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«Io sono un irregolare. Fondamentale, nella stesura di un testo, è imparare a restare seduti a lungo. Gogol diceva che, se non viene fuori nulla, è sempre meglio restare alla scrivania (sciatica permettendo, aggiungo io) e scrivere che non viene fuori nulla, piuttosto che allontanarsene».
Come nasce un romanzo?
«Di solito all’idea di base, allo spunto iniziale, faccio seguire la costruzione di una griglia compositiva, con poli di attrazione e di svolgimento. Scrivo gli spunti a penna, una biro; li amplio poi al computer, che pare a volte far scaturire da una sua magia interna uno sviluppo espressivo consono alla materia che sto trattando. Sì, il computer, mi è sempre stato utilissimo, compagno fedele perché veloce e ammiccante. Come nel caso di Sertorio».
Come hai utilizzato al meglio le fonti nel romanzo “Le pergamene di Sertorio“?
«Le parti effettivamente romanzate nascono sempre da spunti plutarchiani. Prediligo il racconto in prima persona. Ritengo che i punti strategicamente più importanti siano l’incipit e l’explicit. Do molta importanza alle scene dialogate, alla caratterizzazione fisiognomica che bene si leghi a quella psicologica, ai colpi si scena. E ancora: amo il discorso indiretto libero, il soliloquio, che può diventare monologo interiore, a volte al limite del flusso di coscienza. Per quanto riguarda gli espedienti narrativi, mi piace la simulazione del parlato, l’elenco o enumerazione, certe meraviglie di un pacato virtuosismo linguistico, il linguaggio figurato ma senza abusarne».
E tra i virtuosismi linguistici, ci sono gli anagrammi.
«Ebbene sì, sono un anagrammista. Fin dal tempo in cui, primattore di un circolo universitario, scoprii che l’anagramma di TEATRO era ATTORE e, a seguire, quello di DANTE ALIGHIERI è HAI L’ARTE DI GENI. Da allora non mi sono fermato più».
Ma come, gli anagrammi si “scoprono”?
«Certo, l’anagramma non si inventa, non si crea, si scopre e può dare esiti diversi: l’anagramma di MALORE è MORALE, ma può anche trovarsi in bocca, nel MOLARE. C’è qualcosa di indubbiamente cabalistico, enigmatico, nell’arte anagrammatica. Da qualche parte lessi che ANAGRAMS (inglese) dava ARS MAGNA (latino) e che perfino a Gesù la leggenda attribuisce una bella frase anagrammata; Pilato gli chiede: QUID EST VERITAS? (Che cosa è la verità?); e pare che Gesù risponda: EST VIR QUI ADEST (È l’uomo che ti sta davanti)».
Anche a Sertorio hai deciso di attribuire la capacità di fare anagrammi…
«Già, gli anagrammi in latino. Mi hanno contaminato. E da sempre era mia intenzione calarli in un contesto romanzesco. Non è forse vero che l’anagramma di SERTORIUS è ERIS SUTOR? Che significa? Tocca a voi scoprirlo leggendo il romanzo. Alle volte penso che l’arte anagrammatica sia un segno dell’incoerenza umana, della sua “contrarietà”. Tant’è che uno degli anagrammi di CONTRADDIZIONE è CONDIZION D’ARTE».
Qual è l’ambiente ideale per poter scrivere?
«Quando scrivo ho bisogno del silenzio più totale. Alcuni capitoli delle pergamene sertoriane li ho scritti in una mia casetta di campagna non lontana do Norcia (Nursia) la patria di Sertorio. Poi, ahimè, è arrivato il terremoto e, giocoforza, sono dovuto rientrare nella splendida ma fin troppo motorizzata Roma».
Nelson Martinico, al secolo Giuseppe Elio Ligotti, ha condotto un’officina di tecnica della scrittura nei peggiori licei classici romani (ha vinto per ben tre volte il Premio “Mario Luzi”) e, come contrattista, all’Università La Sapienza di Roma. Con il figlio, Federico Ligotti, ha pubblicato il romanzo “La proprietà transitiva” (Edizioni Spartaco 2015). Fresco di stampa il suo nuovo romanzo “Le pergamene di Sertorio. Il romano che sfidò Roma”.
Etichette: consigli di scrittura, nelson martinico, scrittori, sertorio