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  • Negli anni della mia fanciullezza e della mia gioventù sono stato additato come campione di indolenza, nonostante fossi costantemente impegnato a inseguire il mio personalissimo fine: imparare a scrivere. Portavo sempre nella tasca un libro da leggere e un librino su cui appuntare i miei pensieri. Mentre passeggiavo, la mia mente era occupata a cercare le

    parole appropriate per descrivere quello che vedevo e, quando mi fermavo a riposare sul ciglio della strada, mi immergevo nella lettura o prendevo la matita e il mio taccuino da due soldi per annotare i particolari del paesaggio, oppure cercavo di richiamare alla memoria qualche strofa zoppicante. Si può dire che vivessi con le parole, sicché le cose che scrivevo non erano

    destinate ad altro uso se non a quello di praticare la scrittura. Non desideravo tanto essere uno scrittore (sebbene, in fondo, lo sognassi) quanto consacrarmi a imparare la scrittura. Quella era la competenza che mi allettava più di tutte e mi esercitavo dunque per acquisirla – come colui che apprende a intarsiare – a guisa di sfida con me stesso. Le descrizioni

    divennero così il mio principale campo di allenamento perché, come chiunque con un po’ di buon senso sa, c’è sempre qualcosa che valga la pena di descrivere, e la città e la campagna non sono altro che fonti di ispirazione continua. Tuttavia, mi davo molto da fare anche in altri generi: spesso accompagnavo le mie passeggiate con dialoghi drammatici, dei quali

    declamavo da solo tutte le parti; e spesso mi esercitavo a riscrivere interi testi a memoria. Tutte queste cose, senza ombra di dubbio, erano eccellenti, così come lo erano i diari che talvolta tentavo di tenere, ma che poi abbandonavo, sempre e prontamente, trovandoli un esercizio artificioso e un melanconico inganno verso me stesso. Eppure questa non era la parte più

    efficiente del mio allenamento. Anche se onesta e meritevole, questa pratica mi ha insegnato (ammesso che li abbia imparati) solo gli elementi più bassi e meno intellettuali dell’arte, oltre a come effettuare la scelta di un eloquio essenziale con le giuste parole. Cose che intelletti più dotati sviluppano per disposizione naturale. E, come allenamento, aveva

    una grave imperfezione, giacché non mi forniva modelli da raggiungere. C’è stato più profitto, e di certo più sforzo, nel lavoro solitario che conducevo in casa. Ogni qualvolta leggevo un libro o un brano che mi deliziava particolarmente, nel quale una cosa veniva detta o un passo veniva reso con qualità indiscutibile, nel quale riconoscevo una considerevole potenza

    o una felice originalità nello stile, dovevo sedermi subito e capire come imitare quelle caratteristiche. Sapevo che non ci sarei riuscito, ma ci provavo e riprovavo, e non ci riuscivo ancora e ancora e ancora, ma almeno, in questi vani tentativi, acquisivo una certa pratica nel ritmo, nell’armonia, nella costruzione e nella coordinazione delle parti. Così interpretavo il ruolo

    del pedissequo emulo di Hazlitt, di Lamb, di Wordsworth, di Sir Thomas Browne. E di Defoe, di Hawthorne, di Montaigne, di Baudelaire e di Obermann. Ricordo uno di questi scimmiottamenti, che avevo intitolato Vanità della morale doveva avere una seconda parte, ovvero la Vanità della conoscenza; e, siccome non avevo né moralità né conoscenza, i titoli erano appropriati.

    Invero, la seconda parte non venne mai nemmeno abbozzata, mentre la prima parte fu scritta (ed è questo il motivo per cui la rievoco, come un fantasma, dalle sue ceneri) non meno di tre volte: la prima alla maniera di Hazlitt; la seconda alla maniera di Ruskin, che mi aveva stregato con un fugace sortilegio; e la terza volta in un laborioso pasticcio alla Sir Thomas

    Browne. Similmente avvenne con miei altri lavori: Cain, opera epica, era (scusate se è poco) un’imitazione di Sordello; Robin Hood, una favola, prese poi un bizzarro percorso muovendosi tra Keats, Chaucer e Morris. Per Monmouth, una tragedia mi annidai in seno al signor Swinburne; per le mie innumerevoli liriche artritiche, ho seguito molti maestri; per la prima bozza

    di The King’s Pardon, un’altra tragedia, mi misi sulle tracce niente meno che di John Webster, mentre per la seconda bozza della stessa opera, con barcollante versatilità, diressi la mia devozione verso Congreve. La mia penna assunse così una vena meno seriosa, poiché non erano i versi di Congreve, beninteso, ma la sua prosa, fine e squisita, che ammiravo e cercavo di

    copiare. Già all’età di tredici anni avevo cercato di rendere giustizia agli abitanti della famosa città di Peebles nello stile del Libro degli snob. Sarei potuto andare avanti per sempre con i miei romanzi abortiti e arrivare alle opere successive, di cui adesso ho considerazione più tenera, non solo perché concepite sotto l’influenza fortificante di Dumas padre, ma perché mi

    imbattei in alcuni rifacimenti. Uno, curiosamente migliorato da altra mano, assurse finanche alla ribalta del teatro e venne rappresentato da attori in carne e ossa; l’altro, conosciuto in origine come Semiramide, una tragedia, lo vidi su un banchetto di libri con il titolo di Principe Otto. Ma credo di aver detto abbastanza riguardo all’arte dell’imitazione e agli

    sforzi da ventriloquo che videro le mie prime parole appoggiarsi sulla carta. Che piaccia o no, questo è il mezzo per imparare a scrivere. Che ne abbia approfittato o no, è questo il modo. Anche Keats imparò a scrivere con siffatto metodo, e non è mai esistito scrittore più fine e portato per la letteratura di Keats. È così, se fosse possibile verificarlo, che gli uomini

    hanno sempre appreso ed è per questo che una rinascita letteraria è sempre accompagnata, o annunziata, dal ritorno a modelli precedenti, sovente ancora freschi. Mi sembra di udire, a questo punto, qualcuno che disapprovi: «Ma non è questo il modo di essere originali!». Non lo è di sicuro, ma è chiaro che non esiste altra maniera di esserlo se non nascendo

    tali. Del resto, se si nasce originali, niente di questa formazione tarperà le ali della propria originalità. Non ci sarà mai nessuno più originale di Montaigne, e, ovviamente, non c’è alcuno più dissimile da lui di Cicerone, eppure nessuno potrà non accorgersi di quanto l’uno deve aver cercato di imitare l’altro. Burns è un esempio puro di piena intensità nelle

    umane lettere, eppure, fra tutti gli autori, è sempre stato il più grande imitatore. Lo stesso Shakespeare, il maestoso Shakespeare, proviene da una scuola ed è solo da una scuola che possiamo aspettarci dei buoni scrittori, così come è solo da una scuola che possono scaturire i grandi scrittori, come voci fuori dal coro. Non c’è niente fra le cose dette finora che possa

    davvero stupire una persona assennata. Prima che possa svelare con sincerità quale stile preferisce, l’aspirante scrittore dovrebbe aver provato tutte le possibilità esistenti. È importante, prima di scegliere, che trovi una chiave di lettura che gli calzi a pennello. E, prima di decidere quale sia, lo studente dovrebbe aver praticato ogni scala letteraria e solo dopo anni

    di tale ginnastica potrà fermarsi a sedere e accorgersi di legioni di parole che si accalcano per una sua chiamata, di dozzine di frasi che aspettano, tutte insieme, solo un suo cenno. Solo allora lo scrittore saprà quello che vuole fare veramente e (nei limiti ristretti dell’umano potere) se avrà la possibilità di farlo.

    Con due libri nella tasca

Con due libri nella tasca

Vademecum per scrittori affamati e lettori esordienti
introduzione di Antonio Pascale; traduzione di Claudia Verardi

Collana: I Saggi

Pagine: 82

ISBN: 9788887583830

Disponibilità: Buona

Prezzo: 10.00 

La narrativa è per l’uomo adulto quello che il gioco è per il bambino

«... dovremmo divorare il libro cogli occhi, rimanerne estasiati e la nostra mente, riemersa da una lettura attenta, dovrebbe essere invasa dalla più sfrenata e caleidoscopica danza di immagini, incapace di prender sonno o di rivolgere altrove i suoi pensieri».

Un libro da leggere e un taccuino su cui appuntare i suoi pensieri: così Robert Louis Stevenson, autore di immortali capolavori come Lo strano caso del dottor Jeckyll e del signor Hyde, L’isola del tesoro, La freccia nera, muoveva i primi passi nel mondo della letteratura. Dei suoi amici libri, delle sue passioni (come quella per Dumas), della sua ricerca stilistica, parla in questi saggi «convincenti, molto utili, tavolta emozionanti, spesso interessanti. E alla fine della lettura, se proprio vogliamo fare un bilancio sul rapporto che ci lega alla scrittura, possiamo dire questo: sembra che non ci sia altro modo per imparare a scrivere che quello di continuare a leggere mentre attraversiamo il mondo o, capovolgendo la frase, attraversare il mondo per poi vederlo riflesso nei libri» (Antonio Pascale). Questa raccolta comprende i saggi Una rivista universitaria, I libri che mi hanno influenzato, Una chiacchierata sul romanzesco e Un romanzo di Dumas.

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Recensioni

Recensione per “Con due libri nella tasca“: libero_18_genn_2011.pdf

Recensione per “Con due libri nella tasca“: espresso.pdf

Recensione per “Con due libri nella tasca“: repubblica 17maggio2008.pdf