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24 Gennaio 2025

PAROLE DI PESO/3

Spartaco Magazine apre l’anno celebrando le parole e dedicando il suo primo numero del 2025 alla PAROLA DELL’ANNO appena trascorso, scelta dall’Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani. È il turno di Piero Malagoli di raccontarci la sua visione del RISPETTO: quando c’è, quando manca, e quando viene tragicamente travisato, piegandolo ai comodi di un male che ha la stessa banalità del lunedì mattina di un burocrate qualunque.

Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo

LA BANALITÀ DEL LUNEDÌ

La panchina del piccolo parco berlinese era ancora umida della rugiada notturna quando Adolf Eichmann vi si accomodò dopo aver steso un fazzoletto per salvaguardare i calzoni appena stirati. Tolse la fetta di torta al ribes dal sacchetto di carta e si mise ad addentarne piccoli pezzi, masticando con gusto. Gli piaceva fare colazione su quella panchina, prima di rinchiudersi in ufficio per un tedioso lunedì lavorativo, guardando il massiccio palazzo al numero 8 di Prinz Albrecht Strasse, sede degli uffici amministrativi dell’RSHA, l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich. Certo non era il Reichstag, abbandonato dopo l’incendio del ’33, ma ne apprezzava l’aria ottusamente marziale. Alcuni piccioni gli si avvicinarono guardinghi, richiamando a loro volta un paffuto ragazzino biondo allontanatosi di qualche passo dalla madre. Eichmann gli offrì alcune briciole, in modo che il bambino potesse attirare i volatili. Quando la madre fece per richiamarlo, Adolf la pregò di lasciarlo fare.Adorava quei piccoli angioletti dalla pelle color del latte.

Un anziano distinto attraversò il vialetto salutandolo in modo affabile.

«Buongiorno Eckbert» Rispose con un sorriso pulendosi le labbra col tovagliolo di carta, appallottolando il sacchetto vuoto.

«Hai passato un buon fine settimana?».

«Che devo dirti, Adolf? Sempre uguale. Per un pensionato domenica o lunedì… non fa differenza. E tu?”.

«Siamo stati a teatro, ieri» Rispose Eichmann alzandosi e scrollandosi di dosso poche briciole «A vedere Lohegrin».

«Anche il piccolo Dieter?».

«No, siamo andati io e Vera. Lui è ancora troppo piccolo… si sarebbe annoiato a morte. Ora fammi andare, che in ufficio aspettano soltanto me».

Salutato il vecchio, attraversò la strada e dopo un centinaio di metri svoltò nell’androne dell’edificio, dove un giovane in uniforme nera da SS lo salutò con uno schiocco di tacchi. Eichmann era in borghese quella mattina. Verso mezzogiorno avrebbe dovuto accompagnare Vera dal medico, per la sua seconda gravidanza, e aveva notato come senza divisa i rapporti con i civili risultassero più distesi.

Man mano che saliva le scale per raggiungere il suo ufficio al secondo piano si concentrava sui problemi derivanti dal suo incarico, come se la leggerezza dell’aria autunnale andasse via via condensandosi in nubi temporalesche.

Per la verità la spensieratezza del fine settimana si era dissolta la sera precedente, quando rincasando dal teatro la governante gli aveva consegnato un telegramma urgente proveniente dal ministero. Era firmato da Muller, capo della Gestapo, che lo avvisava di non aver potuto avallare i documenti relativi al trasporto previsto quella mattina stessa.

Prima di entrare in ufficio Eichmann sbirciò in quello di Ghunter, suo diretto collaboratore, per vedere se fosse già al suo posto e a conoscenza del contrattempo. La stanza era vuota. Alle spalle della scrivania troneggiava l’imponente lavagna, ancora piena dei numeri di convogli e dei suoi occupanti, a cui tutti loro avevano lavorato alacremente fino al venerdì sera. Gli si strinse il cuore pensando a tutto quel lavoro sprecato. Tanti bravi padri di famiglia che inutilmenteavevano sottratto ore del loro tempo perché le cose funzionassero a dovere. Una mancanza di rispetto intollerabile.

Amareggiato entrò nel suo luminoso ufficio. Ecco le carte nefaste ad attenderlo in bell’ordine sulla scrivania.

Si sedette senza nemmeno togliersi il cappello e le scorse velocemente, cercando il problema… quello a cui aveva accennato Muller nel suo telegramma.

Lo trovò in fretta, evidenziato nel rapporto arrivato nella notte dal fidatissimo Richter, di stanza a Bucarest e controfirmato dall’ambasciatore in Romania.

Non c’era stato nessun intoppo procedurale od organizzativo, se non che il primo ministro romeno Antonescu aveva bellamente cambiato idea, così, da un giorno all’altro.

A quel punto i loro sforzi per trasferire duecentomila ebrei romeni si stavano vanificando.

Soltanto un anno prima, Antonescu aveva preso a deportarli in modo caotico e disorganizzato… e ora?

Fu sollevato constatando che le cause del fallimento non fossero imputabili a lui o al suo ufficio, ma lo sconforto dello smacco subito era bruciante.

In meno di un mese lui, Gunther e tutto lo staff avevano organizzato duecento convogli, raccattando treni da tutto il Reich, implorando ministri e litigando con sottosegretari.

Avevano ottenuto autorizzazioni e intavolato trattative, un lavoro imponente, svolto in un tempo brevissimo conchirurgica precisione. Avevano dovuto creare posto nei campi e compilare migliaia di pagine di registri.

A questo pensiero Adolf fu colto dall’amarezza. Si tolse il cappotto e lo lasciò cadere sullo schienale della sedia, poi trasse una chiave dalla tasca dei calzoni e si recò nell’archivio in fondo al corridoio. 

In una serie di scaffalature scorse il dorso dei registri su cui la sua calligrafia aveva vergato nomi in stampatello con una stilografica nera: Treblinka, Chelmno, Majdanek, Auschwitz, Bergen Belsen… Fece scivolare fuori i tre volumi da consultare: Lublino, Belzec e Theresienstad,incurante della polvere sulla giacca scura.

Tornando nel suo ufficio vi trovò Lydia, una delle sue segretarie, che sistematogli il cappotto lo salutò con un sorriso. Il suo viso era rosso di aria e sole, probabile conseguenza di un pomeriggio in riva a uno dei laghi del Wannsee col fidanzato.

Mettendosi a sfogliare quei registri, Eichmann accarezzò le pagine che aveva riempito nei giorni precedenti. Colonne di date e codici di convogli. Giorni di arrivo, che variavano a ogni pagina, e altre annotazioni statistiche ripetute per molte righe. Poi numeri… e numeri… e numeri.

Solo il registro di Theresienstad prevedeva nomi. Nomi di ebrei in vista, tenuti lì come animali allo zoo. Per il resto numeri… e numeri… e numeri.

Le ultime pagine recavano quelli che avrebbero dovuto partire da Arad, Timisoara e Turda nella settimana appena iniziata. Temeva che le date di arrivo non sarebbero mai state annotate.

Che fare di quelle pagine? Cancellarle con due segni di penna trasversali o mettere un timbro ‘Annullato’ ininchiostro rosso nella parte superiore? Avrebbe avutosenz’altro un’aria più ufficiale. Era una questione di rispetto delle regole, dell’etichetta… senza il quale nulla avrebbe avuto più senso. Accarezzò l’idea di far ricopiare tutto il registro dall’inizio da qualche matricola sfaccendata, ma ci avrebbe ragionato in seguito.

Ora c’era da pensare a tutti quei numeri ammassati nei centri di raccolta, in attesa di treni che non sarebbero arrivati.Adolf aveva smesso da tempo di concepire volti e vite dietro quella serie interminabile di cifre. Vedeva vagoni da riempire, con duemila numeri per convoglio, i cui codici dovevano corrispondere esattamente a quelli riportati neisuoi schedari. Registrava date di arrivo, che annotava appena ricevuta conferma dai campi e quelle delle esecuzioni che dovevano coincidere col numero dei nuovi arrivi se si voleva che tutto funzionasse a dovere.

Sentì Ghunter arrivare trafelato in ufficio e lo chiamò attraverso la porta socchiusa per spiegargli cosa stesse succedendo. S’impose di mantenere la calma, non voleva che Vera lo vedesse agitato, andandola a prendere qualche ora dopo.

Dal primo cassetto della scrivania prese un confetto alla menta e si rassegnò ad affrontare un lunedì piuttosto spiacevole.      

C’erano telefonate da fare. Avvisare Franz Novak, dei trasporti ferroviari. Da lui si aspettavano ordini precisi, che rinfrancassero i sottoposti scoraggiati dai contrattempi. Avrebbe dovuto relazionare ad Himmler in persona.

Anzi… prima ad Heydrich, poi, eventualmente, a Himmler. Era una questione di rispetto gerarchico, altrimenti, di questo passo… dove si sarebbe andati a finire?

Etichette: edizioni spartaco, La banalità del lunedì, Nel rimorso che proveremo, Parole di peso, Piero Malagoli, racconti, Spartaco Magazine