La vicenda è ambientata nei primi decenni del Settecento, i personaggi sono ripresi da uno dei romanzi più famosi di Anatole France, La rosticceria della Regina Pié d’oca. L’abate Coignard discute a ruota libera, con persone incontrate per caso, sulla politica, sulla morale pubblica, sulla sociologia, sulla scienza, sull’esercito, sulle accademie e infine sulla giustizia, quando perora contro gli usi del tempo e la crudeltà degli uomini. L’abate argomenta con un misto di audacia rivoluzionaria e di ossequio alla tradizione, di scetticismo amaro e di sorridente indulgenza. È nemico dell’assolutismo, ma anche diffidente delle rivoluzioni. Un libro che non può mancare nella biblioteca degli amanti di Voltaire e Diderot e di chi riflette su che cos’è la rivoluzione.
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Non c’è bisogno che ripercorra qui la vita del signor abate Jérôme Coignard, professore di eloquenza al collegio di Beauvais, bibliotecario del vescovo di Séez – Sagiensis episcopi bibliothecarius solertissimus, come recita il suo epitaffio1 – in seguito scrivano al cimitero dei Saints-Innocents, infine bibliotecario dell’Astaraciana, la regina delle biblioteche.
La sua perdita sarà sempre rimpianta. Egli morì assassinato sulla strada di Lione, per mano di un ebreo cabalista di nome Mosaide (Judaea manu nefandissima), lasciando molte opere incompiute e il ricordo di piacevoli conversazioni familiari. Tutte le circostanze della sua singolare esistenza e della sua tragica fine sono state tramandate dal suo discepolo, Jacques
Ménétrier, detto Girarrosto perché era figlio di un rosticciere della rue Saint-Jacques. Il quale Girarrosto professava viva e tenera ammirazione per colui ch’egli soleva chiamare e il suo buon maestro. «È» diceva, «lo spirito più gentile che sia mai fiorito sulla terra». Con modestia e lealtà, stese le Memorie del signor abate Coignard, che in quest’opera rivisse come Socrate nei
Memorabili di Senofonte. Attento, preciso e amorevole, ne fece un ritratto pieno di vita e pregno di una tenera fedeltà. È un’opera che fa pensare a quei ritratti di Erasmo dipinti da Holbein che si vedono al Louvre, al museo di Basilea e a Hampton-Court, di cui non ci si stanca mai di apprezzare la finezza. In poche parole, egli ci lasciò un capolavoro. Senz’altro
sorprenderà sapere che Girarrosto non si sia curato di darlo alle stampe. Eppure poteva pubblicarlo lui stesso, essendo diventato libraio, in rue Saint-Jacques, sotto l’insegna A l’Image Sainte Catherine, dov’era succeduto a monsieur Blaizot. Forse, vivendo in mezzo ai libri, temeva di aggiungere solo qualche altro foglio all’orribile mucchio di carta annerita
che marcisce, dimenticato, presso qualche bouquiniste. Condividiamo la sua ritrosia tutte le volte che passiamo sui Lungosenna davanti alla scatola da due soldi in cui il sole e la pioggia a poco a poco divorano pagine scritte per essere immortali. Come quelle teste di morto, piuttosto toccanti, che Bossuet inviava all’abate de la Trappe a sollazzo di un
solitario, sono altrettanti soggetti di riflessione, utili a far comprendere a un uomo di lettere quanto sia vano lo scrivere. Da parte mia, posso dire di aver sperimentato fino in fondo questa vanità tra il Pont-Royal e il Pont-Neuf. Sarei dunque tentato di credere che l’allievo del signor abate Coignard non fece stampare il suo libro perché, formato da un così bravo maestro, valutava
saviamente la gloria letteraria, e la stimava per il suo valore, ovvero alla stregua di nulla. Sapeva che è incerta, capricciosa, soggetta a ogni peripezia e dipendente da circostanze di per sé piccole e meschine. Vedendo che i suoi contemporanei erano ignoranti, insolenti e mediocri, non trovava nessuna ragione per sperare che la loro discendenza sarebbe
diventata d’un tratto saggia, equanime e seria. Si augurava solo che l’avvenire, estraneo alle nostre dispute, ci accordasse, in mancanza di giustizia, la sua indifferenza. Siamo quasi certi ch’esso riunirà tutti noi, grandi e piccoli, nell’oblio, elargendoci la pacifica uguaglianza del silenzio. Ma se, per un caso davvero singolare, questa speranza ci ingannasse,
se la stirpe futura conservasse qualche memoria del nostro nome o dei nostri scritti, possiamo prevedere ch’essa assaggerebbe il nostro pensiero solo grazie a un ingegnoso lavorìo di equivoco e di controsenso, che è l’unico modo per cui le opere del genio si tramandano da un’epoca all’altra. La lunga esistenza dei capolavori è assicurata al prezzo di penose
avventure intellettuali, in cui gli stravolgimenti dovuti ai pretenziosi si accompagnano ai calembour naif degli spiriti estrosi. Non ho ritegno ad affermare che oggi come oggi non comprendiamo un solo verso dell’Iliade o della Divina Commedia nel senso che gli era originariamente legato. Vivere significa trasformarsi, e la vita postuma dei nostri pensieri
scritti non è esente da questa legge: essi continueranno a esistere solo a condizione di diventare sempre più diversi da com’erano quando uscirono dal nostro ingegno. Ciò che in futuro si ammirerà di noi ci sarà del tutto estraneo. È probabile che Jacques Girarrosto, la cui semplicità è risaputa, non si facesse tutte queste domande in merito al piccolo libro
uscito dalle sue mani. Sarebbe fargli un torto pensare ch’egli avesse di sé un’opinione esagerata. Credo di conoscerlo. Ho riflettuto sul suo libro. Tutto ciò che dice e tutto ciò che fa tradisce la squisita modestia del suo animo. Di certo sapeva di non essere privo di talento, ma sapeva anche che è proprio questo ciò che meno si perdona. Si lascia correre generosamente
a coloro di cui si scorge la bassezza dell’anima e la perfidia del cuore, si sopporta volentieri che persone del genere siano vigliacche o cattive, e persino il loro successo non crea troppe invidie, quando si vede che esso è immeritato. I mediocri sono subito innalzati e portati dalle mediocrità circostanti, che in loro trovano lustro. La gloria di un uomo comune non
offende nessuno, è anzi piuttosto una tacita lusinga al volgare. Invece nel talento c’è un’insolenza che si sconta con sordi rancori e gravi calunnie. Se dunque Jacques Girarrosto rinunciò sapientemente all’ingrato onore di irritare, con uno scritto d’eloquenza, la folla degli stolti e dei maligni, non ci resta che ammirare il suo buon senso e considerarlo il degno allievo di un maestro che
conosceva gli uomini. Comunque siano andate le cose, il manoscritto di Jacques Girarrosto, rimasto inedito, fu perduto per oltre un secolo. Ho avuto la straordinaria fortuna di ritrovarlo da un antiquario del boulevard Montparnasse che dietro la vetrina sudicia del suo negozio espone croci del Giglio, medaglie di Sant’Elena e decorazioni di Luglio, senza rendersi
conto che così offre ai posteri un malinconico insegnamento di riconciliazione. Il manoscritto è stato pubblicato a mia cura nel 1893, sotto il titolo di La Rosticceria della Regina Pédauque (1 volume, in-18° jésus). Vi rinvio il lettore, che ci troverà più novità di quante non se ne cerchino di solito in un vecchio libro. Ma non è di quest’opera che si tratta ora.
LE OPINIONI DELL'ABATE JÉRÔME COIGNARD
LE OPINIONI DELL’ABATE JÉRÔME COIGNARD
traduzione di Filippo Benfante
«Il più radicale breviario scettico che sia apparso dopo Montaigne» - Jules Lemaître