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Quando scrivi?
Non ho un metodo, lo faccio in modo estemporaneo, a folate, nei momenti più diversi della giornata: mattina, pomeriggio, sera e notte. Butto giù le idee che mi vengono in mente, su fogli e quaderni, ma poi per svilupparle le riprendo, trascrivo a computer e rilavoro il tutto. Quando sono in giro e non posso scrivere faccio di tutto per stamparmi in testa le cose e appena torno a casa cerco di ricordarle e annotarle.
Quando scrivi ascolti musica?
Spesso comincio a scrivere ascoltando musica, mi aiuta per raggiungere un certo stato mentale, ma nel corso della stesura, quando la concentrazione cresce, devo spegnere lo stereo e rimanere in silenzio. A quel punto, l’unica distrazione che non mi disturba è quella dei gatti che salgono sul tavolo e si addormentano sui fogli.
Quanti libri hai tradotto?
Cinque romanzi e una decina di saggi. Tradurre è stata la mia sfida più grande. Ho cominciato nel 2004, con La principessa del deserto di mezzo di Hamid Skif (ed. Spartaco), ma non avevo mai tradotto nulla, sono storico di formazione, non linguista, solo conoscevo bene il francese e mi sono messo alla prova così. Tra me e il mestiere di traduttore è stato amore a prima vista, perché trascrivere un testo da una lingua a un’altra è, per chi ama scrivere, come per un meccanico imparare a smontare e rimontare un motore. Ricordo che, sulle ali dell’entusiasmo, per intervistare Hamid Skif sono andato in autobus fino ad Amburgo, poiché aveva ottenuto lo status di rifugiato politico in Germania. La cosa buffa è stata vederlo venire a prendermi alla stazione sotto una tormenta di neve. Un algerino e un italiano a -5°! Abbiamo riso tanto, e ne è nata una bellissima amicizia.
Com’è stato l’incontro con Catherine Camus?
Affascinante. La prima volta che l’ho incontrata, nel 2008, mi ha impressionato per la sua umanità, la disponibilità e la simpatia. Ero stato invitato a Lourmarin nell’ambito del convegno “Albert Camus e i libertari”, e lei era in mezzo al pubblico, attenta a ogni intervento. Si è creata un’intesa istintiva. L’ultimo giorno del convegno è finito a casa sua, con un aperitivo a base di ottimo vino rosé. E’ una donna che ha sofferto tanto ma piena di vita e a cui sento di dovere molto dal punto di vista della motivazione. Come a Nunzia d’altronde, la mia compagna.
Mentre scrivevi i tuoi libri è capitato qualcosa?
Quando scrivevo Gesti convulsi facevo il postino. Ero davvero in una fase convulsa e disillusa della vita. Pur girando con la moto tutti i giorni avevo la sensazione di aver smarrito il mio percorso, credevo di aver chiuso con tante cose. La scrittura mi ha aiutato a capire molti perché, è stato un atto liberatorio. Comunque anche quel lavoro di strada, a stretto contatto con la gente, mi ha dato tanto.
Qualche tuo lettore ti ha chiesto cose insolite su ciò che hai scritto?
Un signore a una presentazione mi ha chiesto se per il mio racconto Veglia funebre Zen mi fossi ispirato a un testo di D’Annunzio intitolato Veglia funebre. È stato imbarazzante dover sfoggiare la mia ignoranza: per un pregiudizio artistico-politico che risale ai tempi della scuola non ho mai letto nulla di D’Annunzio…