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  • La signora Mondschein e Tommy al nosocomio per immunodeficienze di Christopher Street - Febbraio 1996

    Uno, dico un solo passo falso, un ostacolo minimo come una siringa usata o un mozzicone di sigaretta (bastano anche oggetti più piccoli per inciampare), e sarebbe la fine. Ancora una rampa di scale e sarò fuori pericolo. Fuori pericolo fino a domani. Mia figlia mi considera pazza perché mi ostino a fare questo viaggio, le sei rampe di scale andata e ritorno ogni santo giorno, pioggia

    o sole. Si offrono tutti di portarmi la spesa e il giornale, ma io le scale non le faccio per la spesa o il giornale. Perché la gente sale sull'Everest o si butta dagli aerei in tempo di pace? Non perché non abbia di meglio da fare. A me piacciono le mie scale. Mi piace il marmo consunto con sopra anni di fuliggine e urina e birra rovesciata. Mi piacciono le crepe e le scheggiature

    e la ringhiera traballante che rende la salita ancor più avvincente, visto che non ci si può sognare di usarla come sostegno se si cade o si perde l'equilibrio. Buffo, vero, che abbia passato ben dieci anni in tribunale a cercare di ottenere un ascensore, e che adesso sia felice di non esserci riuscita? Le mie scale sono un familiare promemoria: la vita non è mai tutta in discesa.

    Lo scorso anno, per il mio ottantacinquesimo compleanno, Clara mi ha portata a vedere quella che definisce una «splendida comunità per pensionati», a soli cinque minuti da casa sua nel New Jersey. Ognuno aveva il suo monolocale, e poi c'erano i giardini, un auditorio e una biblioteca e, apparentemente, anche una folta schiena di persone istruite sebbene

    non ne abbia vista una leggere e tanto meno conversare. Ma io un appartamento ce l'ho, lo stesso che avevamo quando mio marito, mia figlia e io ci siamo trasferiti in questo paese nel 1947, un appartamento spazioso, due camere da letto, con vista sul fiume Hudson. Perché dovrei lasciarlo per una scatoletta nel New Jersey? Se dovessi rompermi un'anca

    o perdere l'uso della ragione, al Colonial Manor sarei finita. Qui una caduta sarebbe fatale, e così non dovrei preoccuparmi di come starei seduta su una sedia a rotelle, con una copertina di lana sulle gambe, con l'unica occupazione di guardare fuori dalla finestra. Fortunatamente per me, negli ultimi tempi Clara non si sforza troppo di darmi a bere i privilegi del Colonial

    Manor. È caduta di nuovo in una delle sue depressioni, e così è lei quella che resta a guardare imbambolata fuori dalla finestra. Non fa altro che fissare le auto che passano davanti casa. Dice che le piace il rumore delle automobili sull'asfalto bagnato, il fruscio, "sshh", come di abiti sfarzosi di signore che ballano un valzer. A Clara piacciono queste cose, i valzer e

    la cucina francese. I valzer non mi hanno mai attirata molto, nemmeno quando ero ragazza a Vienna e mia sorella e le sue amiche sognavano di andare all'"Opernball". Avrebbero pagato oro per un'opportunità del genere anche se a nessuno di noi del secondo distretto, oppresso e kasher, sarebbe mai stato concesso di metterci piede. La cosa buffa è che sono

    stata l'unica a imparare a ballare il valzer e a indossare abiti eleganti mentre loro sono rimaste, zitelle trasandate, in quella specie di bunker ad assistere mio padre nella sua lunga ed estenuante malattia. Alla fine, quando è morto, le mie due sorelle ormai avevano perso il treno. Era il 1938, e in effetti tutti avevamo perso il treno. E allora come fa mia figlia a starsene seduta

    per giorni e giorni, senza nemmeno vestirsi, con addosso una vecchia vestaglia e un paio di pantofole, a guardare le auto che passano? Lei non ha idea di cosa significhi aspettare. Ieri al telefono mi ha detto che avrebbe voluto essere vecchia in modo da non dover fare cose sensate. Io ho riattaccato e lei non mi ha più richiamata. Pensa che la mia vita non abbia

    senso? Chi trascorre i lunedì, i mercoledì e i venerdì al Nosocomio per immunodeficienze di Christopher Street? Chi sta uscendo in questo preciso istante per recarsi alla clinica dopo aver affrontato le scale? Chi è quella seduta sulla metropolitana pigiata tra due uomini d'affari accigliati, probabilmente del New Jersey, con le gambe talmente divaricate che

    a stento resta lo spazio per sedersi? Chi legge il New York Times tutti i giorni e tiene lunghi elenchi di espressioni idiomatiche e parole nuove? ( È sbalorditivo quanto sia ricca la lingua inglese.) Le mie prime visite all'ospedale risalgono a circa un anno fa, subito dopo la morte di Karl. Lui aveva messo da parte del denaro per la causa dell'AIDS e mi aveva

    chiesto di trovarne la destinazione migliore. Non era una gran cifra, ma nemmeno irrisoria. Questa incombenza mi ha tenuta occupata in quei primi mesi dopo la sua scomparsa. Ogni giorno mi recavo in un posto diverso, chiedevo informazioni sui servizi che offrivano, parlavo con la gente. Mi sono decisa per il Nosocomio di Christopher Street che la gente sia più

    propensa a far donazioni per la ricerca o la formazione, mentre i casi disperati non attirano ricche donazioni. La cosa mi ha sorpresa, in effetti. Pensavo che a muovere la compassione umana fossero soprattutto coloro che avevano la malattia scritta in faccia, quelli con un piede nella fossa. Qui al Nosocomio si fa presto a conoscere le persone, sarà perché non c'è molto

    tempo. I moribondi mi raccontano le loro storie in poche ore e poi nel giro di una settimana sono morti. È come se non avessero mai raccontato nulla di sé a nessuno, tanto sono impazienti di parlare con me, una perfetta estranea. Ovviamente ci sono malati che hanno sempre un sacco di visite. Con quelli parlo di rado, ma essendo infermiera di formazione, aiuto il personale a

    somministrare le cure mediche necessarie. Sono felice di non aver dovuto smettere di lavorare. Dopo tutti questi anni di lavoro dall'alba al tramonto sarebbe stato difficile abituarsi a stare con le mani in mano. Mi domando se alcuni pazienti, ad esempio quelli che hanno soltanto un quarto della mia età, non si sentono offesi per il fatto di essere assistiti da una

    donna di ottantacinque anni. Ma non credo. Perché mi racconterebbero tutte quelle cose se si sentissero offesi dalla mia presenza?

    La melanconia di Clara

La melanconia di Clara

traduzione di Chiara De Bastiani

Collana: Dissensi

Pagine: 345

ISBN: 9788887583595

Disponibilità: Buona

Prezzo: 16.50 

«... tre generazioni di donne in una famiglia che deve ancora venire a patti con l’Olocausto...» - Kirkus Reviews

Un singolare e polifonico arazzo di vissuti ed esperienze che, a partire dal tempo della narrazione, attraversano a ritroso il secolo scorso seguendo una geografia divaricata da Vienna alla Cecoslovacchia, dalla Spagna al Marocco, da New York al New Jersey. Grazie all’espediente letterario scelto da Anne Raeff, ovvero quello di non dare a Clara alcuna voce, la prospettiva soggettiva della donna rimane celata, consentendo all’autrice di analizzare i motivi per cui alcune persone vengono rafforzate dalle avversità – anche quando queste avversità sono atroci come il genocidio – mentre altre ne escono sconfitte. Quella dell’Olocausto è una catastrofe che aleggia sulle storie di tutti i personaggi, ma l’autrice non fa leva sugli orrori dello sterminio nazista per catalizzare l’attenzione del lettore. Di fatto, il romanzo esamina con lucida sensibilità il modo in cui gli effetti di uno dei momenti più bui della storia incidono sul destino di una famiglia.

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Recensioni

• «Anne Raeff è una magistrale narratrice, un’affabulatrice di cui sentiremo parlare ancora a lungo. Questo libro saprà stupire» (Steve Yarbrough, scrittore)