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Classifica Libri
Ognuno di noi ha un proprio orizzonte, fisico o interiore, che definisce la sua esistenza: “La siepe che da tanta parte il guardo esclude”. È questo che ci dà LA MISURA DEL MONDO. Aspettando “Più libri, Più liberi”, Spartaco Magazine fa suo il tema di quest’anno e lo affida ai suoi autori per reinterpretarlo. Con Piero Malagoli approdiamo su un’isola di sopravvissuti, dove la speranza muore lentamente e gli occhi stanchi di una vedetta continuano a scrutare il mare in cerca di un segnale.
Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo“
LA VEDETTA
La pelle ambrata riflette i raggi del sole morente che mi accende lampi cobalto tra i capelli corvini. Contemplo il mare dalla vetta del promontorio di quest’isola corallina che per me rappresenta il mondo. Le membra ridotte a stecchi, come zampe di ragno.
Achemar scema sull’orizzonte, visibile nella luce del tramonto, e verso di lei volgo il tatuaggio raffigurante le stelle del Triangolo Australe.
Da sud est gli alisei incrostando le mie labbra di salsedine e mi ricordano come io sia il terminale di una stirpe che da questa terra è stata generata, su questi scogli è progredita, ma ora si aggrappa a me per non cedere all’oblio.
Io sono Tehaamaru. Il mio nome significa: Colui che calma l’ira degli Dei. Io sono gli occhi della mia gente.
Io sono la vedetta.
L’unica possibilità di sopravvivenza per i nove superstiti dell’isola.
Uno scoglio percorribile dall’alba al tramonto perso nell’immensità di un oceano di cui ignoriamo la vastità.
Nove sole anime rimaste, tra le tante di cui rievochiamo l’esistenza grazie ai racconti dei nostri avi.
L’ultima imbarcazione che vi abbia fatto scalo è approdata quando ero tanto piccolo da non ricordarlo nemmeno. Non ho memoria di alcun essere umano nato oltre questi pochi piedi di costa, questa terra brulla e roccia a strapiombo sul ribollire smeraldo del mare.
Ma non è sempre stato così. È esistito un tempo in cui il mio popolo prosperava su questo fazzoletto di terra coltivando taro, cocco e banane. Il dio Fue ci deliziava con patate dolci così abbondanti e succulente da sfamare anche polli e maiali, con ciò che l’uomo, satollo, scartava.
La terra era alleata della mia gente, accoglieva il suo sudore come pioggia che benedice ogni fatica.
Ai tempi in cui Haunui, il padre di mio padre, era bambino, almeno quattro spedizioni annuali regolavano gli scambi commerciali. Arrivavano su enormi piroghe da Hiva Oa, da Pitcairn e da ogni altro remoto angolo della Polinesia sudorientale.
In quegli anni il mio popolo partiva a bordo delle grandi canoe, solcando l’oceano per due intere lune, fino a raggiungere altre isole, ognuna depositaria di una peculiare ricchezza. Basalto daNuku Hiva e Tahuata, vetro vulcanico da Mangareva, in cambio del pesce che al largo della barriera corallina pareva una riserva inesauribile.
Le immense canoe dei miei antenati, costruite utilizzando i lunghi fusti delle palme e degli alberi del pane, salpavano colme di ogni ben di dio e tornavano stipate di materie prime con cui rendere confortevole la nostra esistenza.
In quei giorni il nostro mondo era immensamente grande.
Quando ci stancammo di rispettare i ritmi imposti dalla natura, come Tu Mea, il primo uomo generato dagli dei, ci aveva insegnato, cominciammo a innalzare palafitte sempre più imponenti in cui abitare e imbarcazioni poderose, che garantivano pesche spropositare. Ogni tribù cercava il favore degli dei, propiziandoli con giganteschi idoli e costruzioni votive, con grande dispendio di legname.
I magazzini del sale rifornivano gli essiccatoi, dove distese di pesci venivano preparati per essere conservati a lungo e utilizzati per i nostri commerci. Dall’affumicatoio sulla spiaggia salivano continuamente volute di fumo denso. Ancora oggi, in quel punto, tra le rovine dei forni, ossa sbiancate dal solerisalgono dalla sabbia smossa.
La nostra esistenza si riempì d’inutili mercanzie che, anziché soddisfare le nostre necessità, innescarono una bramosia inarrestabile. Monili per il collo delle nostre donne, calzature di pelle di balena e stuoie finemente intessute conquistarono il nostro mondo rurale. Dalla terra cominciammo a pretendere più di quello che quest’arido scoglio potesse dispensare, per sfamarefigli che, all’apice della nostra civiltà, moltiplicarono le bocche da sfamare.
Senza rendercene conto il rischio per la nostra sopravvivenza crebbe con l’assottigliarsi del profilo delle foreste di alberi ad alto fusto.
Negli anni di prosperità i boschi furono dati alle fiamme per creare terreno coltivabile, i grandi tronchi abbattuti in quantità per costruire case, imbarcazioni maestose e giganteschi totem. La nostra civiltà fioriva in questo piccolo mondo, espandendosi e convincendoci che l’ascesa sarebbe stata inarrestabile.
Ciò che la natura aveva eretto in millenni fu distrutto nel volgere di poche generazioni, nell’errata convinzione di attingere a un patrimonio inestinguibile.
Nessuno aveva avuto sospetti. Nessuno si era dato pensiero.
Il primo a volgerci le spalle fu il Dio Ua.
L’erosione delle sue piogge scatenò torrenti di acqua e fango che dalle colline spoglie strapiombavano impetuosi al mare senza incontrare ostacoli. Gli altopiani, non più rinsaldati dalla rete di radici sotterranee, franarono a valle, lasciandosi dietro fenditure di terra brulla.
Il suolo, spogliato dello strato fertile superficiale, inaridì irrimediabilmente. Una savana di felci e arbusti di pisonias’impadronì dei terreni disboscati, su cui Apu Hau scatenò tempeste e uragani che strapazzarono le macchie di mirto fino a estirparle dalla terra fradicia.
Gli animali che abitavano quell’intricato dedalo di tronchi si estinsero, una razza dopo l’altra. Sterminata ogni forma di selvaggina, ci riducemmo a macellare ogni sorta di animale domestico, ridottosi pelle e ossa per mancanza di pascolo, finché nemmeno un ratto rimase sull’isola.
Gli uccelli marini migrarono, non potendo più nidificare sulle cime frondose prospicenti la spiaggia.
Mia madre mi raccontò di averli visti per l’ultima volta da bambina stipare i rami degli ultimi bambù giganti. Sostare fino all’ultimo, rifiutando di arrendersi alla stupidità degli umani,poi, tutti insieme, spiccare il volo in un frastuono di grida e battere d’ali, compiere un intero giro dell’isola e puntare a sud, come topi che abbandonano una nave che affonda.
Mi confessò di aver desiderato andarsene insieme a loro e di aver pregato Fisaga, il dio della dolce brezza, di sollevarla e portarla lontano.
Quando ci rendemmo conto della catastrofe cui andavamo incontro e cominciammo a preservare gli alberi rimasti, il processo era irreversibile. La paura di rimanerne sprovvisti innescò una corsa al controllo dei boschi superstiti.
I nostri padri, privi della materia prima per la costruzione delle grandi imbarcazioni, si ridussero a pescare molluschi e piccoli pesci in fondali bassi, utilizzando zattere fabbricate con giovani felci, inadatte ad affrontare il mare aperto fino alla barriera corallina, dove tonni e delfini avrebbero fornito cibo abbondante.
Nel volgere di una generazione, non fu più possibile raggiungere le altre isole per barattare i nostri prodotti e rifornirsi di pietra tagliente per le asce, ostriche perlifere con cui fabbricare ami da pesca e basalto per la costruzione dei forni.
La scarsità degli utensili generò liti e ruberie. I baratti, minati dal reciproco sospetto, si fecero difficili e sempre meno equi.
La nostra progressiva povertà ci spinse ai margini dei commerci;poco avevamo da vendere e quasi nulla per pagare la merce altrui. Le imbarcazioni disposte a sfidare l’oceano per raggiungerci, si ridussero fino a esaurirsi del tutto.
Non accadde da un anno all’altro. Il graduale diradarsi delle spedizioni ci costrinse a sperimentare la privazione, dapprima del superfluo, poi dell’utile e infine del necessario.
Tentammo di tornare alla terra, ma il dio Lono aveva sospeso il suo canto. Tutto inaridiva e i parassiti si contendevano i magri frutti del nostro lavoro. Senza gli attrezzi adeguati a dissodare i campi e riparare i serbatoi d’acqua dolce, le erbe infestanti s’impadronirono di ogni appezzamento coltivabile.
Sacrificammo gli ultimi animali sull’altare di Ika Tere, nipote del grande Oceano, dio dei pesci e delle creature marine, perché spingesse i branchi vicino alle nostre coste, dove potessimo raggiungerli con i nostri limitati mezzi; ma le nostre preghiere rimasero inascoltate.
Finché non ci trovammo soli. Dimenticati dal mondo di cui facevamo parte. Senza nemmeno le risorse per abbandonarequella che stava diventando una desolata, desertica tomba.
La lotta per la sopravvivenza ci costrinse a utilizzare attrezzi ricavati da valve di tridacne e ossi d’uccello come punteruoli, fino a contenderci i granchi della scogliera e coltivare sterili terreni a mani nude.
Quando io nacqui la popolazione si era ridotta a meno di novanta individui. Le carestie si portavano via i bambini, come se Avaiki avesse spalancato tutte le sotterranee porte del regno dei morti.
Le tribù popolose si erano trasformate in clan e lo sforzo collettivo per il comune benessere, in sospetto, ritorsione, odio.
Le antiche costruzioni, vestigia di un mondo scomparso, erano state depredate e scheletri di palafitte soffocate dall’edera si ergevano lugubri come un monito divino.
Fu mio nonno, per ordine del capotribù Ra’Anui, ad abbattere l’ultimo grande albero, venerato come un dio, in un estremo, disperato tentativo di spezzare il nostro isolamento. Dopo un consiglio durato tre giorni si decise di sacrificare l’ultimo maestoso tronco per il bene comune.
Haunui pianse conficcando l’ascia nella polpa bianca del più inestimabile tesoro rimasto sull’isola, che svettava ormaisolitario come un gigante, silenzioso e attonito, in un mondo di nani. Un monumento alla stoltezza della nostra sciagurata stirpe.
Quando si schiantò nel fragore di rami spezzati, tutti sentirono qualcosa lacerarsi nel profondo. Fu come se la nostra secolare civiltà fosse trascinata nella polvere.
Ero presente quel giorno, e stretto alle cosce di mia madre giurai di aver veduto il dio Tane, padrone delle foreste, uscire da quel tronco spezzato e abbandonarci al nostro tetro destino.
Con quel legno costruirono una canoa, su cui dieci uomini salparono un mattino d’estate, per un ultimo, angosciato grido d’aiuto, dopo che il Pacifico si era trasformato nella nostra prigione.
Mio padre era tra quei prodi che affrontarono il mare con una piroga solitaria, male intagliata da attrezzi ormai consunti. Si diressero a est, seguendo le vecchie rotte commerciali. Ognuno consapevole che non era possibile affrontare Aremata Rorua, la grande onda, senza l’ausilio di una flotta di canoe da legare assieme con resistenti corde di canapa, quando Raka avrebbe soffiato i suoi venti impetuosi.
Li attendemmo per mesi.
Ogni notte, sulle spiagge settentrionali, grandi fuochi venivano accesi per segnalare l’approdo a possibili soccorritori. In quei roghi bruciammo ogni residuo relitto di casa, idolo o tempio.
Nessuno tornò.
La disperazione causò scontri furiosi, lotte intestine. I clan si frazionarono in branchi rapaci, pazzi di fame e furore.
Mia madre, rimasta sola, per proteggermi chiese aiuto a un potente membro della nostra tribù, possessore di appezzamenti ormai improduttivi. Per lui lavorò come una schiava e appena ebbi l’età sufficiente, seguii la sua stessa sorte. Quando lei morì di stenti, fuggii e mi aggregai a una delle bande di disperati che ormai si contendevano le esigue risorse con la violenza.
Facemmo cose terribili gli uni agli altri, i giovani agli anziani, i maschi alle femmine… i vivi ai morti. Cose talmente indicibili che se non fossi certo che gli dei ci abbiano già abbandonato, temerei il fulmine di Kaha a incenerirmi sull’orlo di questo dirupo.
Solo Miru, dio della morte, pareva rimasto sull’isola, intento a radunare le anime dei defunti nella sua grotta, aiutato dai suoi servitori/lucertola.
La mattanza terminò quando rimanemmo soltanto in nove, tutti maschi, giovani, sfiniti e inorriditi da quanto vissuto.
Ora ce ne stiamo isolati gli uni dagli altri. Ognuno per sé… ciascuno con il suo fardello di stenti e di colpe.
Se, costeggiando gli scogli in cerca di qualche mollusco, un’alga commestibile o la benedizione di un pesce morente trascinatodalla corrente, capita di scorgerci l’un l’altro da lontano, cambiamo direzione, evitando d’incrociare il nostro cammino, nel timore di non poterci difendere dalla ferocia altrui o dagli impulsi cui la fame può spingere.
In un mondo divenuto minuscolo abbiamo quest’unico posto sacro, quest’inviolabile terra di nessuno, dove sempre vigila una vedetta, scrutando il mare dal promontorio.
Ogni sera qualcuno placa la mia fame depositando qualche bacca, o poche radici, e una ciotola di acqua salmastra in un guscio di cocco sulla pietra a forma di conchiglia e ogni cinque lune mi dà il cambio.
Possiamo solo aspettare, sperando esista ancora qualche popolo lungimirante, o solo più fortunato, che abbia preservato le proprie foreste, con cui costruire grandi canoe, e possa raggiungerci. O che un’occasionale nave di passaggio avvisti questo scoglio desolato e la curiosità, la cupidigia, o la voglia di avventura, la spinga fin qui.
Stanotte la luna sarà luminosa e mi stenderò sul fianco, con le anche premute su questa roccia porosa come spugna. L’incoscienza mi velerà lo sguardo ferito dal sole e dai bagliori marini e seguirò Po, dea della notte, cavalcare la lunga scia tremolante di stelle di Ika Roa. Ascolterò la risacca cullarmi col suono che accompagna la mia gente dalla notte dei tempi e osserverò quella linea sottile confondersi nella notte tra cielo e mare.
Quella che voi chiamate orizzonte e noi semplicemente: fine del mondo.
Quando il 29 gennaio 1606 una scialuppa della nave spagnolaSan Pedro, al comando del capitano Pedro Fernandes de Queirósapprodò, scoprendo ufficialmente l’isola di Henderson, rinvenne numerose tracce di una recente civiltà autoctona, ma non fu avvistata traccia di alcun essere umano.
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