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25 Giugno 2024

PRIDE/3

Giugno, mese del PRIDE. Una parola che vuol dire orgoglio, dietro la quale vive un mondo di lotte, di abusi, di diritti, ma anche e soprattutto un mondo di persone: le loro identità, i loro amori, le loro speranze e le loro storie.In questo numero di Spartaco Magazine quattro autori hanno voluto immortalare in quattro diversi racconti, ognuno con il proprio stile e sensibilità, un’istantanea evocata dalla parola PRIDE.


Piero Malagoli ci porta indietro nel tempo, un tuffo vorticoso in quella Storia che vorremmo dimenticare e che invece, ogni giorno, è fondamentale ricordare. Il racconto crudo e senza sconti di un momento in cui l’unica via per l’amore è stato il sacrificio.

Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo

PARAGRAFO 175

Erano in ottantasette sistemati su un’unica fila ordinata. A parte pochi sventurati nemmeno in grado di alzarsi dal pagliericcio, tutti gli occupanti della baracca numero dodici del secondo blocco del campo. Chi col distintivo nero degli asociali, chi con quello rosso dei prigionieri politici, chi ancora col contrassegno verde dei delinquenti comuni, serravano i ranghi in cerca di calore rattrappiti nel gelo del crepuscolo dentro lacere uniformi a righe.

Dopo undici ore di sgobbo alla cava di granito le poche patate annegate nella brodaglia scura erano l’unica ragione per non lasciarsi cadere sull’impiantito e cedere all’oblio.

Non che Mauthausen fosse peggiore di altri. Quando Adler era stato trasferito lì da Dachau lo aveva impressionato essere destinato a un campo di categoria III per detenuti difficili da recuperare. Sulla parte sinistra della sua giacca campeggiavano due triangoli contrapposti, uno rosa e uno giallo. Come omosessuale ebreo la speranza di uscire vivo da lì era dimezzatarispetto a quella già inesistente dei suoi compagni di sventura e la vigoria nello spaccare pietre l’unica ragione per la quale non era ancora diventato concime.

Il paragrafo 175 col quale lo si incriminava di rapporti omosessuali pareva più pregnante delle discendenze ebraiche e lui stesso tendeva ad andare fiero della sua sessualità, rivendicando la libertà di viverla senza infingimenti.

Nemmeno sapeva della radio a transistor rinvenuta nella baracca da cui usciva ogni giorno all’alba per rientrarvi stremato al crepuscolo. Qualche disperato doveva aver venduto l’informazione per un piatto di fagioli ammuffiti, ma la perquisizione approfondita seguita al ritrovamento aveva fruttato il pugnale che un sergente teneva ora sollevato davanti ai loro visi attoniti. Era una baionetta inglese talmente malridotta da non aprire nemmeno una scatoletta di sardine, ma… tant’è.

In onore dell’arrivo del nuovo Capitano a capo del blocco due si era allestito quel circo di morte che s’inscenava a scadenze serrate, come uno spettacolo di arte varia. Decimazione veniva chiamata. Una specie di roulette russa nella quale un prigioniero ogni dieci veniva fatto uscire di un passo dalla fila e passato per le armi prima di cena. Vigeva perfino un prezzario per ogni tipo di crimine commesso: dieci vite per una tentata evasione, cinque per un’aggressione a una guardia, tre per infrazioni minori comefurti o risse tra internati.

La remissività con la quale i prigionieri si sottoponevano a questa pratica disumana la diceva lunga sull’impossibilità di continuare a sostenere un’esistenza divenuta orami un eterno supplizio. Adler, come gli altri, era uscito rassegnato al suo destino, badando soltanto a non mettersi troppo in vista, rattrappendo le gambe già tremanti per lo sfinimento. Il comandante precedente poteva definirsi un brav’uomo. Quando l’etichetta imponeva una decimazione partiva sempre da chi ormai non si reggeva più in piedi e probabilmente, anche se risparmiato, non avrebbe visto l’alba del giorno seguente. Il fatto che lo scopo fosse preservare braccia ancora abili al lavoro non sminuiva l’umanità del gesto. 

Il nuovo Capitano, tirato a lucido, arrivò dal vialetto degli alloggi ufficiali con il cappello in testa e in mano un frustino da equitazione. Passò in rassegna le guardie accordando un cenno di saluto a ognuna e concedendo una grattatina tra le orecchie di uno dei cani che controllavano i prigionieri come un gregge. Quello gli si sedette accanto appoggiando la schiena al gambale dello stivale, in muta adorazione. Il militare pareva più giovane dei trent’anni che doveva avere per rivestire quel ruolo. Messi a confronto con i trentuno di Adler, incanutito e fiaccato dallesevizie, stridevano come i suoi scarponi da lavoro rispetto agli stivali lucidi dell’ufficiale. Fu l’unica cosa che vide, attento a non alzare lo sguardo ora che lo aveva di fronte.

Voleva solo fare in fretta. Morire se fosse stato il suo turno, oppure avere le sue maledetta patate. Mangiarle assorto come in preghiera, leccare la gavetta finché ne conservava il sapore poi perdere conoscenza sul tavolaccio confidando in un trapasso incruento per consunzione.

«Come si chiama?» domandò il Capitano alla guardia indicando il cane.

«Dittmar, Herr Kapitän».

«D – i – t – t…» cominciò a compitare enumerando le lettere sulle dita rivestite da guanti di pelle.

«Dittmar… sette lettere» decretò.

Partito dal primo della fila contò sette uomini indicandoli col frustino.

«Cinque, sei… e sette». Al poveretto col triangolo viola dei Testimoni di Geova cucito addosso cedettero le ginocchia e dovettero strattonarlo per farlo avanzare un passo davanti agli altri.

«Uno, due, tre…» Al due Adler aveva già compreso che lui sarebbe stato il prossimo. Attese lo sgomento, il terrore, che invece non arrivò. Solo una sorta di pace indotta dall’infinita stanchezza. Quando l’ufficiale gli fu dinanzi alzò lo sguardo. Voleva vederla negli occhi la sua morte, non gli restava altro.

«Sett…» la parola morì in bocca al Capitano che rimase basito davanti a quegli occhi che lo fissavano.

Adler spalancò la bocca e un tremito lo percorse come una scarica elettrica. Nelle condizioni in cui versava un’emozione del genere aveva rischiato di ucciderlo. Si costrinse a muovere un passo, quel passo, sostenendo lo sguardo che non avrebbe potuto abbassare neppure volendo.

Il mondo si era fermato nell’aria morta della sera, il rumore dei camion in lontananza soltanto un brusio di sottofondo.

Fu l’ufficiale a scuotersi. Premendogli sul petto l’impugnaturadel frustino costrinse Adler a rientrare nei ranghi e il suo vicino ad avanzare di un passo. Come un manzo al macello ubbidì rassegnato. Era un room morto dentro già mille volte. Il triangolo marrone cucito sul petto pareva sussultare sospinto dal martellare caparbio del cuore.

Adler lo tirò indietro afferrandolo per un braccio riproponendosi come designato, sfidando il Capitano che tradì la tensione con un guizzo dei muscoli sulla pelle ben rasata della mascella.

L’attesa era spasmodica. Guardie, cani e internati tutti sospesi nel vuoto di quel piccolo mondo brutale, appesi sul nulla tramite un’impalpabile tela di ragno.

Il graduato voltò le spalle al plotone di derelitti con una mossa a metà tra stizza e turbamento e si avviò a passo rigido verso la baracca del posto di guardia. Un attonito sergente lo seguì caracollando, Dittmar drizzò le orecchie stupito, incerto se accodarsi. Giunto sulla porta del capanno il sergente ricevette un ordine e tornò indietro mentre il Capitano entrò richiudendosi l’uscio alle spalle.

Adler fu preso in consegna dalle rudi mani del sottufficiale, condotto a sua volta davanti alla baracca e a spintoni sollecitato a entrare. L’interno era scuro e spoglio. L’odore di piedi e cavolo bollito impregnava l’aria. Ritta davanti alla scrivania la sagoma del Capitano si stagliava sulle assi della parete di fondo.

«Volker» salutò il prigioniero inchinando il capo appena rimasti soli.

«Adler» contraccambiò l’ufficiale «Come sei finito quaggiù?».

«Potrei farti la stessa domanda» avrebbe desiderato mostrare un po’ di emozione, ma per fronteggiare l’orrore degli ultimi tre anni aveva soffocato ogni impulso.

«Ci arrivo dritto dall’accademia, dopo qualche mese di apprendistato a Ebensee».

«Io ci sono per colpa di questi» Adler indicò i due triangoli cuciti sulla sua divisa. Avrebbe azzardato un sorriso di scherno se non si fosse vergognato dei troppi denti mancanti. Volker, invece, era radioso. Non lo vedeva ormai da sei anni, quando, finita l’università, le loro strade si erano divise e lui aveva disatteso il consiglio del suo amante di lasciare la Germania come avevano fatto altri 300.000 ebrei.

«Mi dispiace» fu solo in grado di commentare Volker. Non riusciva a sostenere lo sguardo di Adler che tra i due era sempre stato il più forte. Quello deciso a prendere la vita di petto, a non temere i giudizi altrui, spronandolo a dichiararsi per ciò che era. Ora ringraziava il cielo di non essere riuscito a convincerlo.

«Non so proprio cosa potrei fare per…».

«Non devi fare nulla» lo interruppe Adler. Dio, quanto avrebbe voluto appressarsi a lui e accarezzargli quella fronte liscia, seguire col dito il profilo del suo naso sottile.

«Io sono già morto. Sono l’incarnazione delle due peggiori iatture che possano gravare un essere umano in questo periodo. Se l’ebraismo mi è stato trasmesso, l’omosessualità ho scelto di rivendicarla con orgoglio».

«Sei sempre stato un pazzo. Io mi sono ravveduto, ma se venisse fuori che noi…»

«Ravveduto? Curioso che indossando quella divisa ti senta in dovere di ravvederti di qualcosa che non è affatto disdicevole. Temo tu abbia fatto e farai in futuro cose di cui davvero dovrai fare ammenda».

«Non metterti in mezzo» quasi lo implorò «Lasciami giustiziare qualcun altro, poi appena si calmeranno le acque e avrò pieni poteri…»

«Non te la caverai così» i loro occhi s’incrociarono di nuovo, come quando Adler lo tacciava di codardia e pretendeva da lui prove d’amore che lo mettevano alle strette.

«Uccidimi adesso» glielo chiese così, semplicemente, come una cosa da nulla. Come la futilità che era diventata vivendo costantemente a stretto contatto con la morte.

«L’unica consolazione che posso aspettarmi è che sia tu a farlo. È più di quanto avessi mai osato sperare».

«Non lo farò» proruppe Volker inorridito.

«E perché no? Saresti pronto a giustiziare qualcun altro al mio posto».

«Tu non sei qualcun altro».

«Già… ma non c’è scampo. È ora che tu faccia l’uomo e ti assuma le tue responsabilità. È un atto d’amore che ti chiedo».

«Non lo farò e basta».

«Bene… vedo che non sei affatto cambiato e che nemmeno questa terrificante divisa riesce a metterti in corpo un po’ di nerbo» avrebbe voluto buttargli le braccia al collo e pregarlo di portarlo via da lì, ma in lui la speranza era morta e sepolta.

«Se non basta l’amore che ancora mi lega a te, vediamo se lo farai per salvare te stesso. Ecco cosa farò…» Volker riconobbe ogni stilla di ardore che ancora sopravviveva in quel corpo martoriato. Un ardore che lo aveva ammaliato e che ancora sapeva riesumare un sentimento che si era forzato a sopire.

«Se non mi fermerai uscirò da qui gridando ai quattro venti il mio amore per te. Non mi crederanno, ma se a qualcuno dei tuoi sottoposti venisse in mente di controllare scoprirebbe una serie di circostanze inquietanti…»

Volker estrasse la pistola e la puntò verso Adler.

«Non farmelo fare, ti prego».

«E sai quanto poco occorra per cadere in disgrazia» Adler si era avvicinato di un passo, uno soltanto. Non voleva obbligarlo, per una volta voleva che fosse una sua scelta.

La mano di Volker tremava mentre ai suoi occhi il viso di Adler ritornava quello di sempre, volitivo e giovanile.

«Ti prego, non costringermi».

All’esterno lo sparo echeggiò attutito dalle pareti di legno. Le guardie sobbalzarono, i cani scattarono in piedi e nella fila di prigionieri qualcuno si coprì il capo incassando la testa nelle spalle. Il sergente si avvicinò sollecito.

«Herr Kapitän!» gridò restando a debita distanza «Ist alles in ordnung, Sir Kapitän?».

Probabilmente sarebbe entrato dopo aver bussato frettolosamente, se un altro colpo non fosse risuonato a breve distanza dal primo. Tutte le guardie imbracciarono l’arma e come guidate da un ordine inudibile si sistemarono tutt’intorno alla baracca del posto di guardia. Era successo qualcosa e non avrebbero rischiato un’irruzione, avrebbero mandato i cani.

Socchiuso l’uscio con cautela fu Dittmar a sgattaiolare all’interno, circospetto, affidabile e potenzialmente letale. I suoi sensi si adattarono immediatamente alla penombra e capì che non restava più nulla di vivo in quella stanza. Due corpi erano stesi sul pavimento, uno sull’altro, senza segni di lotta, quasi languidamente. Uno presentava un foro proprio in mezzo agli occhi, l’altro sulla tempia destra, da cui colava materiale viscoso.

Dittmar li aggirò, annusò il profumo di dopobarba sul viso del Capitano e quello acre di sudore, urina e paura dai vestiti del prigioniero. Tuffò la lingua in una pozza di sangue, assaggiò appena e si ritirò, sedendosi a guardia dei corpi.

Non poteva sapere di aver assistito all’unico atto discrezionalepossibile in quel luogo. L’orgoglio di una scelta portata alle estreme conseguenze. Il campo era una grande gabbia che ne racchiudeva tante altre, fatte di sbarre, di filo spinato, reti metalliche, pregiudizi e becere narrazioni d’odio dispensate a piene mani.

Anche a lui sarebbe toccata la sua gabbia, appena finito il turno di guardia. Avrebbe mangiato la sua razione, poi si sarebbe acciambellato nel buio, infreddolito e stanco, come all’epilogodi un altro giorno di lotta, come alla fine di ogni sporco lavoro.

«Dittmar!» sentì chiamare da fuori.

Rispose con un singolo latrato, come gli era stato insegnato quando il campo era libero.  

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