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  • Era di nuovo una giornata molto calda. Di un caldo afoso, estenuante. In casa non si sentiva un refolo d’aria neppure a pagarlo oro. E, ad aprire la finestra, Pietro Mattei non ci pensava nemmeno; sarebbe stato come mettersi volontariamente davanti alla bocca di un forno spalancato ed essere annientato dalla sua vampa. Durante l’intera mattinata non era uscito

    neanche per andare a comprare il giornale e aveva lavorato veramente poco, quasi niente, al romanzo sul quale si dannava ormai da diversi anni. L’indolenza di quelle ore, che di sicuro gli derivava dal grande caldo, lo metteva di fronte a un forte imbarazzo; lo stesso di chi, giunto senza rendersene conto a un bivio, si guarda intorno sperando nell’arrivo di

    qualcuno o di qualcosa che lo obblighi a prendere una direzione certa e lo tolga così dall’impaccio di dover fare in prima persona una scelta che si avverte come superiore alle proprie capacità del momento. Eppure il rimedio che gli avrebbe permesso di vincere la sua indolenza c’era, ed era rintracciabile in un vago sentimento morale che in quei periodi di noiosa inattività

    gli rammentava la fortuna di cui godeva: Pietro Mattei era un uomo che aveva fatto sempre e solo il mestiere che si era liberamente scelto. Ne era consapevole in pieno; ciò lo costringeva a fare i conti con il grande privilegio di cui godeva e quindi, quando gli capitavano giornate di astenia simili a quella nella quale stava scivolando adesso, la sua coscienza critica faceva

    capolino per costringerlo a ricordarsi che non era lecito per lui continuare a starsene così, senza scrivere neanche una riga. L’unico modo per vincere la grave prostrazione in cui stava precipitando era dunque chiamare a raccolta tutto quello che poteva della sua residua forza di volontà e costringersi a fare almeno il minimo indispensabile per non permettere a

    quell’inopportuna apatia di rendergli del tutto improduttiva la giornata. Un’altra questione, di non poco conto, premeva sulla sua coscienza: le vacanze di Adele. Anche su questa faccenda non poteva far finta di niente, e doveva considerare con obiettività di essere stato proprio lui ad aver tanto insistito perché sua moglie partisse da sola. «Sai, cara, rimanere per un po’ solo

    in città mi permetterebbe di utilizzare appieno quest’ultimo mese d’estate e di andare avanti con più lena nella scrittura del libro. Chissà che questi giorni non siano davvero quelli decisivi. Vai, vai tu al mare e non preoccuparti per me. Pensa che forse metto la parola fine a questo benedetto romanzo e non se ne parla più» aveva detto a sua moglie quando lei, tutta contenta,

    gli aveva riferito della sorella Leda che li aveva invitati ad andare a trovarla per passare qualche settimana insieme con la sua famiglia nella bella casa affacciata sul Tirreno. Non le aveva mentito, e di questo Adele era sicura. Ma aveva accampato una di quelle scuse difficili da confutare per chiunque fosse stato meno perspicace della moglie. Da un po’ di tempo – più o

    meno da quando il suo nuovo romanzo aveva cominciato a porgli seri problemi – Pietro amava considerarsi uno scrittore «in qualche modo proustiano». Era un vezzo, niente di più, e neppure lui ci credeva per davvero, però s’era pian piano persuaso che fosse meglio lavorare in piena solitudine e nella totale assenza di ogni palpito vitale, di ogni respiro che non fosse

    unicamente il suo. Col passare dei mesi quel pensiero si era così radicato in lui da fargli ritenere che l’estate fosse per il suo lavoro un po’ come la notte era per Proust. Silenzio, atmosfera rarefatta, quiete assoluta rappresentavano le migliori condizioni per scrivere in tutta tranquillità. S’era tanto convinto di ciò da arrivare a pensare che il silenzio, la solitudine,

    un rallentamento generale della propria esistenza, anche rispetto al mondo di fuori, potessero aiutarlo a trovare finalmente la giusta e definitiva concentrazione per dedicarsi completamente al suo ultimo libro. In poche parole aveva bisogno che il suo lavoro non lasciasse spazio a nient’altro, vacanze comprese. Questo fu ciò che disse alla moglie cercando di spiegarle

    i motivi per cui preferiva rimanersene a casa piuttosto che andare al mare e trascorrere anche lui qualche settimana con Leda, Roberto e i due ragazzi, Andrea e Luca, che non vedeva da tanto e che ormai dovevano essere diventati dei giovanotti. Per carità, gli sarebbe piaciuto, e tanto. Ma per quell’estate non era davvero possibile. Adele, che lo conosceva bene come nessun altro,

    sapeva che era solo una strategia a cui Pietro ricorreva per proteggersi dal timore, che ogni tanto lo assaliva, di bloccarsi in maniera definitiva di fronte a un progetto che lo stava impegnando da molto tempo. Non era la prima volta che alzava un muro difensivo. Altre volte la strategia per prendere tempo e diluire, fino a farle scomparire del tutto, le incertezze, le indecisioni, le

    valutazioni ipercritiche sul proprio lavoro si era fermata a soluzioni banali e dopotutto indolori: cambiare la macchina per scrivere o la marca delle risme di carta oppure la tastiera del computer. Roba, in sostanza, da tipica nevrosi professionale. Ma quando Pietro chiamò in causa addirittura Proust, Adele capì che il progetto in cui il marito s’era lanciato rischiava di minare

    le basi di una autostima costruita pazientemente, pezzo dopo pezzo, libro dopo libro, in decenni di lavoro. Il romanzo di Gianni, come Pietro aveva provvisoriamente intitolato quel libro infinito che si portava dietro da almeno cinque anni (senza considerare gli innumerevoli periodi di riflessione, discussioni e ricerche che gli dedicava praticamente da sempre),

    avrebbe avuto come sfondo quasi un secolo di storia d’Italia. L’impresa non era da poco e, per scaramanzia o per pudore, Pietro ne aveva sempre parlato con tutti in maniera piuttosto generica. Pur di non addentrarsi troppo nei particolari, ogni volta che ne accennava si limitava a girare intorno al suo progetto facendo i nomi di Giuseppe Rovani, di Ippolito Nievo, di Riccardo

    Bacchelli per dare dei punti di riferimento capaci di spiegare «grosso modo» (diceva proprio così) l’ambizione del suo romanzo. Adele capiva fino in fondo che quel libro rappresentava un impegno da far tremare le vene e i polsi anche a uno scrittore dall’esperienza solida come quella di suo marito e che per Pietro era fonte del terrore che, almeno una volta nella vita, prende ogni

    scrittore: non essere all’altezza del compito che ci si è dato. Così, quando tirò fuori la storia del suo «proustismo» e il suo bisogno totale di quiete – che sintetizzò nell’azzardata analogia tra estate e notte – Adele, con un sorriso accattivante e un’aria solo in apparenza svagata, gli ricordò che lui, però, non soffriva d’asma come il grande scrittore francese. In risposta a

    una considerazione neanche troppo pertinente (ma che c’entrava l’asma di Proust?), buttata lì in maniera da sembrare del tutto casuale, Pietro non riuscì a opporre nessun ragionamento capace di portare, come si dice, acqua al proprio mulino. Contro Adele le sue fisime non avevano alcuna possibilità di scampo e, volente o nolente, i suoi dubbi dovevano

    durare poco. Ma oggi, in questa giornata così sfibrante, fiaccato da una temperatura inumana, anche lui aveva finalmente ingaggiato una sua personale battaglia per vincere la fame d’aria che l’afa sembrava procurargli e che neppure il ventilatore acceso riusciva a placare. Va bene che non era l’asma di Marcel Proust ma, che diamine, perché sottovalutare la fame d’aria

    di Pietro Mattei? Sorrise tra sé, contento di questa sua trovata. Quando Adele sarebbe tornata dal mare, avrebbe ripreso la discussione in questi nuovi termini dialettici. Quale battuta si sarebbe inventata Adele per incastrarlo di nuovo? Per avere una risposta bisognava però aspettare ancora qualche giorno, e nel frattempo lui non riusciva a combinare

    nient’altro se non ciondolare tra il bagno – dove trovava qualche attimo di refrigerio mettendo le mani sotto il getto dell’acqua, per poi passarsele sul viso e sul collo – e il divano amaranto del suo studio, sul quale cercava la promessa di una immobilità capace almeno di risparmiargli il fastidio che gli derivava dal sudare così copiosamente. Cosa per lui molto imbarazzante,

    nonostante fosse solo in casa. Comunque persisteva nella sua mente un pensiero su cui c’era poco da equivocare: qualcosa bisognava pur farla, anche se la volontà, da sempre la sua dote migliore, sembrava ora essersi dissolta con quel gran caldo. Non ebbe allora altra alternativa che quella di ricorrere alla consueta strategia del meglio poco che niente, residuo di

    saggezza popolare a cui si affidava per motivi riconducibili più al bisogno di placare l’ansia che all’esigenza di rispettare una precisa tabella di lavoro. Gli sembrò sufficiente la veloce e superficiale lettura di quanto, con grande fatica, aveva già scritto nei giorni precedenti (una piccola correzione qua e là gli aveva risollevato il morale) e un rapido sguardo

    agli appunti per il prossimo capitolo. Nella speranza che l’indomani portasse una temperatura più accettabile, meno sfiancante. Ridata così tranquillità alla sua coscienza, si rimise comodo sul divano. Una rilassante musica di sottofondo e il rumore del ventilatore, che girava quasi inutilmente considerati gli scarsi risultati prodotti

    , gli sembrarono la colonna sonora ideale con cui dare una parvenza di senso alle ore, altrimenti vuote, che gli si aprivano davanti. Abbandonata ogni resistenza muscolare e cerebrale, si lasciò andare del tutto all’abbraccio di quell’aria immobile e cominciò a fantasticare. Il caldo e la luce, che fuori doveva essere di sicuro accecante, condizionarono il suo sogno a occhi aperti.

    Immaginò di essere un europeo in viaggio per il Mediterraneo; un ricco europeo contagiato dal mal d’Africa che dilapidava il proprio patrimonio vagando da un albergo all’altro tra Egitto, Tunisia, Algeria, Marocco. Le immagini che gli scorrevano davanti promettevano di rendergli dolce e meritato il suo ozio, almeno così Pietro cercava di illudersi. Sprofondò

    ancora più comodamente, per quanto la sua altezza glielo consentisse, nel divano. La musica, che teneva a volume basso, e il ronzio del ventilatore facevano da accompagnamento a una vera e propria dissolvenza. Pietro si sentì scivolare piano nelle atmosfere che ora gli giungevano, nel caldo della sua casa, dalle innumerevoli letture dei resoconti di grandi

    viaggiatori e dalle memorie di faccendieri senza scrupoli. Di alcuni scrittori e delle loro opere che, in tempi diversi della sua vita professionale, aveva considerato opportuni esempi a cui ispirarsi, a stento ricordava nomi e titoli. Con le sole eccezioni di Paul Bowles e del suo Il tè nel deserto, di Naghib Mahfuz e della sua splendida trilogia della città del Cairo. E, ovviamente, di

    Lawrence Durrell e dei suoi quattro fascinosi romanzi dedicati ad Alessandria d’Egitto. Perso dietro i suoni e i colori, l’intrico di stradine serpeggianti come viscere, il vocio inesausto dei bazar, per il resto della mattinata non aveva fatto più nulla. Persino cucinarsi un piatto di pasta, arrivata l’ora di pranzo, gli era stato davvero impossibile. La sola idea di avvicinarsi, anche se per qualche

    minuto appena, a una qualsiasi fonte di calore, fosse pure un fornello acceso, si era rivelata per lui motivo di sconforto. Quel che forse lo consolava era la consapevolezza di non essere il solo a sentirsi oppresso da quell’afa. L’alta pressione stazionava sull’intera città ormai da settimane. Dal primo sorgere del sole fino al suo tramonto era come un’unica canicolare

    controra pomeridiana. Sole e poi ancora sole. Luce accecante. Le strade e la piazza del quartiere completamente deserte. Dopo giorni resi interminabili da una temperatura inumana, si andava avanti con l’unica speranza di poter archiviare quanto prima quella calura in cui ogni cosa, uomini animali paesaggio, appariva immobile e ormai priva

    di un qualsiasi barlume di vitalità. Ma nessun tangibile segno di cambiamento imminente si profilava ancora all’orizzonte. L’aria era sempre immobile. Non il passaggio di un’automobile né lo schiamazzo di un gruppo di bambini in strada a correre sui loro birocci. Neanche l’abbaiare lontano di un cane, uno di quelli messi a guardia delle vecchie case a un piano

    quasi nascoste tra i pochi alberi, oltre l’ampia curva della strada che scendeva verso la periferia estrema della città e, più in basso ancora, verso il fiume, che ormai doveva essere del tutto evaporato. Nessun suono intaccava quell’atmosfera diventata ormai surreale.

    Ho una storia per te

Ho una storia per te

Collana: Dissensi

Pagine: 176

ISBN: 9788896350225

Disponibilità: Buona

Prezzo: 14.00 

«Tutto sta nell’intendersi sul vero significato della parola partigiano» Beppe Fenoglio

«Mi sono affidato alla tua giovinezza quasi come a una impossibile occasione per rivivere ogni cosa dall’inizio. Un’idea folle, me ne rendo conto. Mi sono aggrappato a te per rifare in qualche modo il mio cammino; per essere ancora e sempre io con le mie passioni e con le mie scelte. In tutto uguale a me stesso. In tutto, tranne che in quello sparo».

Che occhi ha il passato? Quelli di Duilio Foresti, 80 anni, ex proiezionista di un cinema di quartiere, nome di battaglia Lupo. Ma anche gli occhi di Amedeo Biagianti, maresciallo dei carabinieri, vittima di un’imboscata dei partigiani. Gli sguardi dei due s’incrociano nell’istante successivo allo sparo che unisce i loro destini. L’esistenza stessa di Duilio si cristallizza a quel momento. Ora la sua trentennale amicizia con lo scrittore cinquantenne Pietro Mattei viene scossa da quella rivelazione, che sembra rimbalzare da uno dei tanti romanzi della Resistenza su cui Pietro si è formato. Ma questa è tutta un’altra storia, questa è “la vita nuda, tremenda, lacerante e meravigliosa, che a volte la scrittura coglie ma da cui, altrettanto spesso, protegge”.

Ho una storia per te è un romanzo emozionante su un periodo decisivo per le sorti d’Italia, una narrazione privata capace di svelare destini più grandi, legando la parabola di un’amicizia a quella più ampia di una nazione. E il testimone, alla fine, passa da una generazione all’altra, per permettere alla verità di diventare racconto «in questo tempo così infastidito dalla memoria, in questo Paese che rischia di allontanarsi dalle certezze che la Storia gli ha offerto».

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Recensioni

«Attilio Coco scrive un romanzo avvincente che fa capire quanto
un’amicizia possa muovere le fila di un racconto» (la Repubblica)

«Lo stile liscio e scorrevole di una narrazione storica, uno stile anche
molto coinvolgente» (Fahrenheit RAI Radio3)

“L’odore della polvere da sparo” recensito su Le monde diplomatique- Il Manifesto.

“L’odore della polvere da sparo” recensito da Tullio Bugari.

“L’odore della polvere da sparo” recensito dalla Gazzetta del Mezzogiorno.

“L’odore della polvere da sparo” recensito da Suditaliavideo.