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  • Uno. Un saccente damerino

    L’operaio scalciava per non finire muso a terra, aggrappato ai manici della carriola che lo trascinava veloce giù per la collina. Un altro gli correva di fianco a salti lunghi, con le braccia protese per salvare l’arbusto trasportato. Pugni stretti nei tasconi della palandrana grigia, Andrew Graefer seguiva ai piedi dell’altura la discesa miserevole, scuotendo il largo cappello da lavoro calato sulla fronte.

    Ansimanti gli giunsero davanti. Graefer intimò di non toccare la pianta, annientando il compiacimento per la scampata caduta. Carezzò la camelia, la sollevò e ne rimirò la lucentezza. S’inginocchiò a piantarla nella buca già pronta, ricoprendo le radici con manate di terra. «Se vi siete riposati dall’immane fatica, andate a prendere le altre». Si rialzò. «E piano con la carriola, per Giove!

    Sono piante rare, non blocchi di pietra». Calpestata la terra cedevole sotto l’alberello, si guardò intorno: il giardino stava prendendo una sua fisionomia. Dalla base contorta di un albero di canfora voleva far sgorgare una sorgente e, sul terreno brullo circostante, immaginò un sinuoso ruscello con le rive fitte di piante lacustri. Poteva reputarsi soddisfatto del lavoro realizzato in soli

    dieci mesi. Anche durante l’inverno non aveva concesso un solo giorno di riposo alle decine di uomini che la regina gli aveva assegnato. Il freddo e la pioggia, per lui che veniva dall’Inghilterra, non erano certo un impedimento a trascorrere la giornata intera con gli stivali nel fango. Allungò lo sguardo all’ampia radura chiazzata d’erba, in fondo alla quale correva la sconfinata parete del muro in quei

    giorni completato dall’architetto Vanvitelli. A nulla erano valse le sue spiegazioni sulla moda inglese di giardino informale che, era inevitabile, sconvolgeva l’idea consolidata del classico giardino all’italiana. Di conseguenza la prospettiva dolce del paesaggio ideale, che pure aveva cercato di far comprendere, si era infranta contro quel muro voluto con caparbietà da

    Carlo Vanvitelli che neanche un’oncia di talento, Graefer se n’era persuaso presto, aveva ereditato dal padre. Luigi Vanvitelli sì che era un genio, pensò. Ancora si emozionava al ricordo della meravigliosa visione della reggia. Era il luglio del 1786, giusto un anno prima: il caldo opprimente toglieva l’aria nella carrozza che da Napoli lo conduceva a Caserta. E dal finestrino si materializzò, miraggio nella

    calura liquida, l’imponente maestosità della facciata. «Maestro, maestro» strillò un garzone correndo. «Tenimmo visite. Sta venenno o’ signo’ Emittòn». «Sir Hamilton, intendi?». «Isso gnorsì, isso» annuì il ragazzo. «Ve sta cercanno». Graefer mugugnò, pensando al tempo che l’ambasciatore britannico gli faceva perdere ogni volta che compariva. Ma prevalse l’obbligata cortesia che il debito di

    riconoscenza esigeva. Con un paio di manate sulla palandrana sollevò sbuffi di polvere e si avviò. Sir Hamilton era in compagnia di Carlo Vanvitelli nel boschetto di tigli. La sola sagoma dell’architetto riusciva a indispettire Graefer e vederli insieme gli scatenò l’inquieto allarme per un pericolo imminente. Lasciato lì Vanvitelli, la figura longilinea di Hamilton gli si fece incontro. Elegante

    nella raffinata marsina di broccato verde chiaro, il venticello gli scompigliava appena i radi capelli bianchi, lunghi fino alla nuca. Era uno dei pochi a permettersi di andare in giro privo di parrucca. Il giardiniere si sfilò il cappello: «Good morning milord». «Buongiorno Graefer» scandì l’ambasciatore e, ruotando con grazia la testa, volse il naso aquilino al giardino. «Mi compiaccio per i grandi

    progressi». Senza dargli tempo di rispondere gli puntò un dito contro: «Ascoltami Graefer. Stanno arrivando ospiti e non ho tempo da perdere». A quel tono il giardiniere sapeva di dover solo tacere. «Sono stufo di dover rimediare alle beghe tra te e Vanvitelli ». Lo fissava gelido. «Per l’ultima volta. Ti ricordo che sono io il sovrintendente di questo giardino e Vanvitelli è l’architetto. Tu sei qui per eseguire gli ordini». Ogni

    parola era una sciabolata mortale all’artista che Graefer riteneva di essere. «Sono qui grazie a voi, milord» riuscì a dire. «Qualsiasi vostra decisione...». «Non provare a prenderti gioco di me, Graefer. Le lamentele di Vanvitelli sono quotidiane. Vi beccate sempre». «È vero milord!» ebbe un guizzo di orgoglio. «Accade perché mi attengo alle regole del giardino paesistico, apprese in tanti

    anni di lavoro in Inghilterra». Con la mano aperta Hamilton lo zittì. «Dimentichi che ti ho fatto venire io quaggiù?» corrugò appena un sopracciglio, «e che tuttora non hai restituito al mio amico Joseph Banks le spese del viaggio pagato per te e i tuoi figli?». Un pugno sul naso gli avrebbe fatto meno male. Graefer chinò il capo sotto il peso di un delitto che sentiva di non aver compiuto. Comunque

    era inutile cercare di spiegare a una persona come sir Hamilton quanto poco gli bastasse lo stipendio assegnatogli. O l’entusiasmo, e il tempo, che invece dedicava alla creazione del giardino. «Il tuo paesaggismo vedutistico sarà pure apprezzato nella mia patria piovosa, ma nel regno di Napoli», indicando tutt’attorno col bastoncino da passeggio, «vale ciò che vuole la regina, dopo che

    alle sue orecchie giungono cento bisbigli al giorno». «Comprendo, milord». «No Graefer. Tu non comprendi. Nessuno di quei cento bisbigli è a tuo favore». Sbirciò Carlo Vanvitelli che faceva su e giù sotto i tigli. «Sono tutti a suo vantaggio» mormorò il giardiniere, «perché lui è il figlio del grande Vanvitelli». «Bravo Graefer. Contano le buone conoscenze. Prima lo impari, meglio è. Vanvitelli

    è il direttore dei lavori della reggia di Caserta. È l’uomo che autorizza tutte le spese, anche il tuo stipendio. Lui è figlio del grande Vanvitelli. E tu di chi sei figlio?». Di nuovo lo stomaco di Graefer fu morso dal senso di colpa antica che lo macerava fin da quando il padre l’obbligò a emigrare a Londra. «Hai amici? Hai protettori?» proseguì tagliente, in apparenza rivolto alle fronde degli

    alberi. «Siete il solo, milord». «Ebbene. Alla prossima bega che mi sarà denunciata non ti difenderò più. Ciò vuol dire che farai i bagagli. E, credimi, a Londra lord Banks non ti farà assumere neppure come scaricatore di porto finché non salderai il debito». Graefer non riuscì a deglutire. «Andrai a vivere in terra germanica con i tuoi figli. Con la vergogna di non aver completato l’incarico

    reale». L’idea di dover tornare al villaggio da cui era partito ragazzo gli si spalancò innanzi come un baratro. Vide precipitarvi le esperienze inglesi con i maestri botanici Miller e Busch, i molti luminosi anni dal conte di Coventry, la prematura morte di Elizabeth. E poi il giardino di Kensington a Londra. Tutto distrutto per colpa di Vanvitelli! Con orrore si vide ridotto a sopravvivere nell’angustia del borgo a

    coltivare broccoli per quattro paesani. «Andiamo!» ordinò Hamilton. Graefer si riebbe e lo affiancò mentre insieme raggiungevano Vanvitelli. Non è ancora finita, pensò con un sospiro. «Signor ambasciatore, stanno arrivando». Con voce eccitata il paffuto architetto indicava la piccola folla che si avvicinava. Una macedonia di tricorni, candidi jabot, ombrellini di

    seta e giacche di velluto schiamazzava festosa. «Dunque ogni dubbio è sciolto» proclamò Hamilton, avendo subito l’attenzione dei due. «Voi, mastro Graefer, andrete avanti con i lavori del giardino secondo i più moderni dettami del vedutismo all’inglese. Come espressamente richiesto dalla regina». L’incredulità del giardiniere non fu minore di quella che avvampò l’architetto. «A

    voi, signor Vanvitelli, l’impegno di continuare le opere secondo vostra arte e ingegno». Concesso uno sguardo severo a entrambi proseguì: «Collaborando tra voi in armonia, per esaudire come si conviene i voleri di sua maestà». Le bocche dei due uomini rimasero aperte. «Stringetevi la mano» ordinò. Avrebbero preferito affondarla nella melma putrida di una porcilaia. Con un sorriso

    borioso Vanvitelli fece emergere la propria dai merletti della manica. Umiliato Graefer la strinse e si ritrasse rapido, mentre il gruppo li raggiungeva. Dritto come un fuso sir Hamilton stava già decantando ai visitatori le bellezze del giardino in costruzione. «Abbiamo anche completato il necessario muro di cinta » si fece largo Carlo Vanvitelli sistemandosi la candida parrucca. «Ne siamo tutti

    compiaciuti» aggiunse Hamilton. «È stato un lavoro gravemente disagevole» non si trattenne Graefer. E indicò i manovali che riscendevano la collinetta: «Ora stiamo sistemando un filare di quei giovani arbusti». La variopinta comitiva si volse alla collina nell’attimo peggiore. L’operaio caracollava giù trascinato dalla carriola e l’altro, stavolta, rovinò a terra avvinghiato

    all’arbusto. Lo sbotto di risate dei cortigiani sottolineò la scena. «Le maestranze, milord» sussurrò Graefer. «Le maestranze sono quello che sono». «Se quegli uomini dissodano in tal modo il terreno, pianteranno granturco». All’ondata d’ilarità che seguì, Graefer aguzzò lo sguardo cercando l’autore della spiritosaggine. Un gentiluomo dall’aspetto autorevole ringraziava per

    l’apprezzamento, annuendo col testone adorno di capelli biondo cenere portati lunghi come sir Hamilton. Graefer stava per reagire ma l’ambasciatore fu più rapido: «Carissimo Hackert, lasciate che vi presenti il nostro giardiniere capo, il signor Andrew Graefer». Si voltò: «Avvicinatevi Graefer. Conoscete il maestro pittore di corte, l’illustre signor Philipp Hackert?». Graefer non

    poté sottrarsi a un inchino verso quella figura prestigiosa, che a malapena gli accordò un mezzo cenno del capo, rimirando il panorama con un sorriso di sufficienza. Gli occhi cerulei del giardiniere non si staccavano dal corpulento screanzato. Sotto una mantellina di lana azzurra indossava una giacca damascata nelle tonalità del giallo intenso. Un lungo panciotto in seta a variegati motivi floreali

    conteneva a fatica la prominenza dell’addome. «Mi dicono che siete inglese» sentenziò il pittore di corte, concedendogli finalmente un’occhiata. «Vi chiamate Graefer» scandì forte, assumendo l’aria assorta di chi ricorda. «Eppure Graefer non mi sembra un cognome inglese». Il giardiniere fece appello a tutto il suo sangue freddo: «Siete un acuto osservatore, herr Hackert». A sentirsi definire

    herr, il pittore ebbe un moto di sorpresa. «Ah, ecco, siete prussiano come me». «Spiacente deludervi. Non sono prussiano. Sono nato nel ducato di Braunschweig». «Molto bene. Siete sassone». «Sono del Braunschweig-Lüneburg per l’esattezza». «Certo, sì certo. Non siete prussiano, ma siamo vicini. Entrambi figli delle aspre terre alemanne». Graefer annuì appena. E continuando a fissarlo non

    poté fare a meno di stimare che le serre fiorite del suo giardino contavano meno colori di quanti ne indossava quel vanesio pittore. «E ditemi, herr Graefer, se non sono indiscreto» insistette, sorretto dagli sguardi adoranti dei cortigiani, «come mai passate per essere un inglese?». «Mio caro maestro» rispose l’ambasciatore Hamilton. «Mister Graefer ha vissuto per oltre vent’anni nella

    mia patria. Ha lavorato in numerose dimore signorili, divenendo uno dei più apprezzati mastri giardinieri del regno». Graefer chinò la testa per ringraziarlo, ma sir Hamilton volle proseguire: «Fu tra i più stretti collaboratori del grande architetto Capability Brown. E giunse qui su mia richiesta, grazie alla mediazione di sir Joseph Banks, il presidente della Royal Society. Lo

    conoscerete, suppongo». «Oh, chiedo scusa milord» lo stupore del pittore parve sincero. Ristabilita pertanto la gerarchia, Hackert si rivolse di nuovo al giardiniere: «Sono davvero onorato di conoscervi, signor Graefer». Senza attendere risposta proseguì: «La comune terra d’origine, mein lieber herr1, è un punto in più nella nostra conoscenza» e scoppiò in una fragorosa risata che contagiò il

    codazzo, incantato dalla scena che sarebbe divenuta argomento dei prossimi pettegolezzi nei salottini della reggia. «Ebbene, Graefer» fu conclusivo sir Hamilton alzando il bastoncino. «Volete dunque mostrarci lo stato dei lavori?». Calzato l’ampio cappello, il giardiniere si avviò. Con l’andatura dinoccolata, per la quale pareva controllasse il terreno ora a destra ora a sinistra, apriva

    il variegato corteo che destò la curiosità degli operai. Forniva notizie asciutte sulle colline, sulla prospettiva, sul paesaggio. E si teneva lontano dal rivelare i veri particolari del suo allestimento. Parecchi di quei cortigiani, lo sapeva per certo, invidiavano il suo appannaggio di cento ducati mensili. Per non parlare di Carlo Vanvitelli, che trotterellava a orecchie tese per carpire qualche segreto e fomentare le

    dicerie sull’insulso giardino. Un progetto costoso, voluto dalla regina su ispirazione degli inglesi di cui si circondava, e portato avanti nel pieno disinteresse di re Ferdinando che in quei terreni, Graefer se l’era sentito dire più volte, avrebbe volentieri fatto piantare melloni e paparuli. Perciò la perfida battuta sul granturco aveva ravvivato le sue insicurezze.

    Il pittore, il giardiniere e il fiato degli elfi

Il pittore, il giardiniere e il fiato degli elfi

Misterioso intrigo dalla Reggia di Caserta ai monti del Matese

Pubblicazione: 16 maggio 2025

Collana: Dissensi

Pagine: 200

ISBN: 979-12-80-955-18-0

Disponibilità: Ottima

Prezzo: 18.00 

I bagliori lampeggiavano sulla lama infilata nella cintura dell’ometto, confondendo la faccia scura con le tenebre dei vicoli. Non impiegò molto, Graefer, a sudare freddo. Il coltello, il grugno, i precedenti: tutto gli diceva che non sarebbe arrivato vivo al palazzo.

Pennelli, essenze portentose, intrighi e veleni letali: il pittore Philipp Hackert e il giardiniere Andrew Graefer della corte dei Borbone protagonisti di un originale e affascinante thriller storico tra insospettabili rivoluzionari, fedelissimi alla corona, massoni. Fine Settecento. La storia si apre sul Giardino inglese in costruzione nella Reggia di Caserta. Qui avviene il primo incontro tra Graefer e Hackert: i due non si piacciono. Qualche anno più tardi, tuttavia, eccoli insieme in viaggio per ordine del re. Sono diretti a San Gregorio, il primo in cerca di piante con cui abbellire l’incantevole parco del complesso vanvitelliano e l’altro per dipingere scorci suggestivi del Regno di Napoli. Il clima del paesino montano è lugubre: il medico, lo speziale, il possidente e l’enigmatica gentildonna che li accolgono si muovono con ambigua cortesia tra un affresco segreto, una cena sfarzosa e i vapori di un antro alchemico.

Hackert una sera scompare. Lo hanno ucciso? C’entra qualcosa il rampollo dei notabili locali, inaspettato giacobino? E Graefer si esporrà per salvarlo, fronteggiando uomini dal coltello facile?

Romanzo di fantasia, rigoroso nei riferimenti storici, ironico e stuzzicante, è animato da personaggi reali che incrociarono le proprie esistenze con quelle di Emma Hamilton, Horatio Nelson, Carlo Vanvitelli e la regina Maria Carolina. Anche palazzi, chiese e l’oscuro affresco sono reali, come i disegni del pittore. A suggerire che, forse, qualcosa è successo davvero.

 

Libro pubblicato con il contributo della Regione Campania.

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