Una cordicella, un coltello, una lanterna, una scatola di fiammiferi: è tutto quello che possiede Immacolata, ragazza di buona famiglia che ha voluto sposare un contadino. Morto il padre, le proprietà sono passate al fratello Vincenzo, il maschio di famiglia. La povertà, la disperazione, la spingeranno a rubare in quella che era stata casa sua. Processata per furto, solo la morte, tre mesi prima della sentenza, la salverà dal carcere. La sua storia apre questa raccolta, che narra anche degli innamorati che la legge di Murat non riuscì a separare e della giovane che si ribellò alle consuetudini e per questo fu uccisa dal marito violento scelto dai genitori. E ancora sono riportate le vicissitudini del testimone scomodo che emigrò in Venezuela, quelle del coltivatore impoverito a causa del passaggio dal ducato alla lira e poi le vicende del marinaio accusato ingiustamente, dall’avvocato brigante, di un commerciante galantuomo. Otto vite, in un arco di tempo che va dalla rivoluzione francese alla crisi del 1929, ricostruite attraverso atti giudiziari di processi civili e penali riscoperti dopo un lungo lavoro di ricerca e fedelmente riportati al termine di ogni racconto.
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IL DESTINO CAMBIA IN TRE ATTIMI - Padula, 1802/1863- Immacolata, nipote di un commerciante, figlia di un possidente, moglie di un contadino, racconta come per tre volte nella sua vita, passò in un attimo da un destino all’altro.
Nunzia, mia cugina, spostò in un angolo del tavolo la cordicella, la scatola di fiammiferi, il coltello e la lanterna per posare la tazza di latte sul centrino all’uncinetto che le avevo regalato dopo il mio matrimonio. «Bevilo che è ancora caldo e ti fa bene» mi disse mentre rassettava velocemente la stanza. Coprì con il lenzuolo il letto ancora disfatto, chiuse il coperchio del baule che la
sera prima avevo lasciato aperto, sistemò la coperta di lana grezza sulle mie ginocchia, avvicinò il tavolo alla poltrona di stoffa marrone su cui mi ero già seduta e si fermò in piedi davanti a me, reclinando leggermente la testa su un lato, per farmi il solito, aperto, affettuoso sorriso con cui da qualche mese avevo imparato a iniziare le giornate. «Bevi il latte, Immacolata, io vado in
campagna con Rocco. Torniamo presto ché per strada girano ancora i briganti della banda di Tardio. Coraggio, bevilo adesso che è caldo» ripeté uscendo dalla porta che lasciò socchiusa. Io spostai la tazza di latte in un altro angolo del tavolo e rimisi sul centrino la cordicella consunta e arrotolata, i fiammiferi che solo una volta avevo acceso, il coltello lungo con
l’impugnatura d’avorio e la piccola lanterna nera ammaccata alla base. Era tutto quello che avevo. Cose preziose, quanto l’affetto di Nunzia e del marito, Rocco, che mi tenevano a casa loro nella campagna di Sala Consilina. Preziose quanto i soldi, le terre, gli animali e i vigneti che mio nonno lasciò a mio padre e mio padre a mio fratello assieme al palazzo
di Padula in cui non posso entrare più. «Non ti lascerà niente, lo sai» aveva detto mia madre, con le lacrime agli occhi, la sera di tanti anni fa in cui tutto iniziò. «Lo sai com’è la regola». Sì che lo sapevo com’era, la regola. L’eredità va tutta al figlio maschio. Le donne si sposano e si arrangiano. È il marito che deve pensare a loro dopo che il padre o il fratello hanno provveduto alla dote. Mio padre,
Giuseppe, era morto da pochi mesi ma già le cose erano tutte sistemate, le proprietà assegnate, le pendenze appianate. Le terre fuori Padula coltivate a vigna e grano che esploravo meravigliata da bambina; le pecore e i conigli con cui giocavo quando papà mi portava in calesse a fare il giro delle proprietà; le case in campagna così grandi e misteriose dove mi
nascondevo e mangiavo il sanguinaccio mentre squartavano i maiali; il grande palazzo al centro del paese in cui mi ero trasformata da bambina in donna e da figlia in moglie; perfino la mia stanza, quella dove avevo imparato a fare i ricami e l’uncinetto; tutto, ma proprio tutto, era andato a Vincenzo, mio fratello, che aveva accolto l’eredità con inevitabile naturalezza,
come un fiume accoglie il suo affluente. Mio padre aveva ricevuto allo stesso modo case e terreni da suo padre, un commerciante che si era trasferito a Padula nel 1802 e aveva comprato tutte le proprietà prima di sposarsi. La storia era antica. E non c’erano tante parole da dire. Si sapeva che dividere l’eredità ci avrebbe impoverito, mentre era meglio arricchire uno
soltanto: quello tra noi che avrebbe dovuto pensare a tutti gli altri. Vincenzo, infatti, aveva rimesso in sesto i conti: era perfino riuscito a trovare fuori Padula nuovi clienti a cui vendere l’olio e il vino che mio padre non riusciva più a commerciare come un tempo, neppure con i pochi monaci rimasti nella Certosa. Non era facile andare avanti in quegli anni. Ci dicevano che
eravamo diventati italiani ma dal Nord veniva strana gente che parlava una lingua incomprensibile. Tutti discutevano di politica e lucidavano gli schioppi, ma anche se ogni cosa cambiava da un giorno all’altro io vedevo che quelli che erano sempre andati a cavallo continuavano ad andare a cavallo e quelli che erano sempre rimasti a piedi continuavano a rimanere a piedi.
Anche Vincenzo, bene o male, riuscì a farci sopravvivere senza scossoni. E aveva già dato a mia sorella Maddalena la proprietà di un quartino della nostra casa, in aggiunta alla dote che papà le aveva fatto quando si era sposata con don Felice. Il problema ero io. Soltanto io. Perché mi ero voluta maritare con Giuseppe, che si chiamava come mio padre e io lo avevo visto
intrepido quasi quanto lui, ma faceva il contadino e si era messo anche un poco paura a sposare una signorina perbene come me. Il problema ero io che avevo scelto di vivere da povera e allora non potevo chiedere niente, diceva mio fratello, perché papà non voleva quel matrimonio, perché avrei dovuto prendermi uno che poteva mantenermi, perché avevo fatto il solito colpo di testa
rifiutando il marito che mio padre aveva scelto per me, perché ero andata appresso all’amore e mi ritrovavo senza niente, quindi dovevo rassegnarmi alla tempesta che avevo raccolto seminando vento. E allora basta così: forse era meglio se a casa non ci tornavo proprio più. Questo diceva mio fratello Vincenzo. E a suo modo non sbagliava perché in effetti Giuseppe l’avevo
scelto d’istinto, lasciandomi andare, in uno di quegli attimi in cui ti sembra di volare e invece stai precipitando nel burrone. La mia ultima pazzia, come la chiamava Vincenzo, aveva inceppato un meccanismo diventato perfetto dopo il suo matrimonio con donna Olimpia, una signora quasi nobile che veniva da Morigerati. «Tuo fratello non ti lascerà niente e io
non ti posso dare niente» disse mia madre. Non la dimenticherò mai. Era seduta davanti al fuoco acceso sotto la grande cucina di maioliche bianche che sporge dal muro come uno scatolone di mattonelle, lunga e larga quanto basta per poggiarci sopra quello che non sai dove mettere: le pentole vuote, i graticci per i pomodori secchi, lu vantesino, cioè il
grembiule, sporco d’olio. Fece cenno a Serafina, la fantesca, di lasciarci sole, e la mandò con uno sguardo nel vuttaro, la grotta con le botti d’olio, il vino e la farina. Sui grandi fornelli circolari, alimentati da quell’unico fuoco, sotto un’immagine della Madonna, bolliva l’acqua in due pentoloni che il bianco abbagliante delle maioliche rendeva ancora più neri. Mia madre afferrò
il corrimano lucido di bronzo fissato al bordo esterno del blocco della cucina, si sollevò con uno scatto dallo scannitieddo basso su cui era seduta e andò verso il cassetto dello stipo. «Questo però te lo devo dare» disse tirando fuori il sacchetto che teneva nascosto sotto le pezze tagliate dai vestiti vecchi. Dentro c’erano una cordicella arrotolata, un coltello con il manico
d’avorio e una scatola di fiammiferi. «Sono le cose che trovai nel cassetto di mio padre. Quando morì le presi senza dire niente a nessuno. Te le lascio, voglio che le tenga tu». Poi entrò nel vuttaro, prese la piccola lanterna nera che stava sull’ultima botte, tornò in cucina e mise tutto in fila sul tavolo: «La corda è quella che usava mio nonno, un contadino, come cinta per i calzoni.
Serve a non montarsi la testa, a non dimenticare da dove veniamo. Il coltello era di mio padre, lo portava sempre dietro per difendersi. Anche la lanterna e i cerini per accenderla erano suoi. Ti serviranno quando la strada diventa troppo buia». Dall’abbraccio, forte, che mi diede stringendo ancora il sacchetto tra le mani, capii che la mia storia in quella casa
era finita. Dovevo andarmene. E non volevo. Un mese dopo, da casa mia in fondo al vallone, alzai come al solito lo sguardo verso le mura ancora possenti della Certosa di San Lorenzo che mi davano sempre un certo senso di sicurezza. Quel giorno di settembre ero quasi felice. Giuseppe avrebbe portato un po’ di soldi perché era andato a lavorare a giornata, alzandosi dal
letto dove di solito si stendeva malato cinque giorni su sette. Io volevo mettere qualcosa a tavola prima che lui arrivasse. Uscii nel cortile, voltai l’angolo, andai dietro casa e trovai spalancata la porta della baracca di legno in cui tenevamo le galline. Feci di corsa i pochi metri che restavano. Dentro trovai quasi tutte le uova rotte e soltanto una gallina viva, le altre tre non c’erano più.
Nell’aria si respirava ancora il fiato fetido degli animali, chissà quali, che avevano fatto quello sconquasso. Gli stessi animali che avevano distrutto l’orto, dove riuscii a salvare solo qualche foglia di cavolo e una melanzana. Mi prese una rabbia così forte che gli occhi vedevano solo cose confuse, il cuore galoppava e le gambe già correvano verso la campagna di mio padre mentre io tenevo
con le mani la gonna sopra le caviglie. Ci misi un attimo a passare da un destino a un altro. Come al solito. Anche quella volta decisi in stato di incoscienza. E mi trovai all’improvviso, soddisfatta e furiosa, in una vita che non era più la mia. Di fatto ero diventata già una ladra quando mi fermai alla fine del sentiero, ansimante e piegata in due, di fronte al cancello del fondo dove
giocavo con mio padre. Lo aprii. Entrai. Vidi l’orto e i filari della vigna. Mi tolsi il grembiule e ci misi dentro tutti i cavoli e i grappoli d’uva che riuscii a raccogliere. Me ne andai senza più correre, fiera di me. Fuori al cancello trovai Emma Rosa, una vecchia amica, che mi guardò come se fossi una ladra. Le risposi, sprezzante, prima ancora che parlasse: «Fatti i fatti tuoi. La terra è pure
mia. Questa roba è pure mia». A casa apparecchiai come piaceva a Giuseppe: una zuppa di cavoli, una bella frittata e una montagna di grappoli d’uva, con la mezza bottiglia di vino che ci era rimasta. Conservai la melanzana per il giorno dopo. Ero soddisfatta. E furiosa.
Il destino cambia in tre attimi
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Recensioni
“Il destino cambia in tre attimi” recensito da Il Messaggero:
“Il destino cambia in tre attimi” recensito dal Notiziario Tiburtino:
Notiziario Tiburtino – Ottobre 2013
“Il destino cambia in tre attimi” recensito da Il Gazzettino: