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23 Luglio 2015

Le giocatrici. Intervista a Marilena Lucente

Lucente

 

Marilena Lucente racconta i retroscena del libro “Le giocatrici. Lotto. Slot machine. Bingo”. 

Un libro come “Le giocatrici. Lotto. Slot machine. Bingo” presuppone alcuni retroscena intuibili, altri sorprendenti. A raccontarceli è l’autrice Marilena Lucente.

Hai mai giocato?

Mai. Se non a tombola, da bambina, con la nonna. E ho continuato, ma solo finché ho potuto farlo con lei. In seguito ogni tanto l’occhio mi cadeva su donne che giocavano, che mi attraversavano la vita, magari per caso. Mi dicevano: “Non posso venire perché ho già combinato il tavolo”. Capivo il senso di quella frase ma non ne coglievo il significato. Ogni tanto qualcuna di loro partiva, per il “week end a burraco”. E andavano via anche dalla mia attenzione. Mi chiedevo cosa potesse esserci lì, dentro quelle vite che avevano dentro il gioco. Ma erano domande epidermiche. Troppo indaffarata per rispondermi.

Dunque, quando è scattato l\’interesse per un mondo così lontano dalle tue abitudini?

Piano piano ho visto aumentare intorno a me le donne che giocavano. Impercettibilmente. Sempre più numerose. C’è una tabaccheria vicino alla scuola dove insegno. Alle undici, la mia ora libera, un via vai di gente. E’ un quartiere popolare, c’è persino il mercatino rionale della frutta.  Posavano le buste della spesa a terra, un ciuffo di verdura cadeva sul pavimento, una mela rotolava e loro lì, lontane, trasfigurate, da un euro, due euro di gratta e vinci. Quello sguardo, quella lontananza, quella fuga in avanti, quel futuro piccolissimo che potevano toccare semplicemente allungando una mano, quello lì, sì, catturò la mia attenzione. E iniziai a guardare.

Le statistiche dicono che le ore in cui si raggiunge il picco massimo di giocata sono proprio le undici di mattina e le sei del pomeriggio.  La mattina al femminile, il pomeriggio al maschile. Ecco, avevo un orario in cui poter vedere le giocatrici. Però è all’alba, una di quelle albe chiare chiare che regala il giorno prima che il mondo si svegli, che in un bar ho sentito distintamente la voce di una donna, in un certo senso il “richiamo” di una giocatrice. Avrà avuto una sessantina di anni, ma con il tempo ho imparato che le donne che giocano hanno una età indefinibile, tutto dipende dalla dinamica delle emozioni che modifica il viso. Davanti alla slot premeva con forza i tasti: “Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo”. Più forte il tasto pigiato, più biascicata la parola: “Vaffanculo. Vaffanculo. Vaffanculo”. Il tempo di un caffè, ne avrò sentiti una cinquantina, di vaffanculo. Il barista mette i cornetti nel forno, non dà troppa retta né a me né a lei. “Vaffanculo”, sento mentre chiudo la porta. Quella strada ha un solo marciapiede, e palazzi su un solo lato, l’altro è attraversato dai binari e c’è una natura selvatica e rigogliosa. Penso a nonna, penso a lei che si faceva spedire biglietti della lotteria dai cugini sparsi in tutta Italia, penso ai suoi nascondigli, alla trepidazione, al tempo dilatato dell’attesa, alla sua gioia bambina. E sento i “vaffanculo” di quest’altra donna. Esplorare l’arco voltaico, dalle preghiere alle bestemmie, dall’attesa sempre più ricca di desiderio alla compulsione malata, dalla felicità di un biglietto della lotteria alla disperazione di un gettone caduto per qualche ragione nella tua vita. Ecco cosa avrei voluto esplorare.

Quella strada sarà la casa di Anna, una delle protagoniste dei racconti…

Sì, sono incominciati i racconti. All’inizio ho consultato un amico proprietario di una tabaccheria: sua la storia dell’elegantissima signora che tutte le mattine si fa il giro delle ricevitorie della città. Poi ho raccolto la testimonianza di una amica che ha gestito una ricevitoria per due anni: suoi i dettagli normativi a cui deve sottostare chi ha nel proprio locale le slot, compreso il “consiglio” di non lasciarle troppo a lungo inutilizzate (altrimenti arrivano telefonate in cui viene chiesta spiegazione. Poi è stata la volta di una assistente sociale che ha mia riportato storie drammatiche, di gente che non può mangiare ma va a giocare, di piccoli furti che si verificano nel suo ufficio e probabilmente la ragione è sempre la stessa, di quella volta che ha dovuto pagare la spesa alla polleria perché la mamma di un bambino down aveva speso tutti i soldi del figlio per giocare. Il piccolo aveva fame e lei non aveva nemmeno cinque euro. Cinque euro. Storie piccolissime, da libro cuore, di un’Italia sempre povera – di nuovo povera – ma con un cuore striminzito e incattivito. Le ho raccolte così. Sono tante.

Tuttavia quello del gioco è un universo più complesso, vero?

Non sono le storie delle giocatrici quelle che mi fanno più male. Sono quelle di chi sta loro accanto. Hanno dentro un dolore che non va più via. Il giocatore può essere disperato, depresso, euforico. Ha più emozioni in circolo. Chi gli sta vicino no. Chi gli sta vicino sta male e basta. Può essere  l’adolescente che ha il padre che ha ”spalommato” tutto lo stipendio in una notte – così un mio alunno in un tema – o la madre disperata che dà la pensione agli strozzini del figlio: il dolore è uguale. E’ quello che nasce dalla rassegnazione e dalla rabbia che fa essere rassegnati. E’ quello che nasce dalla stanchezza e dalla valanga di bugie e di ipocrisie che si è costretti a respirare.

E il Bingo?

Ci sono andata una ventina di volte in diverse città. Non ho mai vinto, ovviamente, concentrata com’ero a guardarmi intorno e a cercare di capire cosa stesse succedendo. Lì ho trovato due cose che non mi aspettavo di trovare. L’invidia, tanta, tra le giocatrici. Palpabile, tangibile. Visibile o dissimulata, ma invidia, cattiveria, perfidia. Sentimenti antichi, antichissimi, dietro quel mondo plastificato, edulcorato, con le sigarette che davvero arrivano su un vassoio e promozioni gastronomiche in certe ore del giorno.  L’altra cosa che non mi aspettavo è il corpo delle donne. Truccato, curato, decorato, ma assente. Immobile. Donne tutte occhi e mani, e occhi fissi sui numeri, e sigarette accese in automatico, e caffè uno dietro l’altro, bevuti con indifferenza, senza mai pace. Un corpo inutile. Difficile da spiegare, ma è proprio questa la sensazione. E capisco perché è facile, quando accade, e accade, darsi via. Darsi per poco, quasi per niente. Perché non c’è più niente in quel corpo, di quel corpo.  Devo dire che è un mistero che ancora mi sforzo di capire.

Per chiudere un’ultima avventura…

Una mattina un gruppo di persone sta andando a un funerale di un amico comune. Caserta-Napoli, il conducente si ferma per fare benzina e una conoscente si propone di offrirci un caffè. La continuità tra la vita e la morte è sempre sconcertante, ma sempre presente. Non immaginavo però che in quella circostanza una persona potesse comprare un gratta e vinci supermiliardario. “In questo bar si vince sempre”, specifica senza alcuna inflessione emotiva della voce, come se non potesse essere che così.  Comprare un biglietto mentre si va ad un funerale. Il bar di Luca nel libro è nato da quella esperienza. La legge che liberalizza le sale bingo è del 1998, lo stesso anno in cui mi sono trasferita a Caserta. Da allora è stato un continuo di interventi legislativi e normativi che hanno favorito il gioco, ne hanno moltiplicato le occasioni e i luoghi. Una valanga nelle nostre città e nelle nostre vite. Una valanga inarrestabile.