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  • IL SOLDATO FERITO Damasco, Siria. Gennaio 2014.

    Era un uomo quello? Sdraiato sul letto, gli occhi fissi al soffitto, Mohammed non riusciva a scacciare dalla mente quell’immagine, quel volto che gli dava il tormento anche mentre dormiva: non era un uomo, era un diavolo, un demonio, ecco che cos’era. «Allah, salvami!». «Zitto». Da quando lo avevano portato, il suo compagno di stanza non la smetteva di

    lamentarsi. «Delira» gli aveva spiegato un’infermiera: «È colpa dell’anestesia, non preoccuparti, non durerà molto. Prima che faccia notte gli passerà». Si era girato a guardarlo, per un attimo aveva pensato di conoscerlo, magari era un soldato come lui, uno del suo battaglione. Invece non l’aveva mai visto prima. Era molto giovane. Aveva dei tagli sul viso, un braccio

    ingessato e, dove prima c’era la gamba sinistra, un moncherino. Una mina, aveva pensato Mohammed, è saltato su una mina e hanno dovuto amputargli la gamba. Poverino, chissà se lo sa già, e come ne soffrirà quando sarà sveglio. Quasi inconsciamente si era concentrato sui farfugliamenti del ragazzo, aveva cercato di capire se chiama qualche nome,

    se raccontava qualcosa di quel che gli era capitato. E invece aveva colto solo frasi sconnesse di un deliro senza senso, non c’era niente in quei borbottii che riuscisse a togliergli dalla testa i suoi brutti ricordi. «Allah, salvami». «Piantala». «Allah, ti prego». «Piantala, ti ho detto». Quei lamenti lo facevano andare fuori di testa. Quella parola, Allah, sembrava conficcarglisi nel cervello. «Allāhu Akbar,

    Allah è il più grande», non era così che aveva detto quel demonio? «Allāhu Akbar», sì, proprio questo. Non voglio pensarci, ti prego, non voglio pensarci, ma ormai lo squarcio nella sua mente era stato aperto, ed ecco che l’incubo prendeva forma e adesso non si vedeva più in quel letto, ma alla periferia della città di Homs, in una buca grigia. Era stata una bomba, o forse una mina.

    Su quel che era accaduto Mohammed aveva ancora le idee confuse, non aveva avuto il tempo di rendersene conto, di capire qual era stata la causa del disastro. Sapeva soltanto che all’improvviso c’era stata una fortissima esplosione. E che subito dopo non era più sulla strada a camminare chiacchierando con i suoi compagni, ma in un fosso. Si rivedeva ancora lì,

    supino, le gambe doloranti. Non aveva perso i sensi, questo no. Ma avrebbe tanto preferito che fosse successo, anche se, a pensarci bene, se fosse svenuto in quel momento forse poi non ci sarebbe stato più niente da riportare penosamente alla memoria, probabilmente sarebbe morto, e da un pezzo. Con fatica era riuscito a girarsi su un fianco, ed era stato allora

    che lo aveva visto, il demonio. Pochi metri più in là giaceva il corpo di un altro soldato, uno dei suoi amici. Mohammed lo aveva chiamato più volte nella speranza che gli rispondesse, ma non era successo, e alla fine aveva capito che, lui sì, era morto. Nessun rumore, nessuna voce, nessun segno neanche dagli altri compagni. Trascinandosi con le braccia, era riuscito

    ad arrivare quasi in cima alla buca, ma la terra all’improvviso aveva ceduto e lui era franato di nuovo in fondo, rotolando su se stesso. Una fitta alle gambe gli aveva annebbiato la vista. Poi aveva sentito un colpo improvviso alla schiena. «Allāhu Akbar», un calcio. «Allāhu Akbar», un altro. Il miliziano che l’aveva colpito sembrava uscito da un brutto sogno. Mohammed non lo aveva

    visto arrivare, lì per lì aveva pensato che fosse uno dei suoi compagni, e aveva urlato: «Che c’è? Sei impazzito? Perché mi stai picchiando?». Di nuovo un calcio alle spalle, poi due mani lo avevano afferrato e si era ritrovato sdraiato sulla schiena, faccia a faccia col suo incubo. L’uomo, che adesso lo inorridiva nelle sue visioni da sveglio, portava una fascia nera sulla fronte,

    la barba lunga, aveva gli occhi infuocati. Era vestito come un militare, ma la camicia era strappata, i pantaloni sporchi, luridi come il fazzoletto avvolto attorno al collo. Impugnava un coltello in una mano, gli urlava contro frasi incomprensibili, il viso vicino al suo tanto da costringerlo a strizzare gli occhi per riuscire a metterlo a fuoco. Mohammed aveva cercato

    di schermirsi, di allontanare quella faccia dalla sua. Il miliziano gli aveva afferrato un polso e lo aveva costretto ad allungare il braccio con una forza tale che gli era stato impossibile opporgli resistenza. Con un colpo secco del piede, gli aveva rotto radio e ulna. Aveva sentito il rumore delle ossa che si spezzavano, e un dolore talmente forte da perdere i sensi.

    Quando Mohammed era tornato in sé, il demone era accanto al suo compagno morto. «Svegliati» urlava guardandolo con quegli occhi da pazzo. «Svegliati, ti ho detto, voglio che guardi, che lo memorizzi bene quello che sto facendo. Voglio che lo racconti a tutti quelli come te, sporco soldato di quel figlio di cane di Assad». «Lascialo stare, non vedi ch’è morto?

    Non può più farti niente» gli aveva urlato Mohammed. O almeno aveva creduto di farlo, perché le parole non erano uscite dalla sua bocca, e il barbuto aveva strappato la giacca a quel povero soldato e gli aveva piantato il coltello nel petto continuando a urlare: «Giuro che vi mangeremo a tutti il cuore e il fegato, fottuti soldati di Bashar il cane». Di quello che era

    successo dopo ricordava poco o niente. Non sapeva come fosse arrivato in quella stanza, non aveva nessuna idea di chi lo avesse soccorso. Un’infermiera gli aveva detto che si trovava a Damasco, a Tishrin, nell’ospedale militare per i feriti di guerra. Aveva le gambe fasciate, il braccio ingessato e al suo fianco c’era il soldato senza gamba. «Allah, aiutami».

    «Piantala». «Allah...». «Ora basta». Non ne poteva più di quei lamenti, ancora un altro po’ e sarebbe impazzito. Si scoprì, cercò di mettersi a sedere, ma da solo non ci riusciva. Stava per chiamare «infermiera!», quando la scorse accanto alla porta, in piedi, il cappotto lungo a coprirle i fianchi, sotto il velo due occhi lucidi ma calmi. Da quanto non la vedeva? Quanti giorni erano

    passati, quanti mesi? L’ultima volta che aveva salutato sua moglie, lei aveva il pancione, aspettava la loro bambina. Era stato tre anni prima. L’aveva abbracciata sulla porta di casa rassicurandola, le aveva promesso che il giorno del parto – cadesse il cielo – lui ci sarebbe stato, che nulla al mondo avrebbe potuto tenerlo lontano dalla nascita della sua

    primogenita, e che tanto sarebbe finita presto, il tempo di sedare le proteste, poi il governo avrebbe fatto le riforme che il popolo chiedeva a gran voce nelle piazze e tutto sarebbe tornato come prima, forse anche meglio di prima. Su quell’uscio l’aveva abbracciata per l’ultima volta, sfiorandole con una mano la pancia. Un bacio veloce ed era scappato via,

    e non era più tornato. «Amira...», le parole soffocate in gola. «Va tutto bene, Mohammed, sono qui». «Mi dispiace...». «Non pensarci. Nostra figlia sta bene, ti chiama sai? Ogni sera bacia la tua fotografia prima di addormentarsi». Non era andata come aveva immaginato, come loro due avevano sperato. Nel marzo del 2011, dopo che migliaia di persone avevano iniziato a

    manifestare in molte città della Siria per chiedere libertà e democrazia, il soldato Mohammed era stato richiamato in servizio. I militari erano stati inviati in ogni città per spegnere le rivolte, fino a quando da Damasco era arrivato l’ordine di sparare sulle folle che stavano violando il divieto, sancito per legge, di protestare nelle piazze. Molti soldati avevano disobbedito, diventando

    disertori, ma la maggior parte aveva imbracciato il fucile. Il bagno di sangue aveva suscitato reazioni ancora più aspre, nelle città erano nati comitati rivoluzionari spontanei che incitavano a lottare per la libertà, i manifestanti si erano trasformati in ribelli e molti studenti, che fino a quel momento avevano fatto propaganda nelle università, in guerriglieri. Poi erano arrivati gli

    stranieri. Dai confini con la Turchia e l’Iraq migliaia di islamisti, molti dei quali legati alla rete terroristica Al-Qaeda, erano entrati in Siria portando con sé soldi e armi. Si erano uniti ai dissidenti nella battaglia contro il regime del presidente Bashar al-Assad, ma il loro obiettivo era un altro, e fu presto chiaro. Tre anni dopo l’inizio del conflitto, a Damasco giungevano

    notizie inquietanti dai territori di confine e dalle città conquistate dai jihadisti. I villaggi venivano assoggettati alla legge islamica, i commercianti frustati in piazza per non aver rispettato gli orari delle preghiere, i bambini rapiti e usati come scudo contro le forze governative, le quali nel frattempo bombardavano città, scuole, ospedali. Intanto la comunità internazionale

    lanciava l’allarme: in tre anni di guerra, oltre due milioni e mezzo di persone erano state costrette a lasciare le proprie case, a scappare dalla Siria, e versavano in condizioni terribili nei campi allestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati negli Stati confinanti: Turchia, Libano, Iraq, Giordania. I morti avevano ormai superato il numero di centomila,

    e molte organizzazioni umanitarie avevano lasciato il Paese diventato troppo pericoloso per i loro operatori. Intanto sui campi di battaglia la situazione diventava ogni giorno più complicata. In molte zone l’esercito dei ribelli si stava sgretolando, gli islamisti legati ad Al-Qaeda avevano dato vita a diversi gruppi armati che si scontravano l’uno con l’altro. La guerra civile

    era diventata un conflitto tra bande dove tutti combattevano contro tutti, e anche contro le forze governative del presidente Assad. Ma era una lotta sanguinaria, condotta da uomini, soldati, ribelli o jihadisti, che sembravano aver perso ogni briciolo di umanità. La follia regnava ovunque, e le immagini e i racconti dei crimini commessi dalle varie parti in lotta facevano

    rabbrividire il mondo.

    Il confine sminato

Il confine sminato

Cronache da Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Sud Sudan, Bosnia ed Erzegovina, Italia

Collana: I Saggi

Pagine: 144

ISBN: 9788896350416

Disponibilità: Ottima

Prezzo: 10.00 

Con una testimonianza del giornalista Rai Franco Di Mare

Scende giù dalla collina stringendo a sé la sua bambina morta. La testa poggiata sul petto come se stesse dormendo, un braccio abbandonato lungo un fianco, i folti capelli raccolti a coda, all’estremità della gamba destra il piedino mancante.

Tamara Ferrari è una giornalista curiosa e intraprendente. È una donna di frontiera che, prima di raccontarla, ha imparato a viverla, la guerra, percorrendo le distese desolate dei campi profughi in Africa, leggendo l’orrore nell’espressione impaurita degli orfani e sentendo i gemiti dei piccoli scampati alle esplosioni in Medio Oriente. In questo libro, tratteggia storie che sono la diretta conseguenza della barbarie e dell’odio, affidandosi anche agli occhi di un militare italiano, specialista nel mettere in sicurezza i campi minati, convinto per esperienza personale che un genitore non dovrebbe mai seppellire un figlio. Così la pensano anche i parenti di Homa e Makema, due bimbette consumate da stenti e malaria in un accampamento di rifugiati. Lo afferma con forza Zuhur, padre di una studentessa saltata in aria su un pullman finito nel mirino dei terroristi. Lo sostiene Ahmet che piange i cinque maschi di famiglia, trucidati dopo essersi arruolati in fazioni contrapposte. A tutti fa eco Dimitri che compie un viaggio all’inferno, schivando proiettili e pregiudizi, pur di riportare il suo ragazzo a casa. Ed è ciò che sembrano suggerirci queste pagine: sulla linea spessa del dolore, là dove è passato il vento della follia umana, svanisce il confine che distingue razze, culture, religioni.

Tamara Ferrari è originaria di Altilia, in provincia di Cosenza, ma ha vissuto anche a Perugia, Roma e Milano. Giornalista, ha iniziato come cronista di nera in Calabria, ha lavorato al quotidiano Avvenire e al Tgcom, ha scritto per diverse testate italiane (Anna, Elle, Glamour, Libero) e per America Oggi, il giornale degli italiani a New York. Dal 2006 è approdata a Vanity Fair, versione italiana della storica rivista americana, dove lavora nell’ufficio centrale di Milano e cura la rubrica on line Malanova, quando non è inviata nei teatri di guerra di tutto il mondo. Nel 2005 è stata autrice dello scoop mondiale sul risveglio di Salvatore Crisafulli, un uomo in stato vegetativo permanente. Da quella esperienza è nato il libro Con gli occhi sbarrati (L’Airone 2006).

Franco Di Mare, giornalista Rai e scrittore. Ha seguito, da inviato, la maggior parte dei conflitti degli ultimi vent’anni.

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Recensioni

Anteprima del capitolo “La collina triste” su Tgcom24

“Il confine sminato” al Salone del libro di Torino. Assieme all’autrice, Tamara Ferrari, il giornalista e scrittore Paolo Pasi e il geniere Davide Campisi di cui si parla nel libro:

Tamara Ferrari parla del libro “Il confine sminato” a Unomattina Caffè Rai Uno:

“Il confine sminato” a Segnalibro:

“Il confine sminato” su Videonews:

“Il confine sminato” a Radio Base:

“Il confine sminato” a scuola:

Tamara Ferrari vincitrice del Premio Giornalisti del Mediterraneo 2014:

“Quello che non ho visto” sulla Rivista Vanity Fair

“Davide, che ha perso sua figlia (ma salva tanti bambini)” sulla rubrica di Tamara Ferrari Malanova di Vanity Fair

“Libri, Il confine sminato: da Sarajevo a Stromboli passando per la Siberia” di Lorenzo Mazzoni su ilfattoquotidiano.it

“I confini dell’anima” di Sebina Caruso su chairmag.it

“Tamara Ferrari e Il confine sminato” di Sara Missorini su esserciweb.com

“Il confine sminato” sul Settimanale Gioia

“Il confine sminato” su senzabarcode.it

“Il confine sminato, racconto della guerra dopo la guerra” sul blog della Feltrinelli Messina