Da figlia, sorella, moglie sottomessa, a persona autonoma, titolare di un patrimonio e capace di gestirlo, consapevole delle proprie prerogative e in grado di compiere scelte per sé e per gli altri. Un cammino lungo e travagliato quello della donna italiana per conquistare i propri diritti, le cui tappe vengono ripercorse dalla saggista e conferenziera Emilia Sarogni con lucida partecipazione. A ogni passo in avanti, in termini di difesa innanzitutto della dignità, corrisponde il nome di un personaggio che si è messo in gioco sfidando la società del tempo, affinché la parità fosse non solo sancita da norme giuridiche ma applicata nella vita reale. Significativi i profili di Anna Maria Mozzoni e Anna Kuliscioff, due grandi emancipatrici. Salvatore
Morelli fu il primo al mondo a chiedere in Parlamento, nel 1867 a Firenze, allora capitale d’Italia, piena potestà per le donne. Passaggi essenziali sono l’abolizione dell’autorizzazione maritale, il voto, il divorzio, l’aborto, l’ingresso in attività a lungo proibite come magistratura, polizia e forze armate. E poi ancora il nuovo diritto di famiglia, la parificazione completa tra figli illegittimi e naturali, lo stupro punito come delitto contro la persona e non solo contro la morale, il divorzio breve, le unioni civili. E il nuovo millennio esplode con la violenza dei femminicidi e le norme per prevenirli e reprimerli.
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Nel Codice civile italiano del 1865 entrarono in conflitto due diverse concezioni della famiglia e della donna: una radicata nel costume e nelle tradizioni di un passato millenario, l’altra ispirata alle idee libertarie e democratiche dell’Illuminismo. I principi giuridici generali che avevano regolato la condizione della donna prima dell’Unità d’Italia
rispecchiavano i filoni basilari del diritto europeo: il diritto romano e gli apporti delle consuetudini barbariche. A Roma nei tempi più antichi, durante la Repubblica, la figlia era soggetta al potere del padre, più assoluto del potere esercitato sui figli e sui nipoti, poiché valeva anche nel campo del diritto pubblico, escludendo la donna dalle cariche e dagli onori. Alla sua morte la
figlia passava sotto la tutela del maschio della famiglia che aveva ereditato la patria potestà. Per compiere gli atti giuridici di maggiore importanza, come vendere le cose di valore, promuovere una causa, fare testamento, accettare un’eredità, contrarre un debito, liberare uno schiavo, la donna aveva bisogno dell’intervento del padre o del tutore.
La sua capacità giuridica si limitava agli atti di ordinaria amministrazione e alla vendita delle cose di minor valore. La donna romana sposandosi lasciava la famiglia del padre ed entrava in quella del suocero o del marito, ponendosi sotto il potere di uno di questi, oppure rimaneva soggetta al potere paterno. La famiglia era concepita quasi fosse un organismo politico,
con patrimonio, poteri e ordinamento propri. La figlia per sposarsi doveva ottenere, sotto pena di nullità, il consenso del padre. Nei matrimoni in cui conservava il proprio potere sulla figlia, il padre aveva il diritto di revocare l’assenso dato e richiamare nella casa la donna con un atto unilaterale della sua volontà. La moglie portava normalmente nella casa del marito una dote,
affinché su questa gravassero le sue spese personali e una parte delle spese del matrimonio. La sposa però, nella maggior parte dei casi, non conosceva quali fossero i suoi diritti nei confronti della dote, poiché i giuristi continuavano a discutere il difficile problema se la proprietà delle cose dotali spettasse alla moglie o al marito La crescita dell’economia romana
attenua la portata della tutela: si compiono progressi per quanto riguarda la donna libera. La condizione delle romane nell’epoca repubblicana era simile a quella delle inglesi nell’Ottocento. John Stuart Mill, nel suo libro La servitù delle donne, sosteneva che le donne britanniche dell’epoca vittoriana subivano una schiavitù più dura di quella romana dell’epoca imperiale.
In questo periodo gli schiavi di Roma potevano arrivare a possedere un loro peculium. Se liberati, talvolta, ottenevano anche cariche di grande rilievo, come quella di Ministro delle Finanze. In alcuni casi i liberti diventavano ricchissimi. Le donne inglesi, invece, non possedevano nulla: tutto passava nelle mani del marito. L’epoca imperiale porta a un notevole
miglioramento nella condizione giuridica delle donne, con l’affievolirsi della patria potestà e la scomparsa della tutela per quelle non soggette a tale potere. Nel diritto privato cadono gravi limitazioni. Le donne maggiorenni hanno ormai la facoltà di amministrare i propri beni, vendere, assumere obblighi, possedere un patrimonio personale costituito dai beni
parafernali, che si trovavano al di fuori delle convenzioni matrimoniali e dalla donazione che il marito poteva fare in occasione delle nozze. Ciononostante, numerose norme continuano a limitare la volontà e l’attività della donna e a lei sono vietati tutti gli incarichi civili e pubblici. Il grande giurista romano Gaio, nel II secolo d.C., confessa di non saper
trovare un fondamento razionale alla sopravvivenza di certe norme legislative e consuetudini invalidanti la capacità giuridica delle donne e rifiuta di accettare, a loro giustificazione, la leggerezza d’animo normalmente invocata a sostegno della soggezione femminile.
Il lungo cammino della donna italiana
Il lungo cammino della donna italiana
Dal 1861 ai giorni nostri
Pubblicazione: 11 ottobre 2018
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