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  • LA NOSTRA WOODSTOCK. FIRENZE 2002-Leonardo e Valeria-

    Il treno procedeva lento verso Firenze, non più di cinquanta chilometri all’ora. Spesso si fermava per lunghe pause in piena campagna. Non si scorgevano luci tranne quelle dei rari paesini che attraversava. Le lampade fioche, all’interno del convoglio, creavano un’atmosfera intima e un po’ malinconica. I vagoni erano di quelli vecchi, con le poltroncine tappezzate

    di vellutino rosso stinto e le tendine consunte. Ogni scompartimento conteneva almeno sei persone; chi non aveva trovato posto si arrangiava sugli strapuntini dei corridoi oppure semplicemente per terra. Si viaggiava in gruppetti, formati per un affiatamento subito trovato o perché già ci si conosceva. Si chiacchierava, ciascuno raccontava la propria storia

    e i motivi che lo avevano portato lì, su quel treno. Fuori faceva freddo, più del solito per quel periodo. Ognuno aveva la sua musica che veniva fuori da piccoli stereo o dalle cuffie di lettori cd. A basso volume, attutita, come tutto in quella notte. C’erano persone di età diverse, i ventenni si mescolavano ai sessantenni. I più anziani parlavano poco, spesso

    fissavano punti immaginari fuori dal finestrino. I ragazzi avevano voglia di scherzare, di ridere, di raccontare sciocchezze. Ma lo facevano a bassa voce, riuscendo a non essere di disturbo neppure a coloro che preferivano dormire. Un piccolo prodigio di coesistenza, dove attività apparentemente inconciliabili riuscivano ad armonizzarsi senza difficoltà. Una decina di

    giovani attraversò l’intero convoglio, dal locomotore ai vagoni di coda, in segno di saluto a tutti i presenti. Quelli che ne avevano la forza portavano avanti lunghi discorsi su ciò che era successo e si lanciavano in previsioni sul futuro. Era passato più di un anno dal sanguinoso G8 di Genova. Era il novembre del 2002. Partenza da Napoli alle 22.30 con un malandato regionale,

    arrivo a Salerno intorno alla mezzanotte, in attesa del treno per Firenze. Più di un’ora e mezza ad aspettare, ma in compenso avevamo fatto amicizia con un paio di ragazzi che sarebbero diventati inseparabili compagni di strada per i successivi due anni. «Andate anche voi a Firenze per il Forum?». La risposta era scontata. Dove potevano essere diretti quei due, a quell’ora, zaino

    in spalla? «Ciao, io sono Leonardo». «Io Valeria». Noi eravamo in quattro. Del gruppo originario qualcuno, dopo Genova, aveva rinunciato ai cortei, alla partecipazione attiva, pur mantenendo i contatti con noi di tanto in tanto. Ma avevamo conosciuto altre persone, il movimento e le nostre vite sembravano comunque in una fase di crescita. Quando arrivammo a

    destinazione, l’atmosfera era piuttosto tesa. Già al suo ingresso in stazione, il treno era stato circondato da uno schieramento di agenti in assetto antisommossa. «Hai visto che roba?» mi chiese Leonardo. «Dovremmo esserci abituati ormai, no?». Mostravo sicurezza, ma quell’atmosfera mi faceva piuttosto paura, più del solito. Forse perché, nelle due settimane

    precedenti il Social Forum di Firenze, i media avevano riversato sull’opinione pubblica previsioni allarmistiche che generavano naturali dubbi sul pacifico svolgimento di quelle giornate. Sembrava un’operazione del tutto simile a quella condotta prima del G8 di Genova, quando tutti i canali di informazione avevano contribuito a rendere incandescente la situazione

    in coordinamento perfetto con l’azione del governo. «Vogliono fare un’altra Genova!» si sentiva dire da più parti sul treno. In molti esitarono prima di scendere. Soprattutto quelli dall’aspetto più trasandato, i capelli lunghi e gli abiti stracciati, perché già sentivano addosso le attenzioni degli agenti. Tutto il cammino dalle vecchie carrozze fin fuori la stazione fu un lungo

    passaggio attraverso il corridoio umano formato dalle forze di polizia. Per entrare alla Fortezza da Basso, luogo dove si sarebbero svolti incontri e discussioni del Social Forum, le file erano lunghissime. Erano giunte persone da tutto il mondo, c’erano le organizzazioni che si riconoscevano nella galassia anti-globalizzazione, ma anche tanti ragazzi che non

    avevano alcun tipo di riferimento. Giravano tra una sala conferenze e l’altra, con il volto serio e un blocco di appunti tra le mani. Spesso, dopo aver assistito a conferenze diverse, si incontravano nei corridoi e si scambiavano opinioni su quanto avevano ascoltato, sullo stato del movimento nei vari Paesi e sulle prospettive future. La lingua prevalente era

    l’inglese, ma era un continuo intrecciarsi di idiomi e persino di dialetti. Nel piazzale esterno si improvvisavano mini cortei, che facevano il giro degli spazi all’aperto della Fortezza, per poi sciogliersi tra gli applausi dei presenti. Il senso di comunità era fortissimo, nessuna tensione nonostante la stanchezza e l’affollamento del luogo. Spossati dal viaggio e

    dalle decine di seminari seguiti, alcuni sceglievano un angolo riparato per infilarsi nel sacco a pelo e riposare. Il sabato, verso l’ora di pranzo, cominciarono i preparativi per la manifestazione conclusiva. I volti si facevano preoccupati, tanti sarebbero rimasti volentieri lì piuttosto che affrontare le strade di Firenze. Ma prevaleva la voglia di dimostrare

    compattezza, per smentire le catastrofi annunciate. Si era parlato addirittura di patrimonio monumentale della città minacciato dai vandali, dell’infelice scelta di ospitare un avvenimento del genere in una città d’arte. Il corteo fu una festa. Lungo oltre sei chilometri, compatto e colorato, attraversò le strade con lentezza. Si cantava e si ballava, molti continuavano a discutere.

    Man mano che il serpentone umano avanzava, si spalancavano finestre e balconi. I fiorentini uscivano fuori, applaudivano, fraternizzavano. I più intraprendenti scendevano in strada e offrivano da mangiare e bere, e quelle erano tappe obbligate. Nessuno indossò fasce nere al braccio o fece sventolare bandiere listate a lutto come aveva

    suggerito la scrittrice Oriana Fallaci, che temeva un assalto alle bellezze monumentali della città. A metà percorso mi si fece avanti una signora sui cinquant’anni, che aveva deciso di partecipare con il marito: «Non è vero che qui a Firenze non vi volevamo». Le risposi con un sorriso. La sera portò con sé il freddo pungente delle giornate d’autunno. In stazione ci demmo

    appuntamento alle occasioni future, in quel momento null’altro avrebbe potuto turbare l’armonia. Passò un ragazzo norvegese che avevo conosciuto alla Fortezza. Una stretta di mano, poi lui mi sibilò all’orecchio: «This is our Woodstock!», questa è la nostra Woodstock. Feci cenno di sì con la testa, senza attribuire troppa importanza a quella frase.

    Il ritorno a Napoli fu più duro del previsto. Nel tragitto verso casa, in autobus, alle sei e mezza del mattino, guardavo il cielo plumbeo che si prospettava all’orizzonte. Anche a Firenze il tempo era stato brutto, ma adesso quei nuvoloni neri mi mettevano un’angoscia insolita. I primi notiziari della mattina parlavano anche di Firenze, ma le informazioni erano scarne

    e relegate in secondo piano. Appena un giorno prima, avevano dedicato al Social Forum ampi servizi di apertura e speciali, avevano dato spazio a «esperti» di ordine pubblico e addirittura di terrorismo, avevano descritto nei particolari orde di barbari decise a calare sulla città toscana e a distruggere tutto ciò che avessero trovato sul loro cammino. Secondo alcuni

    opinionisti, un buon numero dei manifestanti di Firenze sarebbe stato pronto ad abbracciare la lotta armata, anzi forse l’aveva già fatto. Eppure ora la straordinaria esperienza delle giornate fiorentine non aveva più la stessa rilevanza. Facevamo notizia solo quando c’erano di mezzo gli scontri, i feriti, i morti. A Firenze c’erano stati seminari e conferenze importanti e di interesse

    generale: neppure una parola al riguardo. Sulla manifestazione, il solito balletto di cifre, con la questura che indicava in poche migliaia il numero dei partecipanti, e un laconico «il tutto si è svolto senza incidenti» a chiudere i servizi dei tg. Spensi il televisore mentre fuori riprendeva a piovere. «E adesso?».

    L'officina del mondo

L’officina del mondo

Diario di viaggio tra i sogni e le speranze dell’opposizione sociale

Collana: I Saggi

Pagine: 192

ISBN: 9788887583892

Disponibilità: Buona

Prezzo: 10.00 

"Sacco sulo dicere ca 'e vote voglio ascì". Kanzone su un detenuto politico, 24 Grana

Ho sempre pensato che la differenza la facciano le persone «Ci sono fasi storiche che vanno oltre l’orizzonte temporale di una vita. E che lasciano, dentro chi le attraversa, una fastidiosa sensazione di incompiutezza».

I movimenti giovanili di protesta degli ultimi quarant’anni sono una realtà da esplorare per Gianluca Vitiello, traduttore freelance mosso dall’esigenza di rispondere ai suoi personali interrogativi sulla partecipazione oggi. L’autore fila la trama di un impegno politico fatto di cortei, occupazioni, centri sociali, ma soprattutto animato da tanti ragazzi. Leonardo, Valeria, Claudio. E ancora Luca, Peppe, Diego. La loro storia diventa il racconto degli avvenimenti che hanno caratterizzato l’opposizione sociale in Italia dal Nord al Sud. Interrogando operai, disoccupati, no-global e raccogliendone le testimonianze, Vitiello traccia un percorso, seguendone l’evoluzione dal ʼ68 a oggi, e ne registra i cambiamenti, che sono quelli di una società entrata nel pieno dell’emergenza per il precariato, la globalizzazione, i disastri ambientali, le aspirazioni deluse.

«Il motore primo dei suoi scritti sono gli individui» scrive Silvio Perrella nella prefazione. «Non è un caso che ogni capitolo sia contraddistinto da un incontro e dalla traccia umana che ha lasciato  incisa nella sua memoria».

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Recensioni

Recensione per “L’officina del mondo“: Recensione su Le monde Diplomatique a cura di Enzo Di Brango.pdf