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18 Giugno 2025

LE PAROLE TRA NOI LEGGERE/3

Le parole tra noi leggere. Ma capaci di restare. Di aprire mondi, ferire dolcemente, accendere pensieri.

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2025, Edizioni Spartaco ha invitato lettrici e lettori, bookblogger e autori emergenti a raccogliere una sfida: dare forma a un racconto ispirato al tema dell’edizione, “Le parole tra noi leggere”, e festeggiare così insieme i trent’anni della casa editrice.

Ne sono nate storie diverse per tono, voce e atmosfera, ma tutte accomunate da uno sguardo attento, da una scrittura che sa sostare sulle sfumature, da parole che sanno lasciare un segno.

I racconti vincitori del contest sono stati selezionati per originalità, coerenza con il tema e qualità narrativa. Un piccolo omaggio al potere della scrittura. E a chi sceglie ancora, ogni giorno, di abitare le parole.

L’autore di “Cabina 504” scrive con lo pseudonimo di Mario Mandes. Nato a Bologna nel 99, attualmente vive in Romagna.

CABINA 504

22:47

Ogni sera, alla stessa ora, Theo era dentro la cabina 504. Quella scatola di vetro e metallo arrugginito, sporca di graffiti e adesivi pubblicitari. La scritta in alto, rossa e sbiadita: TELEPHONE. La lampadina era bruciata da chissà quanto tempo. 

Si trovava vicino alla stazione dei treni del paese. Era una delle ultime rimaste in tutta la città, forse in tutta la nazione. Un miracolo che stesse ancora in piedi. Un miracolo che funzionasse.Un miracolo che qualcuno la utilizzasse. Era dimenticata dal mondo, per questo motivo probabilmente non l’avevano ancora smantellata. Era viva, ma nessuno la guardava davvero. Le persone ci passavano accanto, evitandola, come fosse solo un ostacolo per la loro destinazione. Erano tutti ciechi. 

Lui invece era lì, ogni sera, alle 22:47. Immancabilmente con una felpa scura addosso. Scura come l’asfalto bagnato. Il cappuccio a nascondergli la testa. Probabilmente per non farsi riconoscere. Ma da chi? Forse da sé stesso. Perché bisogna dirlo, non era una zona molto frequentata, soprattutto a quell’ora. Lo spettatore medio poteva essere un tizio a spasso con il cane. Ma difficilmente si accorgeva di lui, dentro la cabina. Era silenzioso nei gesti e nelle parole. Camminava sempre a passo svelto e, di quando in quando, girava la testa indietro. Come per controllare che nessuno lo stesse seguendo. Passava per il parco, accanto ai binari del treno. Sotto lampioni stanchi. Qualcuno spento. Qualcun altro intermittente. Con una sigaretta penzolante tra le labbra. La teneva lì, ma non la fumava. Aspettava di arrivare alla cabina. Poi apriva la porta,cigolante. Un lamento che non vorresti sentire a quell’ora dellanotte. Ma a lui non faceva più effetto. Entrava. Tirava fuori dalla tasca un accendino, girava la rotella meccanica con il pollice, e infine premeva il tasto. La scintilla. Poi il crepitio appena percettibile della carta che prende fuoco. Il primo tiro. Emetteva un soffio lento, come se potesse alleggerirgli l’anima.

Rimetteva l’accendino in tasca e, al suo posto, tirava fuori una moneta. La infilava nella macchinetta. Ripeteva lo stesso movimento tre volte. Sembrava un rituale. Iniziava a comporre i numeri sulla tastiera. Ormai le sue dita conoscevano la combinazione a memoria. Più del cuore, più della mente.Guardava il vetro di fronte a sé, pensieroso. Si girava verso la foto di Sofia, appiccicata accanto. Poi alzava la cornetta, un po’ sporca ed appiccicosa, portandosela all’orecchio. 

hai mica una moneta?

Theo era in quella cabina anche quando si incontrarono. La prima volta. Sembrava una mattina autunnale qualunque. Pioveva sottile, spinta dal vento. Di quelle piogge che ti entrano ovunque. E lui correva per non perdere il treno. Sempre in ritardo. Lo zaino glisbatteva sulla schiena, le scarpe zuppe dopo pochi minuti. Gli sembrava di correre su due spugne — gnicgnacgnicgnac.

Poi, vedendo il treno allontanarsi, si fermò. Non c’era più fretta. Camminò, mentre la pioggia gli scivolava addosso più lenta, quasi con dolcezza. Il treno lasciava un’eco nell’aria. Ancora un po’.Ancora un po’. Poi niente. Silenzio. Come un ricordo che si spegne ma continua a vivere da qualche parte. Doveva aspettare 15 minuti. Ma si sa, non sono mai solo 15 minuti. Si rifugiò nella cabina, l’unico posto davvero chiuso. Abbassò la zip della giacca, estrasse un astuccio, si rollò una sigaretta. L’accese. Di tanto in tanto controllava l’orologio. Era incantato da un vecchio annuncio con i numeretti da staccare: RIPETIZIONI DI INGLESE A 15 EURO L’ORA! Ne staccò uno. Poi bussarono. Un colpo secco sul vetro. Theo sobbalzò, quasi gli cadde la sigaretta. La spense in fretta. Il cuore gli pulsava in gola. Poi la vide. Era lì, come un’apparizione, con i capelli scuri incollati alle guance, un po’ arruffati. L’espressione timida. Sembrava dire molto più di quanto le parole potessero contenere. – Hai mica una moneta? – chiese. Theo si sentì improvvisamente fuori posto. Come se fosse lui a disturbarla. – Entra! – rispose, d’impulso. La voce incrinata. Fece un passo indietro. Le mani in tasca per nascondere il tremore.

La guardò mentre entrava. Il modo in cui muoveva le labbra, leggero, come se parlasse solo quando strettamente necessario. Theo abbassò lo sguardo, cercando di non fissarla. Forse era la sua voce, o il disagio che lo circondava come una giacca troppo stretta.

Lei non sembrava notarlo. O faceva finta. Prese posto accanto a lui. Theo sentì il profumo della pioggia mescolarsi al suo. Un mezzo sorriso le attraversò il volto mentre lui le porgeva 50 centesimi. Un gesto semplice, ma che lo fece sentire nudo.Vulnerabile. – Grazie mille! Mi hai salvata. Sono Sofia, comunque. – disse. E per un istante, lui pensò: è così che cominciano le storie? Quelle grandi? Quelle che non sai riconoscere finché non le hai già dentro? – Piacere, Theo. – Lei compose il numero come fosse un segreto, poi sollevò il ricevitore senza dire altro. Lui si guardò intorno, cercando una via di fuga nei dettagli della cabina. Ma non trovò nulla.

il telefono senza fili

Erano passati quattro anni da quel primo incontro. Quattro anni di relazione, che sembravano dieci minuti. E Theo ricordava ogni giorno passato insieme. Ogni appuntamento che le aveva dato alla cabina. Ogni passeggiata. Come quando lei gli aveva chiesto di prendere un cane insieme. Un piccolo dalmata. O quando lui le leggeva i libri, stesi sui colli, mentre lei prendeva il sole e ognitanto gli chiedeva di ripetere una frase, perché le sembrava strana. E quel giorno in cui, seduti sulla panchina di un parco, mentre lei gli faceva il resoconto della sua giornata, passarono dei ciclisti in lontananza e urlarono – SPOSALAAA! Si misero a ridere, ma lui ci stava pensando davvero. Poi ricordava l’ultimo desiderio, quellodi trasferirsi, prendere casa insieme, magari vicino al mare. Era tutto perfetto. Finché, un giorno, lei se ne andò. Senza fare le valigie, senza lasciare un biglietto. Nessuno sapeva il perché. – Era una ragazza così bella, che peccato! – gli dicevano i vecchietti del paese quando lo incontravano. Come se lui non lo sapesse già. Così, a Theo non restava altro che la speranza. La speranza fasulla che prima o poi, Sofia rispondesse a quel maledetto telefono. Di nuovo le 22:47. Di nuovo lui, da solo però. Di nuovo tre monete. Discuteva con la sua sigaretta, come se potesse dargli torto. E stritolava il telefono, sempre più duramente. Forse credeva chequel gesto, unito al ricordo dei suoi occhi riflessi contro il vetro della cabina, potessero portarlo indietro. Preso dalla rabbia battéripetutamente la cornetta contro il vetro. Un colpo, due, tre.Finché non si crepò, espandendosi a ragnatela, ed emettendo un crepitio sinistro e continuo, come se il silenzio stesse andando in frantumi. Era un urlo trattenuto. L’unico modo per non esplodere. Ma nessuno lo avrebbe sentito, comunque. Si fermò, ansimando, con la testa appoggiata al vetro. Iniziarono a colare lacrime sulle sue scarpe di pelle. Le guardava ticchettare. Poi, quasi pentito per aver rovinato l’ultimo luogo che li teneva ancora uniti, quel filo invisibile, che si ostinava a credere ancora teso, sussurrò – scusa, non volevo.

Si girò un’altra sigaretta, mentre qualche goccia bagnava la cartina. – mi manchi. – aggiunse, a denti stretti. Le sue mani e le labbra tremavano ancora. Il respiro era irregolare. Come ogni sera, per quei 13 minuti, lui ascoltava. Il silenzio proveniente dall’altro capo della cornetta era identico, eppure ogni volta gli sembravadiverso. Gli sarebbe bastato anche un – ciao -. Forse stava diventando pazzo, perché qualche volta giurava di sentirla respirare. Altre volte credeva di sentire la sua risata, lontana. Come l’eco del treno che scompariva quella mattina d’autunno. La mattina in cui tutto ebbe inizio.

– ti prego, rispondimi. – disse.

13 minuti

Ogni sera, alla stessa ora, trascorreva 13 minuti in quella cabina.Non per un obbligo. Né per abitudine. Ma perché sentiva il peso di una scelta che non riusciva a prendere, nell’arco di quella manciata di minuti. Lasciar andare. Andare avanti. Restare fermo. Subire in silenzio. Era come un orologio rotto che continua a ticchettare all’infinito. Fino a quando un fischio lontano gli penetrava i timpani. Se lo sognava la notte, quel suono. E poi i fari gli illuminavano il volto, costringendolo a distogliere lo sguardo. Sembrava il protagonista di uno show televisivo, al centro del palcoscenico, con le luci puntate solo su di lui. Qualche secondo di silenzio. E poi ancora quell’eco. L’ultimo treno delle 23:00 era passato, e lui usciva dalla cabina per tornare a casa. 

Ogni sera le raccontava una storia vissuta insieme, ma vista dai suoi occhi. Quei dettagli che lei forse non aveva mai notato. O forse perché si dicevano anche senza parlare. Come quella mattinaterribile che stava passando in ufficio. Fino a quando non controllò l’agenda, accorgendosi di tutti i disegni e gli scarabocchi che lei aveva lasciato a sua insaputa. Quei gesti. Quei piccoli gesti, gli facevano credere di aver vinto tutto. Si appoggiava alla cornetta, di solito iniziava piano, le raccontava un episodiosuccesso a lavoro o, com’era il tempo fuori. Man mano che le parole uscivano però, s’intristiva. Non perché parlasse da solo, ma perché dentro di sé sapeva che non avrebbe potuto farlo per sempre. – non sai quante cose avrei voluto dirti, prima che te ne andassi. Ti ricordi quel pomeriggio che… ti diedi appuntamento proprio qui, forse perché la consideravo una cosa romantica. E dopo il nostro primo bacio, tu camminavi accanto a me, sul cordolo di cemento, cercando di restare in equilibrio con l’aiuto della mia mano. Un piede davanti all’altro. Il pavimento era lava. E ridevi come una bambina che ancora non è stata rovinata dal mondo. In quel momento, guardando il tuo sorriso, avrei voluto dirti che… – La voce gli si spezzò. Un colpo di vento sbatté la porta della cabina, e lui si voltò di scatto. La cornetta tremava ancora tra le dita. Il cuore lo sentiva nei polsi. Per la prima volta, guardò il riflesso del suo volto sul vetro scheggiato, accanto alla foto di Sofia. E non si riconobbe. A volte gli sembrava che tutto il mondo fosse sospeso lì, in quei 13 minuti. E se avesse parlato, davvero, tutto sarebbe cambiato. Ma restava il silenzio. E poi l’eco.

10 agosto

Aveva provato a parlarne. Con amici, colleghi, perfino con uno strizzacervelli, una volta. Ma ogni parola gli sembrava sempre di troppo, o troppo poco. E allora aveva smesso. Perché la verità era che non parlava più con nessuno, tranne che con lei. Ogni sera, entrava nella cabina alle 22:47 come in un confessionale. 

  – Certe cose si capiscono solo quando è troppo tardi, – sussurrava alla cornetta. – tipo quanto eri bella quando ridevi e abbassavi lo sguardo, come se fosse un gesto da nascondere. O quanto mi mancano le tue piccole fissazioni. Il caffè latte con il ghiaccio del mattino. Vederti riflettere mentre consulti il tuo piercing al naso. O i mocassini che mettevi anche se ti facevano male ai piedi. – 

Era tutto negli occhi di Theo, quasi come una condanna. Lo sentiva addosso, nel peso delle sue notti, nel dolore che si infilava fra le costole come il freddo. In quel letto vuoto. Quello che,d’inverno scaldava con l’asciugacapelli, solo per farla divertire. 

Per questo tornava lì. Per finire di dirle tutto. O forse per trovare un motivo per non seguirla. Quella sera, però, sembrava diversa. Il vento era più forte. Il cielo più chiuso. E lui digrignava i denti. Nella tasca dei pantaloni, una mano stringeva una lettera. L’aveva scritta in un pomeriggio di pioggia, con la mano che non riusciva a stare ferma. Mentre ci lavorava, gli veniva in mente il tatuaggiosulla coscia di Sofia – MUSE -. Eppure, tutto sentiva in quel momento, tranne che l’ispirazione. La lettera raccontava ciò che non aveva mai avuto il coraggio di dirle. E qualcos’altro. Qualcosa che, una volta pronunciato, non si può più ritirare.

Sofia era morta lì, davanti alla cabina, alle 22:47 del 10 agosto. Un incidente. Un guidatore distratto dal telefono. Un suono metallico. Una frenata lenta. Il suo corpo sull’asfalto. Delle urla. Ma lui non c’era. Era in ritardo, come sempre. Arrivò quando tutto era già finito. E rimase fermo, incredulo, per un tempo indefinito. Ma forse, il fatto che fosse successo proprio a quell’ora, non era un caso. Nemmeno il suo piccolo ritardo era un caso. Da allora, la cabina era diventata il suo unico modo per riavvicinarla. Per tenerla viva. Per tornare a sentire qualcosa. Qualsiasi cosa.

Ma quella sera, quando arrivò, la cabina non c’era più. Smantellata. Sparita nel nulla, come se non fosse mai esistita.Chissà, forse non era mai esistita, pensò. Rimase immobile per qualche minuto, guardando il vuoto dove prima c’era il loro mondo. Le sue gambe tremavano come ramoscelli leggeri. Le raccontò l’ultima storia, anche senza cabina, senza telefono, senza niente. La lettera terminava così – ricordi l’ultima volta che ci siamo incontrati, proprio qui? Quando mi avevi detto che la cabina ormai era un simbolo, il nostro ritrovo, dove ci eravamo conosciuti, e che quindi dovevamo darle un soprannome? E io avevo risposto che ci avrei pensato un po’ su? Beh, non ci ho più pensato. Dal 10 agosto sono tornato qui ogni sera, alla stessa oradell’incidente, per 13 minuti. – Le lacrime picchiettavano il foglio di carta – E di quei 13 minuti, 11 li passavo a parlarti. E gli ultimi 2… a decidere cosa fare. Ma non ho mai avuto il coraggio. Sono passati quasi 39 giorni. Ma adesso finisce qui. Forse il destino sa qualcosa che io non so. Da quando non ci sei più, ho resistito altri 504 minuti, a sussurrarti le parole che avrei sempre voluto dirti. Forse dovrebbe chiamarsi così. Suona bene, CABINA 504. Addio Sofia. Ti amo! PS: Saremo sempre un duplo. – 

Poi si inginocchiò e lasciò cadere la lettera tra i fili d’erba, vicino al ciglio della strada. La luce in lontananza annunciava l’arrivo dell’ultimo treno. Il solito delle 23:00.

Theo non pianse. Non urlò. Rimase fermo, come una statua. O come qualcosa di già deciso. E quando il treno passò, nessuno vide niente. Solo un foglio bianco che si sollevò per un attimo nel vento. E poi tornò giù, come neve.

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