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  • IL SEGRETO DELLA BARONESSA

    Nello scendere da una cima sormontata da un’enorme croce di pietra, i viaggiatori che due ore prima avevano abbandonato il treno per stringersi all’interno di una diligenza, videro d’improvviso la valle intera e la città al suo centro. Di fronte si elevavano i Pirenei come le quinte di una scenografia teatrale; prima di tutto montagne rossicce o giallastre in progressione

    ascendente, allo stesso modo dei gradini di una scala; poi altre, che a distanza venivano assumendo una tonalità azzurra, e in alto le ultime, totalmente bianche, di un biancore che quasi pareva confonderle con le nubi, e che conservavano finanche nei mesi d’estate quei caschi di neve in cima con delle frange di gelo brillantate al sole. Sentieri lastricati, frequentati

    unicamente da commercianti di muli e da contrabbandieri, rendevano assai precarie le comunicazioni tra questa valle pirenaica della Spagna e la Francia, invisibile all’altro lato della cordillera. I doganieri vivevano un’esistenza da uomini preistorici nelle anfrattuosità di quelle montagne spazzate durante l’inverno dagli uragani e dalla neve. Giù,

    nella valle più profonda, fertile e riparata, si estendeva la grigia città, vicino a un fiume di acque freddissime, frutto dei recenti disgeli. I suoi tetti, coperti di vegetazione parassitaria, sembravano piccole foreste pensili, dove i gatti potevano dedicarsi a interminabili partite di caccia o stiracchiarsi sotto il sole; le tegole ricurve avevano una crosta di muffa vegetale.

    I loro muri erano incrinati, e rare erano le facciate delle case che non apparissero sostenute da quelle «esse» di ferro che gli architetti chiamano ancore. Era una città più vecchia che antica. Delle case di pietra costruite in altri secoli – quando gli spagnoli di religione cristiana, rifugiati nel nord della penisola, venivano lentamente strappando la terra agli spagnoli

    musulmani rimanevano solo resti sparsi. I ricchi avevano rimpiazzato le loro antiche dimore con altre più deboli e brutte, secondo il gusto dell’epoca. Dopo i lavori che risalivano agli inizi del diciannovesimo secolo, la città non aveva subito cambiamenti. L’unico edificio di mattoni rossi, il cui aspetto fiammante rivelava una costruzione più recente, era un

    fabbricato a tre angoli situato in periferia, che sembrava dominare con la sua mole il resto dei caseggiati. Coloro che lo vedevano per la prima volta, si chiedevano a cosa servisse. Alcuni lo credevano una grande fabbrica il cui funzionamento era assicurato da qualche prodotto speciale del posto; altri, in virtù delle numerose finestre e dei

    grandi cortili annessi, pensavano che potesse essere una caserma, soprattutto per il fatto che la frontiera era vicina. Solo entrando in città capivano che era il Seminario. Le ricche devote avevano lasciato gran parte della loro eredità per la realizzazione di questo enorme fabbricato, che solo ora era motivo d’orgoglio per gli eredi lasciati a bocca asciutta.

    La cattedrale, costruita nel secolo undicesimo, e il Seminario, con quell’aspetto di moderna caserma, si ergevano superbamente sui tetti oscuri della città. Siccome le mura di cinta erano state demolite dopo l’ultima guerra carlista, affinché non potessero offrire protezione a nuove insurrezioni nostalgiche, le case ora si andavano espandendo anche in

    campagna e lungo il fiume. In città non v’era autorità superiore a quella del vescovo. Il governatore della provincia viveva nella vicina capitale, centro moderno, con una stazione ferroviaria, con circoli di divertimento, con un teatro, con una mezza dozzina di fabbriche e con una popolazione abbondante di operai, pronta a far proprie tutte le idee liberali e pericolose.

    Questa città della valle pirenaica era orgogliosa di rappresentare l’antitesi della capitale di provincia. I poveri lavoravano nei vigneti. Non c’erano altri operai oltre quelli che servivano nelle loro case ai bisogni della popolazione. L’unica autorità laica, l’alcalde, visitava tutte le settimane il vescovo per conoscere il suo pensiero sui fatti della politica e per non commettere errori.

    Anche un vecchio colonnello, governatore militare di questa antica roccaforte ormai senza fortificazioni, era visitatore assiduo del vero signore della città. Faceva un gran parlare quella buona gente dei mobili che adornavano il palazzo episcopale. Uno degli ultimi prelati – chiamato «modernista» dai suoi diocesani per i suoi gusti – aveva rinnovato i vecchi saloni con poltrone

    vistose venute da Barcellona e da Madrid. Ugualmente egli aveva oltraggiato la maestà severa della cattedrale, collocando nei suoi altari delle immagini azzurre e rosate, con grandi orpelli dorati, acquistate a Parigi presso la chiesa di Saint Sulpice. Ma l’originaria bellezza di questo tempio, patinata da più di otto secoli di adorazione, era tanto intensa che

    continuava a resistere nonostante tali profanazioni. Le vie della città destavano, in un viaggiatore, maggiore interesse che i suoi edifici. Esclusa la principale, dove si trovavano i negozi, tutte le altre mostravano quasi lo stesso aspetto che avevano in secoli remoti. La maggior parte delle case sporgevano i loro piani superiori sulla strada, sostenuti da una serie di

    archi, sotto i quali si nascondeva il piano inferiore in una penombra da bottega. Le arcate si appoggiavano a pilastri di muratura, rovinati dagli anni, o a colonne di pietra scura, resti di antichi edifici sui cui capitelli si accozzavano angeli bizantini con tuniche rigide o capoccioni di santi con le narici screpolate. Da tutti i piani bassi, esalava un odore di scuderia e di vino

    in fermentazione. Le strade popolari avevano sempre, al centro, un manto di sterco putrefatto caduto dai carri e di sterco fresco di cavalcata. Nelle ore pomeridiane quell’immondizia brillava sotto il sole dorato, tra una doppia fascia d’ombra proiettata dalle case. Il passaggio di una carretta o di bestie da soma faceva sollevare dal suolo corpose nubi di mosche.

    Questa città di frontiera era stata premiata dal governo di Madrid con un regalo che era a volte motivo di festeggiamenti pubblici, altre volte di sorda collera. Questo regalo era un battaglione di cacciatori messo lì a guarnigione. Gli ufficiali, infastiditi fino all’imbecillimento dalla calma e dalla vita sempre uguale di questa città episcopale, finivano col

    buttarsi nelle peggiori diavolerie, scandalizzando la popolazione. Alcuni vivevano in peccato convivendo con mogli maritate o con signorine delle classi popolari. Altri, ansiosi di meritarsi simili abomini, perseguitavano le belle figliole che lavoravano nei negozi. Era la monotonia di questa guarnigione senza scopo, vicino a una frontiera quasi invalicabile, che li portava a

    divertirsi con bravate infantili.

    La rabbia e altre storie

La rabbia e altre storie

e altre storie

Pubblicazione: 10 dicembre 2015

Collana: I Saggi

ISBN: 9788896350522

Prezzo: 7.00 

a cura di Gennaro Schiano e Tiziana Di Monaco

Un brivido sembrava percorrere i campi «Appena calata la notte, l’huerta restava senza luce, senza un’anima viva per i sentieri; come se la morte si fosse impossessata di quella tenebrosa pianura, così verde e allegra nelle ore di sole»

Campagna rigogliosa ma deserta. Contadini rintanati nei capanni. Uomini pronti a puntare il fucile, donne che si guardano le spalle. Ma non sono gli zombie di The Walking Dead quelli da cui difendersi. «“Eccoli! Eccoli!”, si gridava da una baracca all’altra alla vista d’un branco di cani, ululanti, affamati, col pelo imbrattato di fango, avviati giorno e notte a una corsa senza tregua, con la follia dei perseguitati negli occhi». Il racconto sembra appena uscito dalla matita di un disegnatore contemporaneo e invece è frutto della penna di Vicente Blasco Ibáñez, nato a Valencia nel 1867, ribelle, uomo politico e di lettere venuto dal nulla, che ha conosciuto tutti gli spifferi della miseria, soffocato dal peso di una società chiusa in se stessa e nel proprio passato. E sa fare anche di meglio Ibáñez, quando trasforma la cucina di un palazzotto signorile nella scena del più efferato dei crimini. Estimatore di Gabriele D’Annunzio, il cospiratore del Quarnaro, e di Émile Zola, l’ostinato difensore di Alfred Dreyfus, Ibáñez condivide del primo i riferimenti a Friedrich Nietzsche, del secondo gli orientamenti veristi e popolari. Eppure il suo stile si distingue, è riconoscibilissimo, laddove la realtà supera ogni più rosea o agghiacciante fantasia.

Vicente Blasco Ibáñez (Valencia 1867 – Mentone 1928) è stato uno scrittore, giornalista, sceneggiatore e attivista politico spagnolo. Gli inizi letterari risentono della coeva riflessione politica, si pensi al sovversivo La araña negra (Il ragno nero, 1892), romanzo di denuncia contro la Compagnia di Gesù o, sullo stesso tema, a La catedral (La cattedrale, 1903). Le prove più interessanti dello «Zola spagnolo» sono senza dubbio i romanzi della serie valenciana come Arroz y tartana (Riso e carrozza, 1894), Flor de mayo (Fiore di maggio, 1896) e Cañas y barro (Canneti e fango, 1902). La narrativa breve, inaugurata dai Cuentos valencianos nel 1896, prosegue fino al 1927 con raccolte e volumi differenti tra i quali La condenada (La condannata, 1900) e Cuentos de la guerra (Racconti di guerra, 1918). Los cuatro jinetes del apocalipsis (I quattro cavalieri dell’apocalisse, 1916) resta la sua opera più nota grazie anche alla fortunata versione cinematografica diretta da Vincente Minnelli.

Gennaro Schiano (Castellammare di Stabia – Na – 1985) è dottore di ricerca presso l’Università degli Studi di Napoli Federico ii e collabora con la cattedra di Letteratura spagnola. È autore della monografia dal titolo Paradigmi autobiografici. Ramón Gómez de la Serna, Christopher Isherwood, Michel Leiris, Alberto Savinio (Pacini 2015). Ha curato inoltre la miscellanea «Y si a mudarme a dar un paso pruebo», dedicata alle durate e alle discontinuità della poesia spagnola moderna (Ets 2015).

Tiziana Di Monaco, giornalista, cofondatrice e direttore editoriale di Edizioni Spartaco, libraia.

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