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  • Prologo

    La luce penetrava a stento attraverso una finestrella chiusa da sbarre e sigillata da un vetro opaco che probabilmente non veniva pulito da anni. Un tavolo e due sedie erano disposti al centro dell’ambiente grigio. Dal soffitto pendeva, per una lunghezza di pochi centimetri, un paralume di plastica che sormontava una lampadina impolverata. Don Vittorio fu accompagnato nella

    stanza da una coppia di guardie carcerarie che si tenevano due passi dietro di lui. Lo fecero sedere e si sistemarono vicino alla porta blindata, accanto al cartello «Vietato fumare». Per fortuna non ho mai avuto questo vizio, pensò il Professore mentre puntava lo sguardo sulla scritta rossa che spiccava sulla parete sudicia. Un trambusto nel corridoio annunciò l’arrivo

    del magistrato che doveva interrogarlo. Il pubblico ministero entrò, salutò gli agenti e fece loro segno di uscire. Un cenno della testa anche verso don Vittorio, senza tendergli la mano per salutarlo. Poggiò una borsa gonfia di documenti sul tavolo. Estrasse alcuni fogli. Poi fissò il Professore. Per qualche istante restò in silenzio, quindi a voce bassa cominciò a parlare. «Perché non collaborate?

    Perché non scegliete questa strada? L’organizzazione ormai è annientata. Vi hanno ucciso figlio e cognato. Vostra sorella si è salvata per puro caso... e resta incolume perché l’abbiamo arrestata, in cella è sotto stretta sorveglianza. Per non parlare di moglie e nipote serrate in un appartamento come recluse...». Il magistrato snocciolava, uno dietro

    l’altro, i morti che avevano costellato la vita di don Vittorio, tutti vittime della guerra di camorra, molti dei quali lui stesso aveva ordinato di assassinare. Il pm gli proponeva di entrare nel programma di protezione assieme ai suoi familiari, gli stava offrendo la possibilità di diventare un collaboratore di giustizia: svuotare il sacco gli avrebbe garantito sconti di pena e addirittura

    la libertà dopo quasi cinquant’anni di carcere. Don Vittorio lo ascoltava con lo sguardo perso nel nulla. Non diventerò un infame, pensava. La consapevolezza di tenere ancora in pugno il mondo della politica, quello delle imprese e dell’alta finanza solleticava la sua vanità: una sua parola avrebbe fatto tremare il sistema dalle fondamenta. Certo, alcuni personaggi erano

    scomparsi dalla scena, ma altri rimanevano figure di primo piano. Il Professore serbava tanti segreti, sapeva cose che nessuno aveva mai scritto e nemmeno immaginato. Io non posso diventare un infame, ripeté a se stesso. Intanto il magistrato proseguiva a elencare i cadaveri eccellenti dell’organizzazione di don Vittorio, intervallando ogni nome con l’invito a non

    fare «la stessa fine». "Non sa neppure che Vincenzo l’ho fatto uccidere io, sogghignò tra sé e sé. Hanno condannato due uomini che non erano del mio clan ma solo degli esecutori. Un lavoro ben fatto, devo dire, una carica esplosiva piazzata ad arte. Gli amici mi hanno aiutato. Vincenzo aveva cercato di fare il passo più lungo della gamba, credeva di poter giocare con i politici, con

    l’intelligence, con la sua organizzazione ed è finito come si meritano quelli che non rispettano le regole. Per allontanare i sospetti, durante un’udienza mi è bastato insinuare che erano stati i servizi segreti a volerlo morto". Il pubblico ministero insisteva: «Don Vittorio, pensate a chi avete di più caro e anche a voi: volete essere trucidato come Giuseppe e sua moglie

    Carla?». Il Professore tornò con il ricordo a quegli avvenimenti: era appena evaso dal manicomio, era braccato dai suoi avversari e allora Giuseppe, per salvarlo, aveva fornito alle forze dell’ordine le indicazioni necessarie per trovare il nascondiglio. Meglio vivo in carcere che crivellato di proiettili, era stato il ragionamento di Giuseppe per proteggere il suo capo. Ma no, don

    Vittorio non poteva permettere che uno dei suoi uomini lo tradisse, nemmeno a fin di bene. Aveva deciso la sua esecuzione qualche anno dopo per punirlo di aver fatto la soffiata. A distanza di pochi giorni era stata uccisa anche la moglie, disperata e ormai decisa a spifferare ai carabinieri i segreti del clan. È vero, Giuseppe lo aveva strappato a una morte

    certa, ma per farlo aveva violato il codice della camorra: meritava di morire. Il Professore aveva scritto una poesia al figlio della coppia affinché comprendesse che il rispetto delle regole nell’organizzazione era superiore a qualsiasi cosa. Meglio morto che traditore, anche se a fin di bene, era questo il ragionamento del Professore. «Mi state ascoltando? Anche i vostri

    parenti vogliono che parliate, che collaboriate, che aiutiate a fare giustizia...». I miei parenti? Ma se sono tutti morti, pensò ancora don Vittorio. Mia sorella, che ha rinunciato persino al matrimonio pur di starmi vicino, è stata condannata. Di quale famiglia parla questo qui? Di mia nipote? Di mia moglie? Sono donne del clan e sanno bene che questa è la loro vita,

    lo sanno da sempre. «La camorra sta facendo terra bruciata attorno a voi. Vi hanno abbandonato anche gli amici politici che non avete voluto denunciare. Persino per i giornalisti non fate più notizia. È arrivato il momento di collaborare...». Ancora un turbine di pensieri: don Vittorio, una volta, aveva minacciato di «cantare». Aveva comunicato ai magistrati del pool antimafia che

    sarebbe passato dall’altro lato della barricata. La domenica di Pasqua magistrati e uomini della Digos si erano presentati al carcere. Il Professore stava già preparando le sue cose quando, a sorpresa, nella cella si infilò un vescovo. Disse che doveva confessarlo. Dopo aver cacciato tutti fuori, gli assicurò che i suoi amici non lo avrebbero abbandonato,

    garantendogli una serie di benefit: gli avrebbero concesso di avere un figlio con l’inseminazione artificiale e la detenzione non sarebbe stata più dura. Quando il presule se ne fu andato, don Vittorio chiamò il magistrato che stava aspettando nel corridoio assieme agli uomini in divisa e semplicemente dichiarò che non voleva più collaborare.

    Si allontanarono imprecando. Ma le promesse furono tutte mantenute. A quel punto il Professore accantonò i ricordi e decise che era tempo di farla finita. Gli occhi da vacui si fecero presenti e poi feroci. Guardò il magistrato con intensità. Lo fissò dritto nelle pupille, e con voce decisa: «Io non posso diventare un infame. E poi la camorra non può farmi

    nulla. Lo sapete perché? Perché io sono la camorra».

    Il terrorista e il professore

Il terrorista e il professore

Collana: Dissensi

Pagine: 128

ISBN: 9788896350423

Prezzo: 10.00 

A quel punto il Professore accantonò i ricordi e decise che era tempo di farla finita. Gli occhi da vacui si fecero presenti e poi feroci. Guardò il magistrato con intensità. Lo fissò dritto negli occhi, e con voce decisa: «Io non posso diventare un infame. E poi la camorra non può farmi nulla. Lo sapete perché? Perché io sono la camorra».

Il rapimento di un assessore regionale. L’intreccio tra malavita, terrorismo e politica. Un boss che detta le regole del gioco. Il ruolo equivoco dei servizi segreti. Una tenera storia d’amore. I dubbi che lacerano chi, in nome di alti ideali, scende a compromessi e sceglie la strada della violenza. Sono alcuni degli ingredienti del romanzo Il terrorista e il professore che, traendo ispirazione da fatti veri, assume pieghe del tutto originali, inedite, appassionanti. Il set principale dove si svolge l’azione è un carcere di massima sicurezza dove è rinchiuso don Vittorio, meglio conosciuto come il Professore, capo indiscusso della cosca. C’è Napoli, teatro dell’agguato dei terroristi che rapiscono un politico locale, personaggio chiave nella gestione dei fondi per la ricostruzione post terremoto dell’Ottanta. E c’è Milano, città dove prende forma la trattativa segreta tra Stato e camorra per la liberazione dell’ostaggio. Il penitenziario diventa crocevia di esponenti dell‘intelligence, affiliati al clan e governanti ambigui. Il boss tesse la trama dei rapporti, fissa condizioni e tempi degli interventi, tiene in pugno e ricatta esponenti istituzionali, stringe amicizia con un sindacalista brigatista che, per amore della sua compagna, si è consegnato alle forze dell’ordine. Gli attori principali e la folla dei personaggi secondari disegnati con essenziali tratti di pennello, il linguaggio semplice e scorrevole, il ritmo intenso impresso agli avvenimenti fanno del nuovo, atteso romanzo di Vito Faenza una lettura avvincente, carica di pathos e tensione.

Recensioni

“Il terrorista e il professore” recensito da La Repubblica: Vito Faenza Il terrorista e il professore la Repubblica

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il terrorista e il professore” recensito da Il Corriere del Mezzogiorno-Il Corriere della Sera

“Il terrorista e il professore” recensito da Il Quotidiano del Sud:recensione Il Quotidiano del Sud

 

 

 

 

 

 

 

 

“Il terrorista e il professore” recensito da Il Quotidiano Nazionale:

Quotidiano Nazionale recensione Il terrorista e il professore

 

 

 

 

 

 

 

 

Vito Faenza, con il romanzo “Il terrorista e il professore”, è vincitore del Premio Sgarrupato 2015:

Il Roma Premio Sgarrupato

 

 

 

 

 

 

 

“Il terrorista e il professore” recensito da Il Mattino

“Il terrorista e il professore” recensito da La Lettrice Rampante

“Il terrorista e il professore” recensito da Agoravox

“Il terrorista e il professore” recensito da CasertaFocus

“Il terrorista e il professore” recensito da OltreLePagine

Presentazione del romanzo “Il terrorista e il professore” a Ottaviano (Na):

“Il terrorista e il professore” recensito per il blog “Mr. Hopes Stories” di Gianluca Spera

“Il terrorista e il professore” recensito su LibrAngoloAcuto

“Il terrorista e il professore” recensito su Mypoblog