Tutto inizia e finisce a Vazzarìa. Questo immaginario paese dell’entroterra siciliano è l’approdo del disertore Nirìa che, durante lo sbarco alleato del 1943, scappa sulla scia di un sogno premonitore. Padre e figlioletto al seguito, diventa lo sgangherato condottiero di un manipolo di fuggitivi. Libbertu, invece, a Vazzarìa ci è nato: secondo di sette figli, gran lavoratore e con una sincera passione per lo studio, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia, decide di arruolarsi con le camicie nere, sperando di dare una svolta al proprio futuro, e così parte per la Libia. Vicende personali, drammatiche ma anche esilaranti, spassose e grottesche, s’intrecciano al racconto della Seconda guerra mondiale, in particolare all’operazione Pugilist in Tunisia che vede la disperata e vana resistenza delle forze italo-tedesche, e all’operazione Mincemeat, capolavoro dell’intelligence inglese per ingannare e depistare i tedeschi circa lo sbarco in Sicilia delle truppe alleate. Il lettore si commuove, si diverte, si arrabbia, trovandosi di fronte a un quadro drammatico, nel quale comunque prevalgono l’amore per la vita, l’amicizia autentica che è collante e fonte di speranza nonostante menzogne e meschinità, sentimenti che accomunano vincitori e vinti. Ma il vero punto di forza del romanzo è il linguaggio, una miscela di italiano e vernacolo siciliano, comprensibile e accattivante, mai fuori luogo, icastico, adeguato alle situazioni, incisivo. Il personaggio di Nirìa oscilla tra l’Enea virgiliano e il Gassmann dell’Armata Brancaleone, quello di Libbertu – realmente esistito – è vero e umano anche sulla carta.
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Déjà vu era la parola corretta, quella giusta. Quella che descriveva lo stupore della situazione. Déjà vu avrebbe dovuto esclamare e, invece, con amara sorpresa e voce leggera disse: «Minchia!». Un brivido lungo la schiena accompagnò i suoi rapidi pensieri. Seduto per terra, scosse la testa come per disapprovazione. Non aveva tempo da perdere, non poteva abbandonarsi
ai ricordi, ma ne era sopraffatto e, nell’arco di un istante, rivisse quella scena. Rammentò quando, da bambino, era scivolato durante la consueta caccia domenicale alla lucertola: un rito che faceva con i suoi amici dopo la messa. Una mattina era caduto. Sembrava un capitombolo come tanti altri, eppure non appena aveva cercato di rialzarsi, rapidamente per non rimanere indietro
rispetto ai suoi compagni, la mano sinistra era affondata in una pozzanghera. Aveva ripreso a correre però quella poltiglia di fango, mista a sterpaglia e a chissà cos’altro, quella melma maleodorante gli faceva talmente ribrezzo che si era fermato nell’agitare la mano sporca per liberarsene. Quello che ora lo infastidiva maggiormente, la brutta
sensazione che, accanto al sibilo dei proiettili e ai boati delle granate, gli tornava con prepotenza alla memoria era il calore della mota che aveva stretto nel palmo. Solo che adesso aveva la certezza che non si trattava di fango riscaldato dal sole. Accovacciato dentro la buca, quella che da giorni era diventata la sua stanza, il suo mondo, la sua zona di competenza, la sua trincea, fece un lungo
respiro e chiuse la mano sinistra per tastare la mistura calda, proprio come quando era scivolato da bambino. Non riusciva a guardare, non poteva, non ce la faceva. Continuò a sfregare, poi ruotata di punto in bianco la testa alla sua sinistra, la vista gli tolse la speranza e confermò i suoi timori: il caposquadra Licastro era stato completamente crivellato dai colpi nemici.
Quelle che stringeva erano le interiora del suo superiore ucciso. Trattenne le lacrime. Sapeva di dover mantenere la calma se voleva sopravvivere agli inglesi, se voleva tornare a casa, se voleva allontanarsi dalla guerra e lasciare l’Africa. I carri armati sembravano mosconi e con il loro assordante rombare facevano tremare la terra. I proiettili scendevano dal cielo come grandine,
colpendo ancora e ancora i corpi esanimi dei compagni. Era giunto il momento di rispondere al fuoco. Chiuse la mano destra lasciando libero solo il pollice; lo portò all’estremità corrispondente della bocca, nel punto in cui s’incontrano le labbra, e con un leggero e veloce movimento lo fece scivolare verso il basso, scoprendo l’arcata
inferiore. Imbracciò la Breda e iniziò a mitragliare. Accanto a sé non c’era più nessuno che sparava, solo lamenti ai quali non poteva dare conforto. Grida e pianti s’innalzavano più forti del fragore dei proiettili. Non poteva abbandonare la mitragliatrice, non poteva raccogliere le suppliche, doveva continuare a sparare fino a quando avrebbe avuto munizioni,
fino a quando avrebbe avuto respiro. D’un tratto il silenzio: carri armati muti, niente grandine di piombo, nessuna supplica. Cessò anche il vento caldo che trasportava con sé la sabbia del deserto e, a una decina di metri, vide l’amico Graci in posizione di combattimento.
Lo scemo di guerra e l'eroe di cartone
Lo scemo di guerra e l’eroe di cartone
Pubblicazione: 12 aprile 2018
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«Una storia divertente e commovente che scava nella realtà marginale del secolo scorso». Lorenzo Mazzoni recensisce Lo scemo di guerra e l’eroe di cartone su Il Fatto Quotidiano
«Una storia che avvince, che fa sorridere e piangere, arrabbiare e commuovere, una storia fatta di sentimenti veri, di amicizia profonda, di amore sincero, una storia che racconta l’orrore della guerra e l’amore per la vita, una storia che parla di sogni e di futuro, di speranza e di coraggio. Un romanzo che merita veramente di essere letto e riletto». Francesco De Masi recensisce per la rivista letteraria Modulazioni Temporali il romanzo Lo scemo di guerra e l’eroe di cartone