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19 Giugno 2024

PRIDE/2

Giugno, mese del PRIDE. Una parola che vuol dire orgoglio, dietro la quale vive un mondo di lotte, di abusi, di diritti, ma anche e soprattutto un mondo di persone: le loro identità, i loro amori, le loro speranze e le loro storie. In questo numero di Spartaco Magazine quattro autori hanno voluto immortalare in quattro diversi racconti, ognuno con il proprio stile e sensibilità, un’istantanea evocata dalla parola PRIDE.


Marco Castagna ci racconta una storia di tenerezza, una fine senza rimpianti ma carica della tenacia dell’amore che non conosce stereotipi, e che trasporta i suoi “eletti” in un ALTROQUANDO che rimarrà sempre pronto ad accogliere chi si ama.

Marco Castagna, autore di “I casi di Bolla, La Morte e il Mago”

UN ALTROQUANDO

Non era stato facile. Niente era facile per uno della sua stazza. Però c’era riuscito. Aveva scavalcato la ringhiera e aveva rasentato il muro camminando sul cornicione. La pancia gli impediva di guardare in basso e questo, pensò, fosse un bene per lui che soffriva di vertigini.

La parte più impegnativa era stata trascinarsi dietro il borsone. Era pesantissimo! Pensò che tra il suo peso e quello del borsone aveva trasportato quasi 130 chili oltre la ringhiera.

Si sentiva strano lassù al quarto piano. Un caparbio venticello teso e fresco gli accarezzava il viso sudato. Era un classico settembre palermitano e lui non si sentiva adatto a tutto quel movimento. Però era così fiero! Il suo piano era andato esattamente come da progetto.

Aveva prenotato la visita cardiologica intra moenia. Non poteva permettersi di aspettare i tempi della sanità pubblica. Aveva pagato il ticket e si era seduto in sala d’attesa. Tre persone erano già a turno prima di lui, ma non gli importava. D’altronde non aveva bisogno di alcuna visita cardiologica. D’accordo: il cuore era a pezzi, ma nessun medico avrebbe potuto ripararlo.

Quando l’ultimo paziente fu ricevuto, afferrò il borsone per i manici e si affacciò al balcone. Adesso era al di là della ringhiera, sul cornicione: lui, la sua pancia e il borsone.

L’edificio dall’altra parte del viale alberato distava meno di una dozzina di metri. Era Il padiglione che tutti chiamavano “il paradiso”: il plesso dove venivano ricoverati i malati terminali. La stanza di Gaetano era proprio lì, davanti a lui.

Era venuto ogni giorno ed era stato parecchie ore seduto su una panchina a studiare la situazione: gli orari, le distanze, chi entrava e chi usciva. Aveva visto arrivare il pasto di mezzogiorno e quello serale contenuti nelle buste ermetiche dentro le scatole di polistirolo.
A un inserviente aveva domandato cosa ci fosse per cena.

«Fesa di tacchino» aveva risposto.

Gaetano odiava il tacchino. Quel giorno Federico avrebbe voluto comprare delle arancine per lanciarle come granate contro la finestra al quarto piano del paradiso.

In quei giorni li aveva visti tutti quelli che andavano a trovare Gaetano. Tutti quelli che avevano diritto di farlo.

La sua ex moglie, suo fratello, sua sorella… Loro – quelli da cui Gaetano era fuggito – avevano diritto.

Lui, che conosceva ogni centimetro quadrato della sua pelle, che conosceva ogni suo sospiro, che condivideva con lui ansie e tenerezze da oltre sette anni, lui no. Non aveva alcun diritto. Era nessuno. Nessuno sapeva neppure chi fosse. Nessuno lo conosceva e in questo, ora come ora, Gaetano non poteva aiutarlo. Il cancro aveva preso alcune zone del cervello che lo rendevano incapace di intendere. Anche se…

Anche se Federico lo aveva visto alla finestra più volte guardare il cielo e studiare la forma delle nuvole oppure seguire il volo di un uccello.

Si erano conosciuti nella libreria di Gaetano. Non proprio una comune libreria: più un presidio di libertà e di uguaglianza.

Gaetano era un attivista anarchico che conduceva una sua personale battaglia per i diritti delle persone LGBT. Gli “arrusi” come li chiamava lui e come amava definire se stesso.

Quando qualcuno gli domandava se fosse omosessuale, lui rispondeva «Io? Ma quando mai? Io sono arruso!»

Perché Gaetano era una persona speciale.

Si erano subito piaciuti: entrambi alla ricerca della libertà. Entrambi emancipati dai canoni stereotipati di bellezza. Entrambi amanti della vita e della poesia.

Gaetano era un orso. Non perché avesse un carattere schivo. Anzi! Era così comunicativo!

No, lui semplicemente si riconosceva in quella corrente della cultura gay definita bear: uomini dalla corporatura robusta, spesso pelosi e sovrappeso. 

Non ne faceva però una questione legata soltanto alla fisicità. Niente affatto! Il concetto fondamentale per lui stava nella rielaborazione e nel rifiuto degli elementi e degli stereotipi dell’immaginario gay maggioritario.

Per Federico fu un’illuminazione. Quell’uomo e il suo mondo lo affascinavano. Per la prima volta in vita sua, si sentì libero, sereno, alleggerito. Si sentì… bello!

Si trovarono e si riconobbero come due anime gemelle e cominciarono a frequentarsi sempre di più, ritagliandosi il tempo necessario.

Il retrobottega era diventata la loro bolla: un luogo ideale, quasi immaginario. Un “non luogo” che conteneva i pensieri, le idee, i sentimenti. Tutto il resto stava fuori. 

Vivevano il loro amore in un altro luogo e in un altro tempo. Altro, rispetto al mondo e ai suoi luoghi comuni.

Questo altro luogo e altro tempo, questa bolla che li proteggeva e conteneva le loro emozioni, Gaetano l’aveva battezzata “altroquando”.

«Ci sarà sempre un altroquando per noi» gli sussurrava quando stavano abbracciati sulla branda guardando il soffitto ingiallito dall’umidità, a saracinesche chiuse in libreria, durante la pausa pranzo.

Il fatto che Federico non avesse mai fatto coming out non era un problema per Gaetano e a Federico non era mai sembrato importante. Ma adesso…

Adesso, all’improvviso, il fatto che nessuno sapesse di loro due gli impediva, di fatto, di vedere Gaetano.

Con un po’ di impegno si tolse la maglietta. Larghe bretelle rosse campeggiavano tra la folta peluria del suo torace e facevano pendent con il cappellino da baseball. Quello era il marchio di Gaetano: bretelle e cappellino rossi.

Adesso la parte più difficile. Ci volle tutta la concentrazione per mantenere l’equilibrio mentre tirava fuori dal borsone l’amplificatore. Era uno di quelli a batterie che usano i musicisti di strada. Infatti era a un chitarrista che Federico aveva dato 50 euro per farselo prestare. Lo conosceva bene perché si incontravano tutti i giorni. Il musicista si piazzava sempre a pochi passi dalla libreria e Federico era uno dei pochi che gli dava una moneta ogni volta.

«Quanto vuoi per prestarmelo per un paio d’ore?» gli aveva domandato.

«Se mi dai 50 euro lo puoi tenere per tutto il giorno».

Tirò fuori un mangianastri, lo collegò all’amplificatore e lo accese. Si sentì un fruscio. Inserì una musicassetta, prese un grosso respiro e premette il tasto play.

Già dalle prime note qualcuno alzò lo sguardo e lo vide lì a torso nudo sul cornicione. In pochi secondi si creò un drappello di curiosi.

La canzone era Vita di Lucio Dalla. La loro canzone. In pochissimi minuti era già al ritornello.

“Siamo angeli con le rughe un po’ feroci sugli zigomi. Forse un po’ più stanchi ma più liberi. Urgenti di un amore che raggiunge chi lo vuole respirare”.

Federico vide il volto di Gaetano attaccato al vetro della finestra della sua camera.

Era il momento.

Tirò fuori lo striscione e lo srotolò in tutta la sua lunghezza reggendolo da un’estremità.

Era alto sei metri: due piani.

Le lettere erano iridescenti, colorate di rosso, arancio, giallo, verde, blu e viola su fondo bianco.

Tutti potevano leggere. C’era scritto: “ci sarà sempre un altroquando”.

Sotto la scritta,  un cuore rosso.

Federico avrebbe giurato di avere visto sul volto atono di Gaetano prendere forma un sorriso.

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