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  • Insomma, che ci faccio qui? Sono sicuro che è questa la domanda che ti ronza per la testa, caro Paolo. La stessa domanda di un libro di Bruce Chatwin, perché di Bruce sono migliori le domande che le risposte, più il profilo della Patagonia. Che ci faccio qui? Potrei dirti che la Patagonia è una mia terra dell’anima – a dispetto di come proprio Bruce Chatwin l’ha trattata

    e maltrattata – però terra dell’anima credo possa diventare anche il posto da cui ti scrivo. Lo so, sono diventato come la lancetta di una bussola puntata verso sud. Che ci faccio qui? Non conto le volte che me lo sono chiesto, ma in queste settimane no: va bene così, sono convinto di trovarmi nel posto giusto. Malgrado qualche ombra ogni tanto, da nuvola solitaria.

    Casomai mi viene da rigirartela, la domanda. Cosa ci fai tu, in quel disastro di Italia? Non hai voglia di mollare tutto? Eccomi, io sono qui. Con questo sole che ancora non morde la pelle, perché ogni cosa ha il suo tempo. Altri mesi presto porteranno sudore, luce che abbaglia e ombra che è rifugio, parsimonia dei gesti fino al tramonto. Intanto questo sole è carezza, è bozzolo

    in cui avvolgersi. È tepore e promessa. Seduto su questa sdraio accolgo il sole e lascio che il tempo scivoli. Guardo il mare: e mi sembra già tanto. Rincorrendo i miei pensieri mi è venuta voglia di scriverti, di riprendere insomma la nostra vecchia abitudine, dopo che tante volte ci siamo inseguiti da una parte all’altra del mondo. Quante parole ci siamo inviati, a varcare

    le distanze, a cucire le storie del mondo con un tentativo di significato. Che ci si sia riusciti o meno, mi hanno fatto comunque bene. Ora credo di averne di nuovo bisogno, allo stesso modo di una macchina in riserva. Le nostre parole come un pieno di benzina. Questo mare che mi riempie gli occhi è l’Egeo. L’avrai già capito dalle immagini che ho pubblicato su Facebook.

    Tanto è così che succede oggi, vorresti scomparire e poi basta un clic per giocare a carte scoperte. Come se invece del portatile con cui scrivo indossassi uno di quei braccialetti elettronici per i detenuti in libertà provvisoria. Con l’aggravante che sto facendo tutto da solo. Sì, questo è il mare greco. In passato l’ho frequentato più con le letture

    che con i viaggi. Poi l’altro giorno, a sorpresa, mi ha raggiunto un invito da parte di un vecchio amico e di sua moglie. Elena e Aldo, così si chiamano, sono venti anni che hanno costruito questa casa, dove trascorrono lunghi periodi dell’anno. Soprattutto lui, Aldo, ci passerebbe il resto della sua vita. È un rivoluzionario in pensione. Così almeno si definisce lui e ignoro se e quanto si

    senta un ex. Ho l’impressione che sia venuto fin qui per andare oltre. Presumo che come me si sia arreso al mutamento antropologico del Paese. Non ha più la forza di rimettersi in gioco, forse è già tanto che si guardi indietro e risistemi il suo passato. Cosa che poi è necessaria per vivere gli anni che rimangono, sfrondando tutto ciò che è inutile, inessenziale,

    persino dannoso. In effetti non so bene perché mi abbiano invitato, credo sia stato un crampo di nostalgia. Comunque non ci ho pensato due volte, ho colto l’occasione al volo. Dovevo cambiare aria. Più o meno come ho fatto altre volte, certo: prendevo e partivo, un biglietto aereo e via per smaltire le delusioni. Questa volta è stato diverso. Più che un Paese da esplorare

    ho cercato una tana in cui leccarmi le ferite. Non credo sia un segno dell’età. Porto i miei settant’anni, già passati, con rispetto e passione intatta per la vita, anche la curiosità non mi è certo venuta meno. Eppure prima di partire ho avvertito altri pesi. Lo smarrimento era a livello di guardia, si accompagnava a qualcosa che identifico con un senso di colpa: per quello che non siamo

    riusciti a diventare e peggio ancora per quello che siamo diventati. E su questa riga mi blocco, perché già questa prima persona al plurale sarebbe tutta da discutere. Un’isola, mi sono detto, è come una tana. Così ora sono qui e sono contento: eppure mi serpeggia dentro un diverso senso di colpa. Forse è una di quelle nuvole solitarie di cui sopra, o forse no.

    È tutto il pomeriggio che scruto questo mare blu, appena increspato, che mi allontana e mi riporta a me stesso. Lo stesso mare dei migranti che per fuggire alla morte trovano altra morte. Storie di questo mio mondo, lo stesso da cui provo ad appartarmi. Me ne sono andato via, però non dimentico da dove vengo: dal Paese che qualche tempo fa ha chiuso i suoi porti

    e che forse non aspetta altro che riprovarci. È davvero questo il Paese al quale appartengo? Sarà per questo che a forza di guardare mi è tornata voglia delle nostre parole. Non ho trovato molto altro a cui aggrapparmi. Così ci provo. Comincio con questa mail, poi te ne invierò altre. Per me saranno come le vecchie cartoline che ci si spediva dalle località

    di villeggiatura, quando anche le telefonate erano cosa rara. Non le cartoline con un saluto e via, ma le cartoline che diventavano lettera senza una busta. Con la calligrafia più minuta, la scrittura occupava ogni angolo e persino il poco posto bianco sopra l’indirizzo. Il resto ce lo saremmo detti al ritorno. Ecco, comincio così. Che dici, Paolo, hai tempo per rispondermi?

    Tre giorni? Quattro? O di più ancora? In ogni caso solo ora mi decido a risponderti, caro Tito. Non perché il tempo mi mancasse davvero, ma perché in effetti non sapevo cosa dirti. La posta elettronica ha questo di buono, raggiunge subito chi deve raggiungere, ma senza imporre una risposta immediata. Puoi accantonare il messaggio, persino ignorarlo.

    Nel caso dopo puoi scusarti: «No, non l’avevo visto». Anche questa, una specie di tana. Mi sembra trascorsa una vita da quando abbiamo viaggiato oltre il Muro di Berlino, ognuno a modo suo, ognuno come sa, tu con lo zaino in spalla, io nella stanza dei miei libri e dischi: i due viaggiatori. Eravamo saltati sopra le macerie per scrollarci la polvere e spaziare con lo

    sguardo. A respirare a fondo si avvertiva il profumo di libertà. Tu eri riuscito a liberarti di quel senso di colpa che ora, pare, ti sta ritornando addosso. Io c’entravo meno, però anche a me aveva fatto un gran bene. Dieci anni più tardi ci abbiamo riprovato con un viaggio in cui quel profumo di libertà era svanito, rimpiazzato dal sentore di cantina. Dal Messico

    al Marocco, dal Kosovo alla Palestina: i confini che si facevano muri, i muri che crescevano, più alti, più impenetrabili. A passare da una parte all’altra solo i venti di guerra e, per fortuna, anche le nuvole. E ora che potremmo dire di più? Spiegamelo tu dov’è il viaggio questa volta. Chiamiamola col giusto nome, chiamiamola fuga. A me torna, forse più che a te. Quando tu provavi

    a cambiare il mondo io ero un ragazzino che andava dietro ai romanzi di Jack Kerouac, faceva l’autostop sull’Aurelia scambiandola per la Route 66 e ogni tanto si innamorava di frasi che odoravano di diserzione. Per dirne una, quella di Henri Laborit, uno scienziato francese il cui anticonformismo mi aveva conquistato. «Quando non può più lottare contro il vento e il mare per seguire

    la sua rotta, il veliero ha due possibilità: andare alla deriva o fuggire davanti alla tempesta. La fuga è spesso il solo modo di salvarsi». E io non disdegnavo la possibilità della deriva. Assecondavo le correnti della vita, ma mi tenevo stretta l’idea della fuga. La strada prima ancora che una direzione da prendere era qualcosa da lasciarsi alle spalle. E sì, se davanti c’era la salvezza, non era

    sull’isola di Utopia, ma in qualche Puerto Escondido. Era alibi e possibile via di scampo, era una carta da tenere e giocare nella mano giusta, o forse era semplicemente letteratura. Però era confortante sapere che c’erano persone come te, che per tentare qualcosa sopportavano gli sbadigli e le sigarette di riunioni infinite, per non dire del resto. Sapere che ora sei tu che hai alzato

    la vela per Puerto Escondido non mi fa per niente piacere. Tanto più che è la misura non del tuo cambiamento, ma di ciò che ci è cambiato intorno: e questo mi piace ancora meno. Ecco, avverto strane sensazioni. È qualche minuto che provo a metterle a fuoco e non ci riesco. Scrivo e cancello, scrivo e cancello: parole che non fanno presa e scivolano a lato.

    Che poi non sono solo le parole. Sono anche i pensieri che salgono alla superficie e svaniscono l’istante dopo. Come i tergicristalli della macchina, in funzione anche quando non servono più, perché ha smesso di piovere. Tu senza benzina e io col fastidio delle spazzole che stridono sul vetro. E con le auto meglio finirla qui. Vanno e vengono le convinzioni

    e in questo modo rendono diverso ciò che è uguale a prima. Vanno e vengono e questo vale anche per la tua isola. Puerto Escondido, ok. Comunque in tempi come questi un’isola può essere un discreto punto di osservazione. Non dico un faro capace di indicare la rotta, dico un punto di osservazione. Una sedia a sdraio piantata sulla sabbia. Che dire, Tito.

    Prova a scrivermi e poi vedremo: a volte le parole si fanno largo come l’acqua, trovano da sole il loro corso, puntano meglio di noi verso il mare. Ps: a proposito di mare, il mare l’ho riconosciuto ma l’isola no. Dove hai trovato la tua Puerto Escondido?

    L'isola dalle ali di farfalla

L’isola dalle ali di farfalla

Due affermati scrittori di viaggio. Una fuga per tornare a sperare

Pubblicazione: 4 giugno 2020

Collana: I Saggi

Pagine: 176

ISBN: 9788896350812

Disponibilità: Ottima

Prezzo: 13.00 

Mare greco, mare di dei ed eroi le cui storie sono come le onde: una dietro l’altra, a prendere e lasciare sabbia per rimodellare le sponde

Un’isola della Grecia, baie solitarie e sentieri di pastori all’interno: Astypalea, può essere questo l’altrove per leccarsi le ferite e scappare dalle delusioni. È il posto che Tito, uomo da sempre appassionato di politica, sceglie per fuggire da un’Italia dove non si riconosce più, segnata dall’intolleranza, dal pregiudizio. Ma ancora una volta non resiste alla tentazione di scrivere a Paolo con cui, malgrado l’età e i punti di vista diversi, da anni si confronta. Il loro è un canto e controcanto, tra richiami all’arte e alla poesia, mai banali, un pugno nell’ombelico della ignoranza diffusa e sempre in cattedra in un Belpaese dimentico della sua storia di approdo e di accoglienza dei sogni di gran parte dell’Eurasia antica e moderna. Sono cartoline da un’isola remota, messe l’una dietro l’altra, un autentico filo di Arianna per uscire dal labirinto e dal buio di un tunnel, un luogo angusto dove i confini contano più degli spazi aperti. Ma anche una conversazione sulle possibilità e sulle utopie, che diventa il terreno ideale per coltivare un’idea di futuro. Perché è quando le cose vanno peggio che si può davvero ripartire. «Vorrei sentirmi addosso questo uscire che è entrare, questo partire che è lasciare per diventare altro, che è perdersi e quindi forse ritrovarsi. E questa libertà, questa pienezza: vele gonfie di vento e una rotta che asseconderemo».

 

Consulta l’elenco delle letture consigliate da Paolo e Tito nel libro

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Recensioni

Prima recensione per L’isola dalle ali di farfalla”su Linkiesta

«“L’isola dalle ali di farfalla” di Tito Barbini e Paolo Ciampi ci racconta l’Italia, l’Europa, l’immigrazione; e ancora ci racconta un mondo che ininterrottamente e inevitabilmente – come abbiamo potuto ben vedere in questo momento storico – cambia “nella geografia fisica e nella geografia della mente”, segnando la nostra vita e arricchendo la nostra interiorità, senza dimenticare che avere un’altra possibilità “forse dipende solo da noi”», scrive Marianna Zito sul lit-blog Modulazioni temporali

«In questo libro c’è la bellezza dell’antica Grecia, della poesia, della letteratura, è un viaggio dentro ciò che siamo…
Ho amato molto queste pagine che somigliano a un canto poetico, dove sembra collegarsi l’umanità al divino, e con la stessa potenza corale ci fa riflettere sui pregi e i difetti del nostro Paese». Loredana Cilento che recensisce il libro di Tito Barbini e Paolo Ciampi L’ISOLA DALLE ALI DI FARFALLA

«Leggendo L’isola dalle ali di farfalla  ho compreso che nessun viaggio può definirsi tale se non prevede un ritorno e che la gratitudine, il senso di libertà, la nostalgia e la bellezza che si respirano dalle pagine di questo libro sono come un vero e proprio balsamo per l’anima e che anche un’isola dalle dimensioni estremamente ridotte, a volte, può essere ben più grande di un continente intero e soprattutto che può davvero cambiare e salvare la vita ad un individuo», Chiara Ruggiero sul lit-blog Librofilia 

Speciale dedicato all’ ISOLA DALLE ALI DI FARFALLA sulla rivista “L’TALIA, L’UOMO E L’AMBIENTE dell’ agosto 2020

Sul canale youtube di Trippando si va in Grecia con  L’isola dalle ali di farfalla

«Ho letto il libro L’isola dalle ali di farfalla come in apnea, rapita dalla profondità dei ragionamenti e dall’intensità del racconto». Nuova recensione su I LIBRI DI MOMPRACEN

L’isola dalle ali di farfalla  sul Mangialibri

«Le pagine di questo splendido libro sono come un canto e controcanto, tra richiami all’arte e alla poesia, ma anche un pugno nell’ombelico dell’ignoranza diffusa e sempre in cattedra in un paese che ha dimenticato la sua storia, fatta di approdi, di accoglienza, d’integrazione». Belle parole spese per L’ISOLA DALLE ALI DI FARFALLA, il libro di Tito Barbini e Paolo Ciampi su BeLeaf Magazine

«Due uomini alle prese con il loro sconforto e così lontani, eppure uniti dall’amore per i viaggi come per i libri ed entrambi feriti da una Italia che sembra aver smarrito il senso della propria identità e della propria storia. Due viaggiatori dal cuore grande, e dalle penne agili e felici, che riescono a ritrovarsi insieme con ironia e leggerezza, come se da tante macerie potesse di nuovo spuntare un’altra speranza, fosse pure solo un altro viaggio, un altro orizzonte».  Antonello Saiz scrive dell’ISOLA DALLE ALI DI FARFALLA su Satisfiction

«Una corrispondenza che dalle parole attinge e a quelle torna, insistendo sulla necessità di educare il verbo a stare tra la gente, saccheggiando a piene mani dal mito e dalla storia antica e moderna, invocando gentilezza e coltivando il dovere della resistenza fino al prossimo inverno dello spirito, senza mai sottrarsi all’incanto». Erika Di Giulio recensisce L’Isola dalle Ali di Farfalla per  Progetto Medea  

«Tante storie, note e sconosciute, si intrecciano in questo testo miracoloso, dalla complessa architettura nonostante un candore linguistico e logico: alla fine, ognuno di noi deve trovare i propri spazi e organizzarsi le prospettive, sempre con le mani a rimestare la terra, a sfiorare corpi e a far esperienza di materiali». Giulio Gasperini recensisce L’Isola dalle Ali di Farfalla 

L’ Isola dalle Ali di Farfalla segnalato da Elena Magni sulla rivista dedicata al turismo e ai viaggi “In Viaggio”

 

 

 

 

 

 

«Ascoltando Paolo e Tito si percorre un pezzo della loro e della nostra storia, li si ascolta porsi molte domande e darsi anche qualche risposta, si partecipa dei loro dubbi e delle loro conquiste e, cosa non da poco che personalmente amo tantissimo, si beneficia della loro vasta conoscenza del mondo della cultura, attraverso numerosi altri autori ed artisti di cui ci parlano nelle loro missive, grandi classici, personalità enormi». Satisfiction