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13 Dicembre 2024

LUCI SPENTE, STORIE ACCESE/1

Dicembre, fermi tutti: arriva il Natale. Anche Spartaco Magazine si lascia contagiare dall’atmosfera natalizia…o forse no? Gli autori di questo mese spengono le luci sulle feste, le accendono su storie ai limiti. Inizia Eva Capirossi, amica Spartaco e splendida editrice con Scritturapura, che ci racconta un personaggio oscuro, per cui il Natale è un rituale mistico, che conduce all’estremo sacrificio.

Eva Capirossi, Direttore editoriale della casa editrice Scritturapura

L’OSPITE ATTESO

Ero lì, immobile, aggrappato sul fondo.

Ogni volta che aprivano lo sportello trattenevo il respiro.

In quei pochi secondi la luce mi feriva, ma riuscivo a scorgere qualche ombra. Indovinavo il monopattino appoggiato al muro, la ciotola del cane, le scarpe davanti alla porta.

Era tutto il giorno che i rumori mi giungevano attutiti in quell’anfratto buio.

Provavo a decifrare tonfi, sibili, stridori che mi suggerivano altrettante immagini: giacconi buttati sul letto, vapori che facevano sobbalzare appena i coperchi delle pentole, strofinacci che lustravano i calici fino a svelarne lo scintillio. E poi tutti gli AH AH, HO HO, WOW, EHH. 

Le ore passavano e la mia ansia cresceva come i cumuli di neve che avevo intravisto mentre sfrecciavo lungo i marciapiedi, soltanto poche ore prima.

Ed ora me ne stavo nascosto come un topo. Un’assurdità. 

Sentivo i loro sguardi addosso, anche se lì dentro nessuno poteva vedermi.

Le parole erano indistinguibili ma le percepivo minacciose. Li immaginavo ammiccare, additarmi, allungarsi verso di me, come volessero stanarmi. Come se tutti volessero farmi credere di non sapere che fossi lì ma intanto murassero l’uscita con ghigni deformi.

Dovevo allontanare la paura.

Il crepitio del fuoco, lo sciabordio nei tubi, l’intermittenza colorata che si insinuava dallo spiraglio, mi aiutavano a dilatare il tempo, e in quel momento era tutto ciò che desideravo.

Per la prima volta mi rendevo conto di cos’era una festa: un momento di sospensione della verità, con le maschere che aderivano male sui volti. Un rito ancestrale, un sacrificio rituale in cui si offriva una parte di sé in cambio di un’illusione di felicità. Un patto diabolico sigillato da un brindisi di lacrime.

Dalla fessura si insinuavano aromi penetranti, densi, quasi palpabili.

Era un insieme di profumi sconosciuti ed effluvi familiari che accompagnavano la cena.

Le voci, gli scoppiettii, i gridolini erano come il metronomo che scandiva il tempo della mia prigionia.

Non c’era altra via di fuga, ormai, che ripensare ai compagni che avevo lasciato all’improvviso: l’ebbrezza del contatto, la sensazione di far parte di qualcosa di più grande, l’orgoglio di essere squadra. Ricordavo che eravamo undici, con le divise identiche e colorate, allineati a bordo campo. Davanti a noi gli avversari, schierati come uno skyline illuminato.

L’ordine, la simmetria: era quasi inquietante. Solo il battito accelerato dei cuori sotto le maglie scure spezzava quell’attesa quasi insopportabile, un misto di eccitazione e trepidazione di chi sta per vivere un’emozione unica.

Si accesero finalmente le luci sull’arena e nel giro di pochi istanti accadde l’impensabile. 

Fummo prelevati all’improvviso, uno ad uno, con un atto rapace. Ebbi il tempo di scorgere appena degli individui che avevano invaso la linea dell’orizzonte in maniera talmente fulminea che parvero calati dall’alto.

Ricordo solo il terrore mentre venivo trascinato in mezzo alla folla che urlava, spinto a forza su un furgone dai vetri oscurati.

Inutile cercare di incastrare i pezzi di quel puzzle macabro e del mio disperato tentativo di fuga. 

Ma ora, in qualche modo che non riuscivo più nemmeno a ricostruire, ero arrivato fino a lì.

Desideravo davvero tornare da dov’ero venuto? Se anche mi fossi salvato, che destino mi attendeva?

Le ore passavano e l’oscurità era un mantello, un bozzolo opprimente, un’illusione amara di salvezza. 

L’aria divenne più calda. Il pasto doveva essere arrivato al suo culmine. Le voci erano meno garrule, la concitazione lasciava il posto alla mollezza. 

Potevo avvertire la loro sazietà come un’onda lenta e mostruosa che saliva ad ammorbarmi.

Mi sembrò di avvertire una nota agrumata. E poi quel CRAC improvviso.

Sapevo cos’era. Lo avevo temuto per tutto quel tempo.

Quel suono mostruoso si propagò nell’aria immobile del mio piccolo buco nero, come un osso che si spezzava sotto la spinta di uno strumento di tortura o un arto che si frantumava sotto le ganasce di una ruspa, rilasciando un odore acre di legno vecchio e paura.

Sapevo che era il grido di battaglia. Era la voce rude di Caronte. Era la fine.  

Era il guscio della prima noce che aveva ceduto di schianto.

Adesso toccava a me.

Stavolta la voce mi giunse netta: “Vai a prendere il panettone”.

Etichette: edizioni spartaco, Eva Capirossi, L'ospite atteso, Luci spente storie accese, racconti, Spartaco Magazine