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  • I vetri smerigliati della porta di casa erano ancora coperti di condensa notturna. Denis uscì, inalando forte fino a far pizzicare le narici. Non aveva dormito più di un paio d’ore per il fuso orario da smaltire e sentiva il bisogno di camminare, di inerpicarsi sul sentiero tra le rocce per seguire l’insistente frastuono che giungeva dal pendio. L’aria profumava di terra

    bagnata. Alberi spogli nella foschia, borghi isolati e comignoli fumanti. Oltre la boscaglia, un assemblaggio di lamiere arrugginite formava uno scivolo che seguiva il dislivello del terreno. In alto, quattro uomini infilavano tronchi che ruzzolavano tumultuosi a fondovalle, dove altri li accatastavano. Denis si cacciò due dita tra i denti e fischiò, sfidando il rombo della motosega.

    Gli uomini si fermarono e ci misero un po’ prima di riconoscerlo. Il primo ad abbracciarlo e a fargli le condoglianze fu Valter, la fronte nascosta da un berretto di lana. Anche gli altri gli si fecero intorno: erano sinceramente dispiaciuti per l’improvvisa morte di suo padre: «Veniva ad aiutarci quasi ogni giorno». «Ne avete fatta di legna!» disse Denis indicando le due cataste

    alle sue spalle. Valter frugò nel taschino del giubbotto e si accese una sigaretta annuendo: «Siamo partiti dalla vetta. Questa legna viene da su. Ci abbiamo messo due mesi e ottanta litri di miscela per le motoseghe... Dall’Argentina sei tornato? Piero mi diceva che eri lì a fare il vino...». «Sì, in una finca a millecinquecento metri, nel deserto del nord, un annuncio trovato su

    internet». Denis voltò lo sguardo e Valter lo scrutò. Era tosto quel ragazzo l’aveva visto crescere, trasferirsi in città e laurearsi in Chimica a pieni voti. Aveva rifiutato lavori nelle migliori aziende farmaceutiche per un master in enologia. «È importante che uno dei miei figli cominci a darmi una mano con le vigne» era stato l’auspicio di Piero quando Denis aveva finito

    il corso. E invece lui aveva preferito girare il mondo seguendo le stagioni dell’uva, entusiasta ma con occupazioni irregolari. Valter si grattò la barba sudata cosparsa di segatura, il ragazzo non ascoltava più, fissava il panorama collinare che si apriva davanti a loro: «Dev’essere stato bellissimo qui, ai vostri tempi». «Non c’era niente, solo tanta fame e non la

    rimpiango». «Già. Verrai alla veglia stasera?». «Certo». Gli uomini ripresero a segare tronchi e Denis tornò sui suoi passi, fermandosi davanti al portico. Costruita senza permessi né architetti, sghemba, mura di pietra e travi di legno, quella casa mezzadrile, per generazioni abitata dalla famiglia Zen, era stata riscattata da suo padre dopo vent’anni di lavoro in

    Belgio. Piero aveva concepito quel sogno quando si era reso conto di non avere futuro in miniera, mentre in valle la miseria sembrava ormai un ricordo della sua infanzia. Una vasta zona industriale si era radicata a ridosso della nuova tangenziale e la possibilità di trovare occupazione in paese era diventata concreta: avrebbe avuto uno stipendio e un campo

    incolto da decenni. Ora quella terra era scura, solcata dalle continue impronte del trattore, le ultime tracciate da suo padre. Poco oltre, le vigne si stendevano incerte, sorrette da pali di legno per lo più marci. Piero curava quei filari producendo un mosto mediocre che in due stagioni voltava in aceto. Denis sfiorò le piante sofferenti. Da tempo la sua

    vita gli appariva come una scala rotta, inciampava in un continuo vagare senza senso, forse era il momento di fermarsi, di curare quella terra e provare a fare un buon vino La bara aperta occupava il centro del soggiorno; per farcela stare avevano spostato il tavolo contro il muro. Gli infissi erano sbarrati. Una fila di lumini irradiava una luce opaca nella stanza.

    Sua madre lo vide entrare in cucina, preparò una moca, mise il caffè sul fuoco e si sedette sulla poltrona di fronte al televisore. Denis fece colazione seguendo con lo sguardo il disegno a fiori della tovaglia. Masticava lento. Dopo mesi di assenza, e con Piero in una cassa di legno, comunicare non riusciva a nessuno dei due. La madre era sempre stata una donna energica,

    ma ormai d’inverno le sue uscite si limitavano a faccende banali, come dar da mangiare a gatti e galline o raccogliere i radicchi nell’orto. Denis mal sopportava la sua apprensione, le futili angosce di quella donna che tuttavia ora si ritrovava davvero sola, lontana dalla sua terra e da parenti sbiaditi anche nella memoria. Dopo otto anni di matrimonio aveva

    abbandonato il Belgio e il plumbeo paese natio: Piero voleva tornare in Italia. E subito Claire aveva sognato, a occhi aperti, la casa colonica da sistemare nel villaggio del marito, un borgo abitato da gente riservata e dura. I primi anni furono un trauma, con il suo uomo sempre a saldare tubature, a stampare tondelli di plastica o a lavorare nel campo. Un giorno, dopo

    aver saputo che Piero era cardiopatico, Claire si era sfogata con Denis, inchiodandolo durante una delle sue brevi soste a casa, in attesa di una destinazione: «Cosa succederà se dovesse mancare tuo padre?». «Non cambierà molto finché ci sarai tu». «E dopo?» «... e dopo? È una domanda insulsa. Non sappiamo cosa ci capiterà fra due ore...» «Hai ragione».

    Un’assenza si misura nel tempo, lo sapevano entrambi. Sarebbe stato così anche ora che Piero li aveva lasciati sul serio e senza preavviso. La tv trasmetteva «Uno Mattina», il volume lo disturbava Sua madre era quasi sorda, non doveva scordarlo. Il disagio si placò al tepore della legna che ardeva nella stufa. Il trillo del citofono annunciò visite e Denis aprì, dopo aver

    riconosciuto la tonaca attraverso il vetro: «Don Antonio!». Il sacerdote allargò le braccia con un sorriso amaro. A Denis, pur non avendo mai frequentato la chiesa, piaceva la sua parlata e la tagliente ironia sottesa alle volute pedanterie pretesche. La prima volta che era passato a benedire la casa, Piero gli aveva confessato: «Mentirei se le dicessi... ma io non credo».

    «È un peccato incontrarsi per una simile disgrazia... Sei stato bravo a tornare subito. So cosa sta per dirmi, ma la funzione la faccio lo stesso». Al cimitero, però, suo padre non ci sarebbe andato. Sarebbe stato cremato, voleva così. Era iscritto a un’associazione che gli spediva anche una rivista per posta. «Don Antonio, si accomodi». «E lì com’è andata, il lavoro era

    buono?». «Sì, tra cantina, vigneti e laboratorio lavoravo dodici, tredici ore al giorno». Delle anime che popolavano la valle, quella di Denis, il più giovane dei tre fratelli, l’unico nato in Italia, senza dubbio era la più irrequieta. Da ragazzo non faceva che studiare e girare per bar e discoteche, al contrario del primogenito Luciano che aveva sponsorizzato la ristrutturazione della

    canonica. «E trovarti un impiego in zona?». «Sono un chimico e di enologi bravi qui è pieno, se imparo ancora forse un giorno riuscirò a sistemare queste vigne». Il parroco corrugò la fronte cercando d’interpretare quelle parole e Denis ebbe la sensazione che stesse incrinando la sua naturale riservatezza per confidargli qualcosa, ma don Antonio strinse le spalle e tacque, lasciandolo

    in sospeso. Denis annunciò a sua madre la visita e si congedò andando a riposare. Ma l’ultimo sguardo, che il sacerdote gli lanciò mentre lui saliva le scale, gli impedì di cadere in quel sonno profondo che cercava.

    Gesti Convulsi

Gesti Convulsi

Sul palco e nella vita

Collana: Dissensi

Pagine: 144

ISBN: 9788896350300

Disponibilità: Ottima

Prezzo: 10.00 

La bellezza sarà convulsiva o non sarà. André Breton

Camminava tra i faggi quando si fermò, chinandosi incredulo a terra. Ai suoi piedi, tra germogli di edera e cortecce spezzate, rimirava incantato la forma aggrovigliata su se stessa di una vipera pietrificata. Liberò il sasso dal muschio, soppesandolo con lo sguardo. Era piatto, calcareo, con una lunga venatura di quarzo bianco su un lato. Cristian credeva nei simboli ed era la seconda volta in vita sua che incontrava una vipera simile. La prima era stata quando, a vent’anni, aveva cominciato a scolpire, dopo aver smesso di scrivere e cantare.

Una immaginaria band punk-new wave degli anni Ottanta è il filo rosso che unisce le storie di cinque ragazzi. Che ne è stato di loro? Come se la passano oggi? Amore e gelosia, ricchezza e vuoti interiori, grandi aspirazioni e bieche vendette: cinque vite racchiuse in altrettanti racconti neri che rappresentano un’intera generazione e una società nel suo complesso in Gesti Convulsi. Sullo sfondo, un variegato comprensorio padano veneto-lombardo: una città con il suo bel centro storico, circondata da vallate e paesi di montagna, ma anche dalla periferia diffusa della pianura. È in questo scenario che si muovono Denis, e la sua «notte bianca» a vegliare il padre defunto; Gianni, che perde la testa dietro lo schermo di un pc e la gonna di una donna; Cristian, scultore talentuoso, che mantiene la sua arte vendendo funghi allucinogeni; Federico, diviso tra amore e conformismo; Ilario, ricco ciclista dopato figlio di papà, vittima di un ricatto. E se il «no future» fosse diventato il loro futuro? Ma la vita riserva svolte inaspettate.

Alessandro Bresolin (1970) è scrittore, saggista e traduttore. Per Edizioni Spartaco ha curato la raccolta di saggi di Ignazio Silone dal titolo Le cose per cui mi batto e le traduzioni dei romanzi Ambizione nel deserto di Albert Cossery, La principessa del deserto di mezzo di Hamid Skif, Ammazza un bastardo! e La strega mascherata di Colonel Durruti, Il sangue di Fatima di Armand Julia. Il suo primo romanzo, La cirrosi apatica, è stato pubblicato nel 2008 dall’Editrice Zona. Come freelance ha collaborato con Lo Straniero, Rai Radio 3, Il Manifesto, Carmillaonline.

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