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«Finiscimi, ti prego!».
Quanto mi piace quando mi supplicano. Un carburante bello, elettrizzante. La linfa che mi scorre nelle vene, l’antidoto contro la noia.
Lui mi supplica, ancora. Qualsiasi cosa pur di far finire la tortura.
Ma non sono un killer, io. Non uccido, almeno fino a qui non l’ho mai fatto. Non mi è mai sfuggita di mano, la situazione. Che possa succedere lo metto in conto. Sono creature fragili, in fondo, gli esseri umani.
Infliggo dolore, questo sì. Un dolore su misura, studiato e confezionato come un abito di alta sartoria.
«Pensi di averne avuto abbastanza?».
È un uomo, non mi stupisce. Sono quasi sempre uomini quelli che mi ritrovo tra le mani. Quasi sempre hanno cinquanta, sessant’anni, lavori rispettabili. Non voglio saperne il nome. Mi bastano una foto e un indirizzo per trovarli, nessun’altra cautela. Sono persone abituate a farla franca, a giocare col potere, a godere del potere. La sensazione di ridurli a un ammasso piangente e sanguinante è spettacolare. La loro impotenza è la mia delizia, miele sulla lingua.
«Ma io… io…».
Questo continua a piagnucolare. Non importa quanto li spezzi, non riescono a trovarla la dignità di tacere.
«Bene, non ne hai avuto abbastanza. Possiamo parlare un po’».
Mi siedo davanti a lui. Ho tutto il tempo del mondo. Ma non tutta la vita
«Hai capito perché sei qui?».
Gli chiedo. Quello scuote la testa. La rabbia non ti basta, quando fanno così. Quando sembrano aver dimenticato.
»Devo rinfrescarti la memoria?». Chiedo, e tiro fuori di nuovo il coltello «Vediamo se ti ricordi. Hai fatto una cosa, qualche anno fa. Una cosa che ha cambiato la vita di una persona, e non in meglio».
Quello sembra ricordare, sotto i connotati rovinati vedo che l’espressione si fa assorta.
«Di che parli?». Mugola «Un ragazzo… una ragazza?».
Quindi non è stato uno solo. Dovevo aspettarmelo. Raramente la vittima è una.
«Un bambino» gli dico, con tutto il veleno che ho. «Un bambino mi ha mandato da te. E per quello che gli hai fatto, ora, pagherai».
Gli vedo il terrore negli occhi. Lo gusto fino all’ultima goccia. Giocherello con il coltello, lascio che la lama intercetti la poca luce che filtra dalle finestre sporche del capannone. Poi, fulmineo, gli sono addosso. Urla. Non mi importa. Qui nessuno ci può sentire.
Smetto solo quando sono soddisfatto del mio lavoro.
«Ti muovi?». Gli dico allora. Voglio che si alzi, ora che ho finito, che se ne vada via. Gli getto addosso gli abiti, la sua nudità mi disgusta. Sono stato frettoloso, i tagli che ha addosso non sono netti come avrei voluto. Sinceramente, ho fatto di meglio.
»Vuol dire che posso andare?». Chiede con un filo di voce. Un omone così, che solo tre ore prima credeva di essere impunito e imbattibile, completamente alla mia mercè.
«Vai!». Gli dico, ancora. »Altrimenti ricominciamo tutto».
Era la spinta che gli mancava. Con gli occhi bassi e le mani tremanti inizia a rivestirsi. Lo guardo perché so che questo lo imbarazzerà di più. Lo osservo mentre cerca di reprimere smorfie e gemiti di dolore al contatto della stoffa sulla carne viva. Lo vedo che sbircia i tagli che ha sul petto, io immagino già la cicatrice che lasceranno.
La farfalla incisa sulla pelle del petto e della schiena già non sanguina più. È per questo che mi chiamano Mariposa. Il mio marchio, il mio nome in codice. Una farfalla a nome di tutti i bambini perduti.
Forse sarebbe più facile sparargli, a questi maledetti relitti, a questa feccia umana. L’ho pregustato, a volte, il gusto di farli fuori. Un lavoro pulito, una pistola
Click… boom!
Nell’immaginazione non serve usare un silenziatore.
Invece li lascio andare, tutti, perché convivano con il ricordo e la cicatrice. Tanto nessuno mi è mai tornato a cercare. Sanno di esserselo meritato.
Passando dentro al parco oltrepasso il muro carico di graffiti. Spicca fra tutti, lucida e nuova, una scritta insensata e bellissima: GOVERNO PUNK, tutta in maiuscole. Poi eccole, le due altalene arrugginite. Fa male ogni volta, vederle. È per questo che ci passo davanti ogni volta. Mi assale come sempre l’onda alta dei ricordi. È qui che è cominciato tutto. È qui che ho incontrato il Male. Non sono riuscito a fuggire, quella volta, non sono riuscito a salvare il bambino che ero. Posso vendicarlo, però, come vendico tutti quei bambini vittime di orchi a cui lo Stato non ha saputo dare la giusta punizione. Diamanti grezzi che non hanno mai avuto la possibilità di brillare, potenziale stroncato da mani nemiche.
C’è Carmine all’angolo, seduto sul bordo del marciapiede. Ha la bottiglia accanto mezza vuota, lo sguardo che vaga. Mi frugo nelle tasche e gli allungo cinque euro
«Tutto qui?». Sbiascica con i pochi denti rimasti.
«Non ho altro, amico. Mi dispiace».
Faccio per andarmene, ho fretta di lavarmi di dosso questa giornata. Ma lui mi richiama indietro, e io non ho cuore di lasciarlo solo. Sono anni che lo incrocio a questo angolo, nel gesto autodistruttivo di alzare ancora e ancora la bottiglia alle labbra ci vedo quello che sarei potuto diventare io.
«Uagliò» mi dice, e si vede che vorrebbe parlare, ma la voce è un sibilo. Mi fermo e aspetto
«Vojo morì» gli esce tutto d’un fiato, un fiato doloroso e stremato.
«Aspetta» gli dico, e faccio una corsa al negozio più vicino. Torno con una bottiglia di vino costoso già stappata. Bevo un sorso lungo, e poi gliela passo.
«Non è giorno per morire, oggi. Bevi questa alla mia salute. E poi, a quelli come noi, il cielo non ci vuole. Tocca restare vivi».
Beve un po’ sospettoso, ma il sapore del vino buono lo rincuora tutto insieme. Giù e poi ancora giù.
Mi fa un sorriso sdentato, ma in qualche modo sereno.
«I p’ me, tu p’ te» biascica ancora. Forse è un augurio, forse una maledizione, forse il vaneggiare di un alcolizzato che si è bruciato la vita e i pensieri.
È tutto marcio in questo mondo, come sono marcio io. Tu, no. Faccio le scale di casa mia, di corsa, quasi in apnea. Lì mi ritrovo e ti ritrovo, leggera e cristallina: il mio amore, la mia ancora. Non sai di me, non sai tutto. Un giorno te ne parlerò. Te ne avrei già parlato, se non avessi avuto paura di distruggerti e di distruggermi, di leggere la pena e l’orrore. Non voglio che mi tratti come una cosa fragile, come il bambino abusato che sono stato.
Ho bisogno che continui a inondarmi di sole come solo tu sai fare.
Quando apro la porta sei già lì che mi aspetti con un sorriso furbo. Nemmeno mi saluti, ne hai pensata un’altra delle tue
«C’è una festa in maschera stasera. Tema Disco anni Settanta. Ce li hai ancora quei pantaloni a zampa?».
La meraviglia di te, della tua gioia.
«Sono pazzo di te», mormoro con la faccia affondata nei tuoi capelli che profumano.
«Per così poco? È solo una festa».
Ma tu brilli, l’appartamento si illumina di te. Se mi ami, se resti qui, posso ancora pensare di fare un capolavoro di questa vita storta che mi è toccata in sorte.
«Non sei curioso di sapere come mi vesto io?». «Moltissimo».
«Ho fatto una follia. Ho preso una tuta gold completamente aderente. E una parrucca afro. Stile Studio 54. Che ne pensi?».
«Sei pazza», ti dico ridendo, tu mi baci ed è più di un bacio, più come una cura, una salvezza.
E io dopo tutto l’odio che ho sputato, ora qui, con te, ho l’amore in bocca.
I titoli (rac)contano: Flaminia Festuccia ha scritto la sua storia inserendo i titoli di tutte le canzoni in gara al Festival di Sanremo 2024. Eccoli:
Nicola ha sentore di terra ed erba tagliata. Gerry sa di vernice acrilica e borotalco, Al di tabacco e gomme alla menta. Di Silvia le tracce sono inafferrabili. È a naso che Giacomo riconosce i veri amici, quelli che nell’estate più lunga e straordinaria e terribile della sua adolescenza gli segneranno per sempre la vita. Sono i Conigli, un gruppo di liceal…
Etichette: Flaminia Festuccia, Spartaco Magazine, Speciale Sanremo 2024