Immaginazione, elementi fantastici, tradizione, mistero, magia. Monologhi, conversazioni, ricordi: un uomo parla con un morto che ha visto insepolto molti anni prima. All’epoca era solo un bambino e stava pascolando le capre. Ora vive in città, ma – attraverso il filtro della memoria e rivolgendosi al morto – ricostruisce paesaggi, alberi, animali, personaggi, episodi, miti e leggende della sua terra. Fra tutti i ricordi uno, in particolare, è motivo di sofferenza: l’immagine di Biana, una donna che tutti i maschi desideravano e che ha segnato il destino dell’uomo, impedendogli di amare altre donne. Adesso l’uomo vuole finalmente seppellire quel morto e costruisce uno strano marchingegno, qualcosa a metà tra una giraffa e l’ascensore di una miniera. È qui che, inaspettatamente, ritrova Biana, la donna capitata nel mezzo del suo destino. Il romanzo – diviso in sette cicli, ognuno con un diverso registro nonostante il tema comune – conduce il lettore in un mondo in cui vivi e morti non possono fare a meno gli uni degli altri.
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No, non fu subito. Alberi, crepe e acquitrini nel fondo della valle, animali nascosti al riparo del bosco, animaletti del caldo che scaldavano l'aria, cielo rotondo e blu, tutto si muoveva in un unico respiro. Dall'indimenticabile spettacolo dell'uomo che cresce dalla terra come neanche i funghi crescono, ancora niente. All'inizio, massa confusa, albero
agitato dal vento, bue che cerca la mandria, asino che punta contro la collina e arrivare non arriva mai, animale con zampe e ali, uomo sull'asino o bambino sulle spalle di suo padre, e alla fine, trasformati in animalaccio alato e deforme, due esseri fusi in uno solo, nella distanza che ruba la luce dei visi, eccoli salire ben presto su per la collina, e il piccolo pastore aspetta in cima, lui che non
avrebbe niente da guadagnare dal racconto di un fatto così incredibile. Dopotutto era il giorno della sua disgrazia. Rispunta, cima scura che appare e scompare, alla fin fine cappello di paglia, sagome di spalle ondeggianti, cappello e spalle che dicono che è un uomo quello che sta salendo e non un animale, un uomo in penosa ascesa, che esce a poco a poco
dal terreno, dal più profondo della terra, il collo di fuori, adesso, come il sole sorge sul mondo intero. Uomo, chi eri tu che in quel pomeriggio perduto spuntavi dal terreno come uno strano germoglio, come neanche i funghi spuntano? Un poco, poi un altro poco, il tronco di fuori, e il bambino allunga il collo, spiando, e tu rallenti la titanica salita, in attesa di domande piene
di stanchezza, e infatti volevi sapere la strada per Pháti, che in fin dei conti è come chiedere un po' d'acqua, cose da viandanti. Dal modo in cui cammini, come se avessi i piedi pieni di pulci matequenha, Pháti è a due giorni e due notti. Andando così, con il vento in faccia. È la tua capra che si è persa? Allora hai camminato invano. Qui non c'è, queste sono capre di casa, sono di mio zio.
Hai detto mucca? Va' a vedere trai i buoi di Uinge, scendendo e seguendo il fiume. Cerca per conto tua, qui non si mangia ciò che ha un padrone. Ma se cerchi il villaggio, non capisco come hai potuto oltrepassarlo. Oltre che cieco dovevi essere sordo. Ecco, proprio da qui si sente il pestello, le risate delle donne al pozzo, i remi contro l'acqua, il vocio dei pescatori che stendono
la rete, la linea fluida dell'onda al livello dei testicoli, perché qui, e credo che da te sia la stessa cosa, tutti si danno da fare per vivere. Come ti dicevo, il villaggio è alle tue spalle. Le case non sono mai state tanto alte; da questa parte va il vento nhinguitimo che disperde cenere del fuoco, vecchi stracci, tracce di case e di gente. Qui, questo vento del Sud alza la terra, sporca
il cielo di polvere e foglie, abbatte alberi e fichi, tappezza la terra di foglie, fiori e fichi. I lampi rigano le nuvole, la foresta è buia come la notte di pioggia, i grilli suonano flauti di canna, uccelli sonnambuli vanno, serpenti mamba dalla testa piumata fischiano e sembrano un tuo amico che ti chiama. Le cose sono là sotto, non qui, là, dove tutti sanno chi è chi. Si vede che sei
forestiero, non ti inginocchi per terra per fare un fuoco. A proposito, è la pipa che vuoi accendere? Laggiù i vicini si scambiano pezzi di legno con lo stesso fuoco di quando quel posto fu fondato. Alle mie spalle non c'è gente, solo bestie e distanze senza strade né bandiere. Chi eri tu, uomo? La penna di pavone sul cappello aveva lo splendore di una casa dove anticamente lavoravano
schiavi. Ma era questo che svelava la tua origine? O era il vestito da profeta, però ben tessuto, a rivelarla? E il cappello sul viso era perché ti vergognavi di non conoscere la strada per Pháti? O perché avevi perso la capra o il bue, o perché avevi dimenticato qual era la casa dove andavi a riscuotere debiti così vecchi che avevano già la barba bianca?
Oppure ti vergognavi di non saper accendere la pipa, tanto umido era diventato il tabacco per il sudore del cammino? Dopotutto eri nell'età in cui non si prova né paura né vergogna di niente, l'inossidabile età dei fantasmi. Ti guidava con sicurezza la luce del tuo destino. E pensare che ero io quel pastore che ti guardava come guarda la città per la prima volta
uno nato in mezzo alle capre. Avrei perso le capre nella contemplazione stupida, sarei fuggito per la paura di mio zio, e avrei saputo cosa vuol dire conquistare una città a mani vuote. Insisto: chi eri tu, uomo, che cognome avevi, qual era il tuo destino, ben al di là del luogo dove finivano le strade? Un poco e un altro poco, le ginocchia in fuori, io-tu, io-tu, io-tu,
alternandoci, con articolazioni di locomotiva a vapore - uomo o macchina? Un poco e un altro poco, eccolo intero sulla terra. A giudicare dalla barba sul petto, simile all'erba capim e simile a cenere, avresti potuto avere l'età delle pietre. Quella del mento ricordava Barrabás di Arturo Uslo Pietri, che il piccolo pastore avrebbe letto, molti anni dopo, travestito da
cittadino. E quell'odore di cagnolini appena nati, quando ti sei avvicinato e mentre passavi come un bue, voglio dire senza farci caso, come se io fossi un tronco, senza chiedere niente, il cappello calcato sul viso, più spaventoso che sconosciuto... E infatti, alla fine del tuo passaggio, dentro lo zaino, con occhi che sembravano fotografare e orecchie come antenne sintonizzate
sul vago rumore di vento antico, ecco a un tratto un flash d'intesa, negli occhietti pieni di innocenza - ecco il cagnolino. Per questo, lo dico in tutta serietà, eravate due, né propriamente cane né propriamente uomo, due - capisci? - sistemati come la teiera e il suo coperchio; due, ripeto, affratellati dalla solitudine del misterioso cammino; tutta l'umanità riassunta in un
cane, e tutta la cosmica muta canina in un uomo. E quando avete finito di passare davanti, il piccolo pastore, indifferente alle capre che si sparpagliavano per la foresta, si è girato per vedervi andare oltre, lasciando Pháti alle spalle, e proseguire il cammino. La notte scendeva, non avevate né casa né rifugio. Nonostante ciò, senza ascoltare il canto
delle quaglie simile al richiamo della propria terra, siete andati avanti, tche-de, tche-de, tche-de, procedendo, salendo e scendendo e tornando a salire sulle colline, più veloci del crepuscolo, di nuovo un essere solo come all'inizio, né uomo né cane, ma un tutt'uno, oscillando nell'aura del pomeriggio, un punto a occidente, un atomo, polvere di Dio incontro al Sole.
C'era una donna nel mezzo del destino
C’era una donna nel mezzo del destino
introduzione di Livia Apa, traduzione di Giulia Brunello
Un romanzo che incanta chi lo legge e condivide con l’autore la leggenda e la realtà, seguendo un percorso di cui vivi e morti sono parte inalienabile