Tra il 1839 e il 1840, Dumas, già affermato e prolifico autore teatrale, si cimenta con alcune ricostruzioni di fatti realmente accaduti. Giovanna di Napoli e Nisida sono due dei diciotto Crimes célèbres a cui lo scrittore francese dedicò la sua attenzione. Dumas muove dalla mera cronaca per trasformarla, con penna magistrale, in narrativa: «Tutto ciò che è fatto bruto – scrive Montesano nella sua introduzione – si dilegua, e la letteratura si sostituisce alla Storia». Nelle vicende della regina Giovanna e dell’assassinio di suo marito Andrea d’Ungheria, e nella tragica disavventura della giovane Nisida e di suo fratello Gabriele, che pagherà con la vita l’aver voluto difendere l’onore della sorella dal bieco tentativo di seduzione perpetrato da un principe mascalzone, è anche possibile cogliere i giudizi di Dumas: un biasimo per l’arroganza del potere, che schiaccia e impedisce ogni sentimento autentico e corrompe persino i rapporti più naturali.
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GIOVANNA DI NAPOLI
La notte tra il 15 e il 16 gennaio del 1343, gli abitanti di Napoli, immersi nel loro pacifico sonno, furono destati di colpo dalle campane delle trecento chiese che si trovano in questa felice capitale. Nel colmo della confusione provocata da un risveglio così brusco, tutti pensarono, per prima cosa, che fossero scoppiati incendi ai quattro angoli della città, o che un
esercito nemico, sbarcato di soppiatto con il favore delle tenebre, si apprestasse a far massacro della cittadinanza. Ma i suoni lugubri e intermittenti di tutte queste campane che, rompendo il silenzio a intervalli brevi e regolari, invitavano i fedeli a recitare le preghiere per i morenti, fecero capire in fretta che nessuna sciagura minacciava la città:
solo il re era in pericolo. In effetti, ormai da molti giorni era evidente che una grande preoccupazione regnava all’interno di Castelnuovo: i funzionari della corona erano convocati regolarmente, due volte al giorno, e i grandi del regno, che avevano diritto di accedere negli appartamenti del monarca, ne uscivano oppressi da una profonda tristezza. Benché la morte
del re fosse considerata ormai un evento inevitabile, quando si ebbe la consapevole certezza che si avvicinava la sua ultima ora, tutta la città fu percorsa da un grande dolore, che si comprenderà facilmente quando avremo aggiunto che colui che stava morendo, dopo aver regnato trentatré anni otto mesi e qualche giorno, era Roberto d’Angiò, il re più giusto, più saggio e più
glorioso che fosse mai salito al trono di Sicilia. Egli portava con sé nella tomba il rimpianto e le lodi di tutti i suoi sudditi. I soldati parlavano entusiasmandosi delle lunghe guerre che egli aveva sostenuto contro Federico e Pietro d’Aragona, contro Enrico vii e Ludovico il Bavaro, e il loro cuore batteva forte ai gloriosi ricordi delle campagne di Lombardia e di Toscana; i preti lo
incensavano con riconoscenza, per aver sempre difeso i Papi dagli attacchi dei Ghibellini, e per aver fondato conventi, ospedali e chiese, in tutto il regno; gli uomini di lettere lo consideravano il re più erudito di tutto il mondo cristiano, a tal punto che Petrarca aveva voluto ricevere proprio dalle mani di Roberto la corona di poeta e aveva risposto per tre giorni di fila alle
domande ch’egli si era degnato di fargli, esplorando tutti i campi del sapere umano. I giureconsulti, incantati dalla saggezza delle leggi con le quali il re aveva arricchito il codice napoletano, l’avevano soprannominato il Salomone del medioevo; i nobili si congratulavano per il modo in cui egli aveva rispettato i loro privilegi; il popolo ne
celebrava la clemenza, la pietà, la moderazione. Preti e soldati, eruditi e poeti, nobili e plebei pensavano terrorizzati al fatto che il trono sarebbe caduto nelle mani di uno straniero e di una giovane donna, e ricordavano le parole di Roberto che – durante il corteo funebre di Carlo, il suo unico figlio, al momento di varcare la soglia della chiesa – aveva esclamato, tra i singhiozzi,
rivolgendosi ai baroni del regno: «Oggi la corona è caduta dalla mia testa, povero me e poveri voi!» E ora che le campane annunciavano l’agonia del buon re, tutti gli animi erano preda delle preoccupazioni contenute in quelle parole profetiche; le donne pregavano Dio con fervore, e gli uomini si dirigevano, da ogni parte della città, verso la reggia per ottenere notizie più
veritiere e più fresche; ma dopo qualche istante di attesa, che utilizzarono per scambiarsi i loro tristi pensieri, dovettero per forza tornarsene da dove erano venuti, perché nulla di quel che accadeva in seno alla famiglia traspariva all’esterno; il castello era sprofondato nella più completa oscurità, il ponte era alzato, come al solito, e le guardie erano al loro posto. Se i nostri
lettori sono tuttavia curiosi di assistere all’agonia del nipote di san Luigi e di Carlo d’Angiò, possiamo introdurli nella camera occupata dal morente. Un lampadario di alabastro, appeso al soffitto, illumina la stanza, vasta e cupa, le cui pareti sono coperte di velluto nero punteggiato di gigli dorati. Vicino alla parete di fronte alle due porte che immettono nella camera – ora sono chiuse –
troneggia un letto d’ebano, sotto un baldacchino di broccato sostenuto da quattro colonne a tortiglione scolpite con figure allegoriche. Il re, dopo aver combattuto una crisi violenta, ha perso i sensi nelle braccia del suo confessore e del suo medico che – dopo aver afferrato ciascuno una mano del morente – interrogano preoccupati il suo polso e si scambiano
degli sguardi d’intesa. Ai piedi del letto una donna sulla cinquantina resta in piedi, con le mani giunte, lo sguardo levato verso il cielo, in atteggiamento di dolore rassegnato: è la regina. I suoi occhi non versano lacrime, le sue guance scavate presentano quella tonalità di cera gialla che si può vedere sui corpi delle sante che si sono conservati per miracolo. Il suo aspetto mostra quella
contrastata mescolanza di calma e di sofferenza che svela un’anima provata dalla sventura e domata dalla religione. Dopo un’ora, durante la quale nessun movimento aveva turbato il profondo silenzio che regnava attorno al letto di morte, il re trasalì debolmente, aprì gli occhi e fece un piccolo sforzo per sollevare il capo. Poi, ringraziando con un sorriso il dottore e il prete, che si
erano affrettati a sistemare i cuscini, pregò la regina di avvicinarsi, e disse con voce rotta dall’emozione che desiderava restare qualche istante con lei, senza testimoni. Il medico e il confessore si ritirarono, inchinandosi fino a terra. Il re li seguì con lo sguardo sino a quando una delle porte si chiuse dietro di loro, quindi si passò la mano sulla fronte, come per scacciarne un pensiero
che l’ossessionava, e, facendo appello a tutte le sue forze nell’istante supremo, pronunciò queste parole: «Quello che devo dirvi, madama, non riguarda nessuno dei due fidati personaggi che erano qui un istante fa, perché il loro compito è terminato. Uno ha fatto per il mio corpo tutto quello che la scienza umana ha saputo suggerirgli, senza ottenere altri risultati se non di
prolungare ancora un po’ la mia agonia; l’altro ha appena assolto la mia anima da tutti i suoi peccati, promettendomi la remissione divina, senza poter scacciare le visioni sinistre che appaiono ai miei occhi in questo momento terribile. Voi mi avete visto due volte, una dietro l’altra, dibattermi in una stretta sovraumana. La mia fronte si è bagnata di sudore, le mie membra si
sono irrigidite, le mie urla sono state soffocate da una mano di ferro. È lo spirito maligno al quale Dio ha permesso di indurmi in tentazione? È il rimorso che prende la forma di un fantasma? Comunque sia, le due battaglie che ho appena combattuto hanno talmente indebolito le mie forze che non potrò resistere a un terzo attacco. Ascoltatemi allora, mia Sancia, perché
debbo farvi delle raccomandazioni, da cui forse dipenderà il riposo della mia anima».
Due delitti celebri
Due delitti celebri
Giovanna di Napoli e Nisida
introduzione di Giuseppe Montesano; traduzione e note di Filippo Benfante
Intrighi e vendette in due cronache dall’autore dei «Tre moschettieri»
Recensioni
Recensione per “Due delitti celebri“: manifesto 20agosto2008.pdf
«La tesi di fondo è che oppressioni e disuguaglianze sociali, nel tempo e nello spazio, rappresentano l’autentica scaturigine dei grandi crimini». Recensione su Libri Senza Gloria.