con la sua linotype, l’odore di piombo, una precisione maniacale e quella volta che Cesare Pavese montò su tutte le furie…

Un racconto, quello di Andrea Malabaila, in equilibrio tra nostalgia e dolcezza, capace di strappare risate e lacrime, drammatico e leggero insieme, che irradia calore familiare e procede a doppio passo: passato e presente corrono su due binari che alla fine convergono in una parola. Futuro.

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