Una raccolta di racconti che si succedono a ritmo serrato, sollevando ripetutamente questioni riguardanti la lingua, la cultura, la società orientale nella sua contrapposizione a quella occidentale, la vita quotidiana, la guerra e il sentirsi «stranieri». Linh Dinh si riallaccia a numerose tradizioni, seppure rielaborate con uno stile del tutto personale: nei suoi racconti è facile intravedere echi delle riflessioni sull’apprendimento linguistico di Elias Canetti e di quelle costruzioni «slegate» rese famose dall’Italo Calvino di Se una notte d’inverno un viaggiatore. Ciò che lascia esterrefatti è la capacità dell’autore di dare forma a un ambiziosissimo progetto fatto di micronarrazioni dalla struttura molto variegata, contraddistinte da uno stile cristallino in grado di sorprendere a ogni pagina.
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PRIGIONIERO CON DIZIONARIO
Fu così che un giovane, messo in prigione, trovò nella sua cella spoglia il dizionario di una lingua straniera. Là dentro era sempre buio e sulle prime non aveva neanche capito che quello fosse un dizionario. Non era un intellettuale e non aveva mai posseduto un dizionario in tutta la sua vita. Però era tutt’altro che stupido; anzi, aveva un carattere che
gli permetteva di vedere in maniera comica anche la più tremenda delle tragedie. Sapeva pure essere molto spiritoso, quando era in compagnia di certe donne. In ogni caso non sapeva che farsene, di quel libro che non valeva quasi niente, se non usarlo come sgabello, o come cuscino. Ogni tanto strappava qualche pagina per pulirsi. Presto, però, così, per noia, decise di
dare un’occhiata al dizionario. I suoi occhi si erano ormai abituati alla luce fioca e, nell’eterna penombra, aveva imparato a distinguere le parole con relativa facilità. Per quanto non conoscesse quella lingua straniera, e non sapesse nemmeno di quale lingua si trattasse, all’improvviso sentì l’impulso di impararla. Il più grande pregio, e la più grande maledizione della
sua vita, era la capacità, una volta deciso di intraprendere un’iniziativa, di portarla a termine. Quel libro rappresentava l’ultimo problema, l’unico problema che avrebbe mai risolto. Il prigioniero scelse, per cominciare, alcune parole a caso, studiando in modo approfondito le loro definizioni. Naturalmente ogni definizione era fatta di parole a lui del tutto ignote. Per nulla
scoraggiato, si mise a cercare tutte le parole che componevano ponevano la definizione: queste lo portarono ad altre parole, ancora più enigmatiche. Per definire «uomo», ad esempio, il prigioniero non dovette cercare soltanto «umano» e «persona», ma anche «pollice» e «opponibile». Per definire «pollice» non solo dovette cercare «corto» e «dito» ma anche «grosso» e poi «di»
e poi «un» e poi «il». Per definire «il» dovette cercare «questo» e poi «un» (ancora) e poi «persona» (ancora) e poi «cosa» e poi «gruppo». Il fatto di restarsene notte e giorno solo nella sua cella, senza alcuna distrazione, permise al prigioniero di concentrarsi tanto che presto riuscì a ricordare e a richiamare alla mente centinaia di definizioni. Il dizionario aveva oltre mille
pagine ma il prigioniero era deciso a memorizzare tutte le definizioni contenute in ogni pagina. Si rattristò al pensiero di aver strappato alcune pagine per pulirsi. Ora esse rappresentavano lacune nella sua conoscenza complessiva. Essendo andate perdute per sempre, non sarebbe mai stato in grado di conoscere tutte le parole di quella lingua. E dire che, ogni mattina, si svegliava
con un’euforia molto vicina a quella di un folle, sempre ansioso di divorare ancora nuove parole. Come succede a molti, acquisendo un vocabolario vastissimo, egli cresceva in conoscenza, e anche in saggezza, e sentiva il proprio valore aumentare, giorno dopo giorno, per non dire secondo dopo secondo. Anche se non sapeva che cosa significassero quelle
parole, o a che cosa si riferissero nella vita reale, era convinto di comprenderle per il solo fatto di conoscere le loro definizioni. E vivendo esclusivamente all’interno di quella lingua, come un feto che cresce nel grembo materno, c’erano momenti in cui si sentiva sicuro di poter cogliere tutti i vari significati di un termine, ad esempio se si riferiva a un animale o a una pianta,
o se indicava qualcosa di positivo o di negativo. Tuttavia le sue intuizioni erano, ovviamente, sempre sbagliate. Dal momento che la parola «vescica» suonava al prigioniero come qualcosa di vasto e indefinito, pensò che dovesse avere a che fare con l’aria aperta: con tutta probabilità si riferiva al tempo, che so, un colpo di vento, una pioggia torrenziale, o magari un
fulmine. «Padre», con il suo tono trascurato ed esasperato, lo faceva pensare alla morte, alla putrefazione, magari un cadavere o un mucchio d’immondizia. Immaginò che «omicidio» fosse un fiore. Pensò che «luglio» significasse agosto. Giustamente, il prigioniero era anche orgoglioso della sua pronuncia, vivace e sicura, ormai stava imparando a mettere gli
accenti sulle sillabe giuste. Se avesse dovuto parlare al telefono, avrebbe potuto essere scambiato per un madrelingua, benché delle classi inferiori. Ciononostante, nella sua certezza di poter apprendere una nuova lingua, egli, senza dubbio, ne stava sacrificando un’altra: aveva infatti dimenticato quasi del tutto le parole della sua lingua nativa. Ormai non riusciva
più a ricordare il nome di qualsiasi parte del corpo, anche quella più semplice, mano, naso, faccia, bocca ecc., tanto che il suo stesso corpo cominciava ad apparire indefinito, impersonale, irreale. Sebbene fosse circondato dalla sporcizia, non ricordava più la parola «sporcizia». L’unica parola che gli veniva subito in bocca, automatica, spontanea, era «prigione»:
era quella, infatti, l’ultima cosa a cui pensava ogni notte, e la prima che aveva in mente quando si svegliava, la mattina. I suoi sogni si erano spogliati di qualsiasi conversazione, di qualsiasi pensiero. Spesso non erano altro che una serie di immagini, o di chiazze immateriali di colore. Talvolta erano fatti unicamente di suoni, una cacofonia prodotta dalla sua stessa voce che
ripeteva frammenti di definizioni. Anche nel peggiore incubo, non riusciva più a gridare «mamma!» nella sua lingua. Tuttavia questa mancanza non lo turbò mai più di tanto, quasi non se ne accorse, convinto che stesse ricostruendo se stesso, daccapo. Essendo stato sputato fuori dal mondo, dall’unico mondo in cui aveva diritto di vivere, pensò di entrare in
un nuovo universo. Forse, purificandosi dalla sua lingua madre, il prigioniero in maniera inconscia, tentava di liberarsi del suo orribile passato dal momento che, in realtà, nella sua lingua nativa non c’era una sola parola che non gli evocasse una qualche orribile esperienza, o umiliazione. Forse aveva l’impressione che la propria lingua nativa fosse lei stessa l’artefice
della sua orribile vita. Ma queste sono soltanto ipotesi, in esse non c’è alcuna certezza. In ogni caso il prigioniero gridava definizioni giorno e notte. Se si fosse premuto l’orecchio contro la spessa porta di ferro, a mezzanotte, lo si sarebbe sentito gridare, ad esempio: «animale dalla lunga coda sottile, comune infestatore di edifici». Oppure «sentimento
profondo e tenero nei confronti di un acerrimo nemico». O ancora «paura trepidante e disgusto uniti a un’intensa avversione per se stessi». Da tutto quell’accumularsi di strane parole e definizioni era forse possibile trarre una qualche conoscenza profonda, una rivelazione? Che cos’è, dopotutto, una rivelazione, se non il faticoso risultato di una mente eccezionale che
lavora al massimo delle proprie capacità? Il prigioniero era felice per il fatto che gli fosse stata data l’opportunità di concentrarsi, senza essere disturbato, per un periodo di tempo così lungo. Lui stesso si sentiva un vincitore che, seppur condannato a una cella vuota, e derubato del mondo, con un eroico atto di volontà aveva ricreato l’universo. Possedeva
(quasi) tutto perché possedeva (quasi) tutte le parole di un’intera lingua. In verità, però, quel prigioniero non aveva riconquistato nulla. Aveva solo pensato che fosse così, naturalmente, perché così doveva pensare. Dopo decenni di incessanti sforzi mentali, l’unico frutto del suo straordinario lavoro, l’unica parola che aveva appreso con certezza, era «dizionario»,
semplicemente perché era stampata sulla copertina di un libro che sapeva con certezza essere un dizionario. E anche quando cercava la definizione di «prigioniero», e la imparava a memoria, neanche allora poteva sapere che, in quel momento, lui leggeva se stesso.
Elvis Phong è morto!
Recensioni
• «In Linh Dinh c’è un senso dell’umorismo mordace, la sensazione incessante e tipica del migrante di non trovarsi al suo posto né qui, né là, né ovunque» (S. Balée, The Philadelphia Inquirer)