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18 Giugno 2025

LE PAROLE TRA NOI LEGGERE/2

Le parole tra noi leggere. Ma capaci di restare. Di aprire mondi, ferire dolcemente, accendere pensieri.

In occasione del Salone Internazionale del Libro di Torino 2025, Edizioni Spartaco ha invitato lettrici e lettori, bookblogger e autori emergenti a raccogliere una sfida: dare forma a un racconto ispirato al tema dell’edizione, “Le parole tra noi leggere”, e festeggiare così insieme i trent’anni della casa editrice.

Ne sono nate storie diverse per tono, voce e atmosfera, ma tutte accomunate da uno sguardo attento, da una scrittura che sa sostare sulle sfumature, da parole che sanno lasciare un segno.

I racconti vincitori del contest sono stati selezionati per originalità, coerenza con il tema e qualità narrativa. Un piccolo omaggio al potere della scrittura. E a chi sceglie ancora, ogni giorno, di abitare le parole.

Sara Servadei, giornalista e scrittrice

NON CE LA FACCIO PIÙ

«Non ce la faccio più».

La frase vola leggera sui pomodori impanati, accanto al tegame con le scaloppine al limone. Buca la pelle senza fatica, atterra con grazia tra lo stomaco e i polmoni. Si infila nelle cavità strette degli organi come se fosse stata fatta apposta, tiene il ritmo del sangue che pompa, dell’ossigeno che entra ed esce. Scende come acqua, l’intestino, l’osso del bacino, i muscoli delle cosce, ginocchia, tibia, perone, la pianta del piede. Matilde sente che inizia ad avere significato solo quando tocca il terreno e lì si spalma e si allarga piano, come le cose concrete, lenta ma inarrestabile. Non che non se lo aspettasse, in fondo. Non ricorda nemmeno da quanto tempo lo sguardo di Pietro le passa attraverso, come se vivessero entrambi nella stessa casa, ma in realtà parallele. In nessuna, per quanto infinite, loro stanno insieme: nel senso vero di stare insieme, non tanto per starci, non come formalità, ma nel senso che pensano insieme e piangono insieme e ridono insieme.

Eppure ora il suo sguardo ce l’ha addosso. Gli occhi chiari e freddi la scrutano in cerca di una reazione, la rughetta sul mento sembra più increspata del solito, la mano chiusa a pugno accanto al tavolo, i capelli scompigliati, dove il biondo si mescola al bianco. Al polso ha il braccialetto che le ha regalato lei, una catena di metallo, e sbatte appena contro il tavolo mentre appoggia il braccio accanto al piatto. È strano pensare che resterà con lui. C’è stato un tempo in cui lei lo ha scelto, impacchettato, toccato. Chissà se il passato lascia qualche traccia invisibile, molecole che si sfaldano. Chissà in quali posti e pensieri di cui lei non sa nulla lui si è portato quel braccialetto, e tutto il suo corpo, tutto il carico di promesse e progetti e cose condivise: il corso di canto, le vacanze insieme, il matrimonio, l’acquisto della casa, il figlio che non è arrivato, la malattia, l’ansia, la paura. Il silenzio, la distanza.

Lui la guarda e ancora aspetta. Oggi la vede, la vede e non lo nasconde più che la vede come qualcosa che lo irrita, un parassita che infesta la sua vita. Pure questa sua mancanza di reazione lo irrita, forse la vorrebbe a insultarlo, a lanciargli contro i cuscini di piuma d’oca che lui non voleva acquistare, la collezione di piatti di ceramica che erano della bis bis nonna di lui e che sua madre ha appioppato loro per disfarsene.

Matilde scrolla le spalle. La frase circumnaviga i piedini del divano, è così grande eppure così piccola che è strano pensare che non la si possa asciugare.

«Fai quel che ti pare» dice, per non dargli soddisfazione, come se fosse solo un altro litigio.

Pietro si alza di scatto. Si mette le mani tra i capelli, stavolta urla.

«Possibile che non ti importi niente?»

«Sei tu quello che vuole chiudere, è a te che non importa niente».

Strizza gli occhi, stringe i denti. Sbuffa.

«Basta, io non ce la faccio più».

«Lo hai già detto».

La frase ha raggiunto il tappeto, per la precisione.

Pietro si ricompone, l’aria da saputello di chi pensa di dover fare l’adulto della situazione. Le prende le mani. Matilde vorrebbe che le desse il tempo di contemplare la fine di qualcosa che è stato bello, ma che ora è così brutto che forse quel momento non lo vuole avere nemmeno lei. Forse sta tutto lì, in fondo.

«Senti. È finita».

Cammina per la stanza, avanti e indietro, trascinandosi la frase qua e là. Alcuni schizzi arrivano sulle pareti. Sarà un lavoraccio lavarla via. Matilde la guarda e non riesce a fare altro.

«Io non ce la faccio nemmeno a stare qui a vederti che pensi e pensi e chissà a cosa, e chissà… Uno cerca di parlarti e trova la mummia. Vado da Marco, ho bisogno di parlare con una persona vera».

Prende il giubbotto dall’attaccapanni, le chiavi dalla mensolina. Lascia le orme sul corridoio, è la frase che esce dalla stanza, esce dalla casa. Supera il pianerottolo, arriva in strada. Lei voleva contenerla, ma ora è là fuori e lei deve lasciarla andare. 

La sveglia la vibrazione del telefono. Le è finito sulla pancia, appoggiato lì mentre lei cadeva vittima di qualche sonno che lei non si è accorta di aver fatto, nero e indecifrabile. Apre gli occhi e la mancanza  di Pietro le torna in mente come una scossa elettrica, una realtà ineluttabile. La frase è diventata assenza e mentre lei non se ne curava è arrivata in camera, ha imbevuto il lembo della coperta che da letto striscia a terra. Da lì è risalita, l’ha raggiunta, le ha bucato la pancia. È tutta attorno a lei, dentro e fuori.

«Pronto?» dice, un automatismo, e solo in quel momento realizza che è mezzanotte. Il numero non lo conosce, ma ha il prefisso della sua città.

«Parlo con Matilde Scalzi? La moglie di Pietro Tumidei?»

La voce è maschile, l’accento è meridionale. Ha un ché di meccanico e professionale. Le scende nell’orecchio fredda, come la frase e l’assenza che ora le mescolano lo stomaco.

«Sì», risponde, e le sembra che il mondo giri un po’ più forte o forse un po’ più piano, a una velocità con cui non sa sincronizzarsi.

Glielo hanno fatto vedere, un secondo solo. Il viso violaceo, gonfio, tanto che la ruga sul mento si è stesa. Le hanno dato un sacchettino con gli effetti personali. Il portafoglio, le chiavi, il braccialetto di metallo. Nell’impatto si è rotto, due anelle della catenina si sono sganciate. Matilde lo fissa, torna a quel giorno in cui lo ha scelto, il primo regalo al suo ragazzo, il fiocco dorato che ci aveva messo sopra, la faccia stupita di lui, «non mi aspettavo un regalo così bello», come se fosse chissà cosa. Le speranze, i progetti. Li hanno realizzati, o ci hanno provato. Ma quando sono solo sogni è un’altra cosa, hanno una patina rosa che poi a contatto con la realtà si ossida, si spegne.

«Mi scusi – le dice la vigilessa che l’ha accompagnata, ferma a poca distanza, che da un po’ di tempo la scruta con la faccia di chi non sa se intervenire o no -, dovrebbe firmare qui».

Matilde prende il foglio come un’automa. È del medico legale, poche righe stringate in cui le viene chiesto di confermare che sì, il corpo dell’uomo che è morto stasera sulla via dei Laghi, travolto da un furgone che è passato col rosso, è proprio di suo marito.

La guarda ancora, la sacca con la cerniera tirata su fin sopra ai capelli, come se il suo viso potesse bucare la plastica. Se ne è andato, lo ha fatto davvero. La frase aleggia ancora, anche qui, ricopre le pareti come una muffa, è l’odore asettico e artificiale dell’obitorio. È un ambiente inospitale per qualsiasi cosa che viva ma la frase ci va a nozze, è entrata nel corpo di chi l’ha pronunciata e lo ha fatto suo.

Mentre esce dalla stanza, ancora con le scarpe slacciate per la foga con cui se le è messe, Matilde riesce a pensare solo che la via dei Laghi è proprio da tutt’altra parte rispetto a casa di Marco.

L’odore dell’incenso lo ha sempre detestato, ma «fa tanto solenne e poi a Pietro piaceva», sua suocera ha detto così. La bara l’hanno fatta chiudere, questo invece lo ha voluto lei. Anche se non è più come nella camera mortuaria, come quella notte da cui sono passati tre giorni che sembrano tre secoli, a Matilde vedere i morti non è mai piaciuto. è come se diventassero oggetti, morti e basta, imitazioni irrispettose dei vivi. Si sono ritrovati nella saletta del comitato del paese, una cosa informale per salutare una persona che di spiritualità non ne ha mai avuta neanche un briciolo. Alla fine sono venute un centinaio di persone, molte di più di quante lei pensasse: i genitori separati con cui Pietro litigava sempre, la sorella con cui non andava d’accordo che ha portato anche il marito e i due figli. C’è il suo amico Marco, ci sono quelli del calcetto, il suo capo vestito come se fosse una conferenza di lavoro, che le ha stretto la mano con un’espressione tirata, di uno che non sa cosa dire. Ci sono i colleghi, molti non li conosceva: come quella ragazzina coi capelli rossi che piange come una fontana in un angolo, e a 42 anni non è che a Matilde servano i sottotitoli per capire chi è. La guarda, lei è l’unica a condividere la frase, a sapere che esiste. A vederla che cola dal soffitto, si sporge come una stalattite, appanna le finestre. Ad avere la strumentazione giusta, la si potrebbe filmare mentre esce come microgocce nel respiro e nelle parole, ha invaso il mondo, è diventata la materia essenziale, l’atomo che compone tutto.

Per un attimo si è chiesta, Matilde, se avrebbe dovuto dirlo. Se avrebbe dovuto dire a tutti che l’ultima volontà di Pietro, l’ultimissima, era separarsi da lei. Se avrebbero dovuto ricordarlo come qualcosa che con lei non c’entra niente. Se avrebbe dovuto dire che oltre che vedova è anche separata, o prima separata e poi vedova, sfidare la morale borghese per precisare, mettere i puntini sulla i quando la i ormai non esiste più. Lei ora sta elaborando il rifiuto o il lutto? E poi, però. Poi che fatica. Che dolore inutile. Ma davvero Pietro non sarebbe tornato, silenzioso, come faceva sempre dopo tutte quelle serate del calcetto? Davvero non ci avrebbe ripensato? Davvero aveva smesso di amarla, smesso di amarla per sempre? O forse è lei che adesso sceglie la via più facile? In ballo, ora, ci sono solo i principi. Mentre la frase scuote la ragazza, Matilde pensa senza dolore che ora Pietro può essere di tutte e due, possono immaginare entrambe che in un futuro diverso lo avrebbero avuto accanto.

Il filmato Matilde proprio non se lo ricordava. Glielo ha riproposto un giorno per caso il telefono, aveva fabbricato per lei un mix di foto e video dal titolo generico, “In compagnia – 9 anni fa”. Una trappola.

Poi le era venuta in mente, quella giornata. Erano andati in campeggio al lido della Sirena con quelli del canto, quando ancora cantavano. Erano sposi freschi, la casa nuova, gli occhi brillanti, una luce che chissà dove se ne è andata, poi: è rimasta intrappolata in qualche studio medico, o forse in macchina, in ufficio. O nella camera da letto che lei ha voluto rifare tutta, da capo a piedi, nel tentativo di lavare via l’odore di zolfo della frase che invece ormai ha addosso, è diventato il suo: della pelle, delle mani, dell’aria che la circonda.

Nove anni fa invece erano un po’ brilli, lui sorridente, una vecchia maglia rossa sbiadita, la bandana in testa, la pelle cotta dal sole, i denti bianchi. Il video lo conferma, sì: questo è il suo Pietro, quello che ha scelto di ricordare, che ha deciso di tenere con sé. Perché quando uno muore la sua vita diventa una stringa unica da cui attingere la propria versione preferita, un fantasma a cui accentuare i meriti, da immaginare sempre comprensivo, sempre affettuoso. Più bello e più bravo, come il passato in cui è rimasto. Nel video tiene in braccio la chitarra, canta una canzone che si sta inventando, la canta a lei e la prende in giro nel modo in cui si prendono in giro quelli che si vogliono bene: come chi vuole la tua attenzione, il tuo corpo, la tua testa. E gli amici ridono, ridono con lui che è il mattacchione, che è quello divertente, che è quello simpatico.

«Ohhh Matiiiii, tu e l’insetto di ieri. Mi sa che ti aspetta ancora, quel millepiedi. Oh Matiiii, hai fatto la frittata. Poi l’hai lasciata fuori e i cinghiali se la sono pappata». 

Scoppia a ridere, dallo schermo la fissa, forse lei gli ha fatto la faccia contrariata, forse è solo troppo ubriaco. Guarda gli amici che vogliono che canti ancora, si sottrae, posa la chitarra: «Non ce la faccio più».

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