Il Quarantotto, una rivoluzione nata in nome della fratellanza dei popoli e trasformatasi in una guerra contro chi «fratello» non era, fu davvero una «primavera dei popoli»? O fu piuttosto un precoce autunno? Rigorosi e di agile lettura, i saggi affrontano l’atteggiamento popolare e del nuovo governo veneziano nei confronti di chi improvvisamente diventava «straniero»; la mobilitazione nazionale slovena a Lubiana e Trieste; le posizioni degli ebrei italiani; il conflitto tra il movimento nazionale croato e quello ungherese; le ambiguità del rapporto tra volontari francesi e rivoluzionari italiani; le trasformazioni dei ruoli di genere quando le donne prendevano le armi; i rapporti tra politica e storiografia ceca e ungherese.
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AUSTRIACI A VENEZIA- di Piero Brunello-
Quando nello spazio pubblico gli uomini adulti diventano fratelli, come avviene nelle rivoluzioni del Quarantotto, qualcun altro diventa nemico? Mi soffermo sul caso veneziano e precisamente sul primo periodo, dalla rivoluzione di marzo alla riconquista delle province venete da parte dell’esercito imperiale agli inizi dell’estate. Le pagine che seguono sono una
variazione sul tema enunciato in quello stesso anno da Carlo Cattaneo: «L’Ungaro voleva esser libero, ma oppressore dello Slavo e del Valacco. Il Viennese voleva esser libero, ma opprimere e lo Slavo e il Valacco, e l’Ungaro stesso e l’Italiano» La variazione consiste in questo: invece di prendere in considerazione i rapporti con un popolo straniero che s’immagina abitare
lontano, esamino gli atteggiamenti verso vicini di casa e famigliari che improvvisamente, per uno sconvolgimento politico, diventano nemici o traditori. Questo invita a cogliere il brusio della strada più che la l’assemblea, e a prendere in esame la prassi amministrativa, poliziesca e penale più che la prosa degli appelli e delle dichiarazioni pubbliche.
1. Miracolo, rivoluzione, tradimento
La caduta del governo austriaco a Venezia nel marzo del 1848 fu inaspettata. La sera della domenica il governatore si affacciò a una finestra che dava su piazza San Marco per annunciare la costituzione, la folla applaudì, la banda militare suonò l’inno imperiale e molti palazzi vennero illuminati in segno di festa. La mattina del mercoledì l’Arsenale era in mano
alla guardia civica e dopo poche ore le autorità austriache sottoscrissero la resa Fin da subito si formarono almeno tre racconti. Il primo diceva che era stato un miracolo della Madonna. Il secondo diceva che si trattava di una rivoluzione politica. Il terzo parlava di tradimento dei funzionari e degli ufficiali. La prima spiegazione si formò a metà giornata di sabato
18 marzo, giorno in cui nella basilica di San Marco fu esposta l’immagine della Madonna, in attesa di celebrare una settimana dopo la data di fondazione della città. Soldati croati spararono sulla folla davanti alla basilica. Ci furono almeno sette morti e una decina di feriti. Sul selciato si contarono trecento pallottole. Ci si aspettava un gran numero di persone uccise, e invece,
miracolo!, le vittime erano meno di quante potevano essere, al momento corse voce che fossero soltanto un uomo e tre ragazzi. Il secondo racconto parlava di rivoluzione. Gli uomini vicini al nuovo governo veneziano vollero subito precisare che quella veneziana era «una rivoluzione politica» fatta «dalla classe intelligente», a differenza di quella parigina che era «una
rivoluzione sociale» fatta «dagli artieri, e dal popolo». Altro elemento di diversità, quella veneziana era una rivoluzione «senza effusione di sangue» il che era vero se si pensava non solo a Parigi, ma anche a Milano. Così però venivano cancellate le persone uccise in piazza San Marco il giorno 18 marzo, tutti di bassa condizione sociale: raccontando com’era stata la rivoluzione, si diceva in
realtà come avrebbe dovuto essere. Il terzo racconto vedeva nella caduta del governo imperiale un misto di inettitudine delle autorità, ingratitudine da parte della popolazione veneziana e tradimento da parte degli ufficiali italiani. Ne è un buon esempio il resoconto pubblicato nel maggio 1848 a Vienna da uno studioso di numismatica appena tornato da Venezia,
dove era vissuto per otto anni. Anton von Steinbüchel, così si chiamava, si era trasferito a Venezia a cinquant’anni dopo aver lasciato l’incarico di direttore del museo di antichità di Vienna, e si era inserito nell’ambiente intellettuale cittadino. Anche Steinbüchel fu felice alla notizia della cacciata di Metternich. Austriaci e veneziani si salutavano per strada e si stringevano l’un
l’altro la mano dicendosi «Siamo tutti liberi, siamo tutti fratelli!». La folla in piazza San Marco mandava evviva all’imperatore. Italia e Austria, sorelle. Poi in piazza comparvero popolani cenciosi e scalzi. Si videro i primi tricolori. Ragazzini pagati dai signori, così racconta Steinbüchel, tirarono pietre ai soldati che davano le spalle alla folla, e che solo allora si girarono per sparare.
La guardia civica avrebbe probabilmente assicurato l’ordine, ma per precauzione Steinbüchel si recò a Padova a riportare a casa il figlio universitario. Due giorni dopo uscì di casa e vide la folla strappare dalle case e dai negozi gli stemmi di latta con l’aquila a due teste, prenderli a calci e buttarli in acqua. Lo stemma sulla sua porta di casa! non ci aveva pensato. Fu un vicino
di casa, amico suo, a toglierla, per precauzione. Steinbüchel sentì spiegare, da persone colte, che la Madonna aveva fatto il miracolo. Dei tre racconti, il primo e il secondo – la rivoluzione e il miracolo – convissero e poterono sovrapporsi l’un l’altro, in ambienti sia borghesi sia popolari. È noto che il legame tra riti cittadini e culto della Madonna è uno dei modi con cui Venezia
mette in scena la propria specificità, ricorda la propria storia e rievoca i fasti della Serenissima. Il terzo racconto invece, filoasburgico, era in alternativa agli altri due, e a Venezia non poteva avere cittadinanza. L’opuscolo di Steinbüchel, stampato in tedesco a Vienna, si poté trovare in vendita a Venezia solo parecchi mesi dopo, mentre la città era assediata. L’erudito
Emmanuele Cicogna, che pure era un uomo d’ordine, scrisse nel suo diario che lo scritto raccontava «la Rivoluzione e la Cessione della Piazza di Venezia con colori assai offensivi per li Veneziani» e voleva far vedere «che Venezia ha bisogno dell’Austria per sussistere».
Fratelli di chi
Fratelli di chi
Libertà, uguaglianza e guerra nel Quarantotto asburgico
a cura di Stefano Petrungaro
Guerre in nome di una rivoluzione