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13 Novembre 2024

LA MISURA DEL MONDO/1

Ognuno di noi ha un proprio orizzonte, fisico o interiore, che definisce la sua esistenza: “La siepe che da tanta parte il guardo esclude”. È questo che ci dà LA MISURA DEL MONDO. Aspettando “Più libri, Più liberi”, (dal 4 all’8 dicembre 2024) Spartaco Magazine fa suo il tema di quest’anno e lo affida ai suoi autori per reinterpretarlo. Il protagonista del primo racconto di questo numero, scritto da Flaminia Festuccia, il mondo lo misura con sensi diversi da quelli umani. Ogni cosa ha un odore, anche l’amore.

Flaminia Festuccia, autrice di “La stagione dei papaveri

CHE ODORE HA L’AMORE?

La stagione sta cambiando, lo sento nell’odore dell’aria, meno carico e complesso di quello che mi entrava nelle narici fino a pochi giorni fa. Il freddo della notte addormenta le essenze più articolate, appiattisce gli strati l’uno sull’altro. Anche il naso mi si addormenta un po’, quando la temperatura scende. Lo infilo sotto una zampa e sbuffo fuori l’aria, poi inspiro di nuovo. Odore di sonno e di cuccia, un retrogusto del biscotto che ho mangiato prima di andare a dormire. 

E all’improvviso è mattina, ed è impossibile restare in questa posizione un solo secondo di più. Ogni muscolo chiede di essere rimesso in movimento. Mi alzo con un salto e stiro avanti le zampe, una, poi l’altra, poi entrambe. La schiena si stende, la coda si allunga. Un brivido mi attraversa da un’estremità all’altra, lo faccio scorrere via scuotendomi tutto, le orecchie che rimbalzano da un lato all’altro della testa con rumore di tempesta.

Ecco, sono pronto. 

Tic, tic, tic, unghie su mattonelle dure. Il mio giro mattutino delle camere. La famiglia ancora dorme, come dorme il Vecchio, sdraiato sul tappeto. Gli do un’annusata sotto la coda giusto per dargli un po’ fastidio. Alza la testa con lo sguardo di sonno e poi si rimette giù.

Va bene, va bene, ancora non è il momento. Ma posso godermi anche questo.

Faccio un balzo leggero e atterro sul letto esattamente in mezzo a Loro, e mi lascio cadere giù, con il muso proprio tra le loro teste e il corpo che trova il suo spazio fra i loro, allungato dal naso alla coda. Respiro. Nel fiato hanno ancora il ricordo della cena di ieri, la carne di cui alla fine mi hanno anche allungato un boccone dal piatto.

Lui a quel punto dice sempre «Non dare da mangiare al cane da tavola», Lei allora raccoglie gli avanzi e ce li mette nelle ciotole. A quel punto anche il Vecchio arriva, scodinzolando, e tuffa il muso in basso per spazzolare il boccone inaspettato. Poi fa la sua corsetta attorno al tavolo che li fa ridere, un suono dolce che si colora di preoccupazione quando vedono che la zampa destra gli scivola sul parquet nelle curve strette. Lui non ci fa caso a questi cedimenti, il suo entusiasmo per la vita è inattaccabile.

Ora lo sento che sospira nel sonno, allunga le zampe con un mugolio soddisfatto e si sdraia sulla schiena. Anche Lei si muove un po’ verso il bordo del letto, come a farmi spazio, e io mi accomodo meglio nella conca di coperte.

Cullato dai loro respiri sento le palpebre di nuovo pesanti e mi lascio portare ancora via dal meraviglioso Nulla che mi avvolge quando chiudo gli occhi. Non sogno. Non stavolta.

A volte sogno. Glielo sento dire, fra di loro. 

«Guarda, il cane sogna»

Non capisco le parole, ma le so. E “sogno” è quando il grande Nulla si popola di odori che mi si infilano nel naso, di terra sotto ai polpastrelli, di cuore che batte, batte, batte. Lì non sono più io, non sono più il Cane sul suo cuscino, con lo stomaco pieno e quattro pareti intorno.

Lì, nel Sogno, divento la Fame, la Paura, la Libertà. Ho muscoli diversi, allora, più lunghi, nervosi. Non corro per giocare. Corro per salvarmi, corro per sopravvivere. I sensi sono più acuti, i denti sono più aguzzi, e li affondo nella carne di una preda. La sento pulsare, sapore di metallo sulla lingua, il sapore che fa la differenza tra la vita e la morte. Ululo alla notte.

È lì che mi svegliano, di solito. Mi scuotono, dicono «Il cane ha avuto un incubo». Incubo è la parola per i sogni sbagliati. Ma questo sogno è una delle cose più giuste che mi succedono.

Stavolta non sogno, però, questo è il sonno leggero della mattina, in cui la superficie di me resta in allerta, pronta per la giornata che inizia. Sento lo scatto meccanico della sveglia ancora prima che inizi a suonare. È il mio segnale.

Li saluto tutti, uno ad uno, appena si alzano in piedi.

«Buongiorno», mi dicono, in un modo che mi fa muovere piano la coda (non è che lo decido io, quando si muove. Ci sono parole, odori, sapori che la attivano anche se io non voglio. Tipo, la voce del Dottore me la fa agitare forte, anche se so che quello che succederà dopo non sarà piacevole).

Ecco, ora si è alzato anche il Vecchio, che viene a prendersi i suoi omaggi passandomi avanti. Lo può fare, anzi: anche io gli do una leccata sul muso, come è giusto fare con gli anziani. 

Ora la casa è piena di movimento e di suoni, di voci e finestre che si spalancano, e io mi sdraio sul cuscino e aspetto. Aspetto, perché appena l’agitazione del risveglio si placa, è il momento della nostra passeggiata. Certe volte è veloce, intorno all’isolato, con Lui che ha fretta e mi tira via dagli angoli dei palazzi. Certe volte è più lenta, attraversiamo la strada grande e ci fermiamo ad annusare la terra e l’erba delle aiuole. E poi ci sono le mattine in cui andiamo verso il parco. 

Oggi è una di queste, me ne accorgo perché la strada è tranquilla e camminiamo con calma. Beh, Lei cammina con calma. Io non ce la faccio, la tiro avanti anche se so che non dovrei, ma ho le zampe che si muovono di vita propria, hanno già dentro la corsa che tra poco lascerò esplodere. Il clic del moschettone che si sgancia, e vado, naso a terra. Ogni centimetro mi parla di chi è passato qui dall’ultima volta. Ogni filo d’erba racconta una storia. E poi, tra le radici di un albero alto, trovo una pigna. La afferro tra i denti e corro verso il Vecchio. La lascio cadere a terra accanto al suo naso, poi la riprendo e scappo via. Lui mi insegue. Mi cullo nell’ebbrezza dell’inseguimento per un po’, poi gli lascio la preda. Lui la prende e se la porta via come se l’avesse conquistata in battaglia.

L’unico momento in cui non lo faccio vincere è quando giochiamo con la palla. Vorrei farlo vincere, dovrei farlo. Ma non so controllarmi quando vedo quella sfera che rotola e rimbalza e mi sfida a catturarla. È pura gioia, allora. Una gioia che non conosce freni, come quando corro in cerchio, da solo, allungando la falcata fino a farmi mancare il fiato e sentir ronzare le orecchie. Come quando infilo il muso nella ciotola e ci trovo dento qualcosa di speciale. Come quando salto sul letto e mi gratto la schiena sul copriletto ruvido, scalciando in aria le zampe. Come quando…sì, ce ne sono tanti di momenti così, e io non ne conosco di diversi, se non nel Sogno. 

O nel Ricordo, a volte. Anche se si somigliano, il Sogno e il Ricordo sono diversi. Nel Sogno sono un altro, nel Ricordo sono io.

Il Ricordo sono altri come me che uggiolano. Il Ricordo sono mani grandi che mi sollevano e mi girano e dicono «Un altro maschio» e poi mi infilano in bocca una cosa di gomma da cui esce un liquido amaro. Il Ricordo è seguire un odore, l’unico familiare, e strisciare con gambe troppo piccole e occhi che non vedono fino a trovare il latte, il calore, la speranza di sopravvivere. Il Ricordo è quando sono stato portato via, e ho avuto paura.

Il Ricordo è anche quando sono arrivato qui, e ho incontrato il Vecchio che mi ha annusato da cima a fondo e mi ha fatto subito stare meglio, anche se poi ha messo in chiaro che il divano era suo (non è durato molto: presto ho iniziato ad approfittare del suo sonno profondo per rannicchiarmi accanto a lui, la notte, quando mi sentivo solo).

Non ricordo, invece, il momento in cui ho iniziato a fidarmi di Loro. Forse da subito, perché se qualcuno ha la tua vita nelle sue mani puoi solo fidarti. Forse dopo qualche giorno, guardando il Vecchio che li amava come io non avevo mai amato nessuno.

È una cosa strana, l’Amore. Ti accorgi quando succede perché non è solo la coda che si muove anche quando non lo vuoi. Non è nemmeno come quando corri a perdifiato o mangi la pelle del pollo arrosto. È più una gioia calma, che stai bene quando c’è. È anche una paura, l’Amore. Paura che ti venga tolto. È svegliarmi da solo e correre per tutta casa finché non trovo Lei che non se n’è andata, ha solo cambiato stanza. E mi accarezza la testa, e mi dice parole che non capisco, ma è in quelle parole, nella sua voce e nel suo odore che sta tutta la mia misura del mondo.

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