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30 Giugno 2024

Pride/4

Il racconto numero 4, che chiude questa edizione di Spartaco Magazine, vede ospite Sara Servadei, giornalista e scrittrice, amica di Edizioni Spartaco. Tra le sue righe una storia di identità e relazioni, di accettazione e contrasti, in cui gli ultimi CENTO METRI di strada bisogna affrontarli con le proprie gambe.

Sara Servadei, giornalista e scrittrice

CENTO METRI

Odore di disinfettante. Di pulito, in un modo che sa un po’ di morte, un po’ di malattia. E poi luce, troppo bianca, troppo gialla, troppa. La voce di don Matteo, ma non è un’apparizione, è solo la tv.

La stanza d’ospedale prende consistenza lentamente, col passare dei minuti, come se Rachele ci si stesse trasferendo dentro da un’altra dimensione, lontana. Per secondi o minuti o ore l’unica cosa tangibile le sembra il dolore, una sensazione di pesantezza diffusa. E poi eccolo, lì, localizzato in fondo all’addome, il bruciore come un buco nero nel corpo.

Le torna in mente Filippo, come un lampo. Quella frase. 

«Se davvero questa è la tua natura, spiegami perché ti servono questi farmaci ci merda, perché devi soffrire così tanto».

Si maledice per aver pensato a lui come prima cosa, di nuovo. Per aver pensato nei giorni scorsi che stava per fare un altro intervento che lui avrebbe disapprovato, per aver pensato mentre la addormentavano a cosa avrebbe detto lui quando avrebbe saputo. Perché prima o poi saprà, giusto? Prima o poi si ricorderà che lei esiste, vero?

Lei, già. Lei. Proprio questo è il problema. Amarla a prescindere da quale pronome usa. Amarla a prescindere dall’aspetto. Amare la sua anima, a prescindere dall’intervento. A prescindere da ciò a cui lei sente di appartenere.

«Te la senti di mangiare qualcosa?».

Si è fatto giorno e non se n’è neanche accorta. Dorme intontita dal dolore e dai farmaci da chissà quante ore. Sua madre è arrivata in un momento imprecisato, avvolta nel suo profumo solito che sa di gelsomino e cipria, i ricci irrigiditi dalla piega del parrucchiere che le dondolano attorno alla testa.

Rachele fa segno di no. Vorrebbe solo riaddormentarsi e svegliarsi tra tre mesi, quando starà bene. Quando avrà il suo corpo senza dolore, per la prima volta nella sua vita.

«Babbo non c’è?» chiede con un filo di voce.

Ci ha sperato, che venisse. Ci ha sperato anche se sapeva che sarebbe stato difficile.

«Non ti preoccupare» le risponde sua madre mentre fruga nella borsa, sorvolando come se fosse una questione come un’altra. «Lui ha solo bisogno di tempo per abituarsi, sai com’è fatto».

Lui ha solo bisogno di tempo per abituarsi. Certi giorni Rachele si sente come se il suo corpo non fosse il suo. Come se fosse la tela delle aspettative di tutti gli altri, e per cambiarlo dovesse ogni volta convincerli a continuare a volerle bene come prima. È stato così quando ha iniziato a prendere gli estrogeni, poi quando ha fatto la mastoplastica e ora di nuovo, ora che non c’è più niente di maschile, e Dio solo sa quanto ha atteso questo momento. Vorrebbe festeggiare, vorrebbe sentire intorno fibrillazione e gioia. E invece no. L’amore che dovrebbe essere incondizionato è radicato nel corpo, ha scoperto, come un tentacolo che affonda nelle carni e a volte le stritola nel tentativo di aggrapparcisi. E così alla fine si ritrova a sentirsi dire che deve essere lei a capire gli altri, di nuovo.

Luce tenue dalla finestra, un’altra giornata di vuoto. Il solito pensiero sveglia Rachele da un sonno agitato, reso più fragile dai cuscini e dalla posizione in cui è costretta a dormire dopo l’operazione. Filippo il post su Instagram lo deve aver visto, qualcuno deve averglielo detto, anche se non la segue più da mesi. Per forza. Ma non ha reagito. Si aspettava un messaggio, Rachele ci sperava. Due parole di conforto, anche a posteriori. La speranza di essere stata capita, col tempo. Come una carezza sulle sue ferite, quelle che si porta dentro. Quelle reali fanno ancora male, ma stanno guarendo. Le guarda allo specchio, le monitora. È tutto così strano, eppure così normale. Sa che il dolore le passerà prima del pensiero per Filippo, aggrappato da qualche parte nel suo cervello. Gli anni insieme, i viaggi. Le piccole cose che faceva per lei, come quando lei stava male e lui correva a comprarle i suoi biscotti preferiti. Le carezze, il modo con cui lui sapeva capirla e ascoltarla. Quella volta a Barcellona che l’ha portata a mangiare il pesce anche se a lui non piaceva, solo per farla felice.

Poi il silenzio. La fine era arrivata graduale, dolore a piccole dosi, uno spillo alla volta, mentre lei esprimeva sempre più apertamente la necessità di diventare anche per gli altri ciò che sentiva di essere da sempre, di allineare il suo mondo, semplificarlo. Sperava che lui l’avrebbe capita, sostenuta. Sperava che la loro fosse quel tipo di coppia.

Rachele si siede lentamente sul letto. Da qualche giorno è tornata a casa ma è ancora convalescente. Sua madre si è trasferita nel suo appartamento perché lei è così, perché anche quando non le parlava non se n’è mai andata. Ci ha messo un po’ a capire che non le parlava perché non sapeva cosa dirle, perché temeva di usare le parole sbagliate, e non perché non l’accettasse. Anche i silenzi vanno classificati.

Entra nella stanza all’improvviso, senza bussare. Nel tempo Rachele ha perso la forza di arrabbiarsi. Si diventa così, si supera una certa età e i difetti dei genitori diventano amabili aneddoti, appigli della loro presenza.

«Mentre dormivi è passato Filippo, dice che ha cancellato il tuo numero». Esordisce, come niente fosse. «Vuole che lo richiami».

Si sono trovati in un bar. Le è sembrato più decoroso di spiegarsi tra un vocale e l’altro sui social, di stare al telefono ad ascoltare i silenzi oltre la cornetta. Le ferite fanno ancora male, Rachele si sente gonfia ma va bene così. È una fase e deve passarci attraverso.

Filippo arriva trafelato, al modo suo. Biondissimo e abbronzato, un altro mondo rispetto alle sue giornate di tetra convalescenza. Le ha portato un fiore, un tulipano, il suo preferito, ma è un gesto che sa di cortesia.

Filippo tentenna, un passo avanti e uno indietro, come fa quando è agitato. Rachele prende l’iniziativa, lo guida fino a un tavolino sotto alla veranda, accanto alla strada. Sposta con un gesto veloce i resti dell’aperitivo dei clienti che li hanno preceduti.

Lui si siede, un po’ incerto. Guarda la cameriera, come se servisse un altro essere umano a fare da scudo.

«Sai come si ordina?»

«Vengono al tavolo e basta».

Silenzio. C’è un nodo di cose da dire e ora non è più sicura che lo si possa sbrogliare. Sa che lui vorrebbe evitare di farlo, sa che sperava che lei si presentasse col suo sorriso migliore, pronta a nascondere mesi di odio sotto al fondotinta. L’ha cercata lui, però, ora ci pensi lui a fare conversazione.

«Senti, dai, come stai?»

Un sorriso finto. Rachele deve ripeterselo, perché il sorriso le piace ancora. Solo quello, forse.

«Bene. Più o meno. Un po’ammaccata».

«Eh, immaginavo. Mi hanno detto…»

La frase si ferma lì.

«Mi sono operata, sì».

«È quello che volevi».

«È quello che ho sempre voluto».

La cameriera si avvicina. Ha le unghie lunghe laccate di rosso, una collana con un piccolo fiocchetto dorato al collo. Rachele osserva le altre donne da anni, da quando si è data la possibilità di essere una di loro. La guarda e pensa che quelle unghie le vuole anche lei e forse andrà a farsele quando si sarà liberata dell’incontro con questo qui, questo qui che non la capirà mai, e ora che ce lo ha davanti le sembra così palese che non abbiano niente da dirsi che si è quasi pentita di avergli chiesto di vedersi di persona. 

Ordinano due spritz, anche se lei non potrebbe ancora bere alcol. Ora ci vuole.

«Il lavoro?» dice lui, fissando una briciola sul tavolo.

«Come al solito. Orari di merda, ma sono stati comprensivi. Tu?»

«In ufficio mi hanno fatto responsabile».

«Bene. Sono felice per te».

La cameriera arriva con gli spritz e le patatine, la cosa magra che sono diventati gli aperitivi da qualche anno ormai. Sembra passata una vita da che hanno ordinato, l’incontro è stato decisamente un errore.

«Mi dispiace» dice lui di punto in bianco, mentre lei beve il primo sorso.

«Anche a me».

«No, sul serio».

«Non so che dirti, Filippo».

Lui gioca con la cannuccia. È teso.

«Sei una donna molto bella. Solo che io…»

«Non voglio risentire lo stesso discorso».

«Va bene, va bene».

Rachele sospira. Beve un altro sorso, giusto per fingere di avere qualcosa da fare.

«Ci abbiamo provato, Filippo. Tu hai bisogno di qualcuno che non sono io. E io pure. Non è una colpa, è stato doloroso ma è andata così. Se siamo arrivati fin qui c’è un motivo».

Lui annuisce leggermente, sembra meno teso. Sorride, una mano sul petto.

«Sono d’accordo. E sono contento che tu non sia più arrabbiata».

«Lo sono».

«Oh».

Rachele scoppia a ridere di fronte alla faccia delusa di Filippo.

«Ma dai, che ti prendo in giro».

Ridono, qualche secondo di pace. Forse la guerra è finita, forse non ha mai avuto senso combatterla. Lui ha un altro, Rachele lo sa. Lei ne avrà un altro. Ci sarà, anche se ora non c’è. Ci saranno altri sorrisi, una spensieratezza nuova.

Si alza in piedi, l’aperitivo è finito. Filippo si offre di accompagnarla a casa, ma lei rifiuta. Preferisce fare da sola i cento metri che la separano da casa.

È arrivata fin qui con i propri passi, come per ogni cosa che ha ottenuto nella vita. E ora è pronta a portarsi in un posto migliore.

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