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A distanza di 150 anni, la Comune di Parigi rimane ancora una sfinge, un enigma da risolvere. Ci parla ancora, ma con tante lingue diverse. Ognuno ha la sua: anarchica, socialista, repubblicana, comunista, proletaria, democratica, comunalista… Una tale babele si spiega in tanti modi, molti dei quali legati al mito che quella vicenda rivoluzionaria ha stimolato.
A ben vedere, il problema non riguarda solo gli usi politici del passato ma pare connaturato all’oggetto stesso. Difficile dare una definizione univoca a soli 72 giorni di rivoluzione, tre quarti dei quali passati a fronteggiare il tentativo di repressione dell’esercito francese, in una città che già da mesi era sotto assedio da parte delle truppe prussiane. Un tempo così breve e incerto è contrassegnato per forza di cose dall’orizzonte della possibilità: tutto è solo inizio, progetto, tentativo. Non privi di senso ma sempre incompiuti.
L’enigma Comune, inoltre, si deve al fatto è che il 18 marzo 1871 non è frutto di un’iniziativa politica coordinata, di un’avanguardia rivoluzionaria con obiettivi e strategie chiare, bensì di una serie di circostanze capitanate a un certo punto dai componenti del Comitato Centrale della Guardia Nazionale. Niente uomini illustri, patenti di nobiltà rivoluzionaria, ma persone che in genere nei libri di storia si definiscono “oscuri”, solo perché di loro si sa poco. Il Comitato era stato eletto democraticamente pochi giorni prima dai vari battaglioni della suddetta milizia popolare che di recente si erano uniti in una federazione autogestita con il compito tradizionale e non particolarmente ambizioso di promuovere la difesa di Parigi e della repubblica.
Quando all’alba del 18 marzo l’esercito regolare viene mandato a Montmartre a requisire i cannoni custoditi dalla Guardia Nazionale cominciano i problemi. L’obiettivo del governo era quello di rispettare la richiesta prussiana di disarmare la città come prescritto nelle trattative di pace concluse a gennaio. L’obiettivo di molti parigini, specie dei quartieri più popolari, era invece quello di non arrendersi ai prussiani, perché erano contrari a quella pace umiliante per di più siglata senza che Parigi fosse realmente stata sconfitta: loro avevano resistito al lungo assedio. Il 18 marzo non era stato il primo tentativo compiuto dal governo: nelle settimane precedenti episodi simili di requisizione delle armi erano avvenuti proprio lì a Montmartre e in altri quartieri della città ed erano sfociati in disordini. Ma quel giorno, fu l’ultimo. I soldati, trovandosi di fronte la resistenza prima di un gruppo di donne, tra le quali pare ci fosse anche Louise Michel, e poi di alcune guardie nazionali, rifiutano di sparare, ammutinano e fraternizzano con il popolo. In breve la rivolta si diffonde e si alzano le prime barricate in difesa dei quartieri, mentre sempre più guardie nazionali si uniscono alla rivolta e l’esercito regolare sbanda. Nel giro di qualche ora, Thiers ordina la ritirata del governo e delle truppe a Versailles. Parigi è nelle mani del popolo in rivolta, dei vari battaglioni della Guardia Nazionale, e in tarda serata, senza un’iniziativa politica chiara, gli “oscuri” del Comitato Centrale che avevano avuto un ruolo marginale fino a quel momento, si sentono quasi in dovere di entrare e occupare l’Hôtel de Ville, l’antica sede del governo municipale di Parigi, che è esistito l’ultima volta ai tempi della Rivoluzione del 1789, perché di norma la capitale è sotto il controllo del governo centrale.
Questi uomini assumevano come un onore l’appellativo di “oscuri”, lo amavano poiché non erano volti noti del movimento rivoluzionario, ma erano principalmente dei lavoratori, in parte legati alla Prima Internazionale e più in generale al movimento operaio. Unico collante è, oltre alla difesa di Parigi, la repubblica: sovranità popolare, democrazia, Libertà, Uguaglianza e Fraternità.
Nelle settimane successive entreranno in scena altri protagonisti, e altre caratteristiche emergeranno più chiaramente: volontà di autogoverno dal basso che si spinge fino all’autonomia di quartiere; laicità, a partire dalla scuola, obbligatoria e gratuita; democrazia diretta e mandato imperativo per gli eletti alla Comune; generalizzazione dell’associazionismo; camere del lavoro; cooperative; eliminazione di multe salariali e punizioni; eliminazione dell’esercito permanente; eliminazione di condizioni di lavoro incompatibili con la vita sociale (quanti lazzi si sarebbe guadagnata la Comune per aver soppresso il lavoro notturno dei fornai: la “giornata” non doveva cominciare prima delle 5 del mattino). Tutti elementi che si ritrovano nella cultura politica repubblicana democratica e sociale che ha nella rivoluzione popolare 1792-93 e in quella del 1848 (intesa come giornate di giugno) i suoi riferimenti storici. Difficile fare di più anche perché definizioni ed etichette ideologiche poco si addicono alla partecipazione politica ottocentesca. Ancora nel 1871 il fronte rivoluzionario è ampio e eterogeneo, pertanto difficilmente incasellabile.
Lo stesso si può dire dei suoi protagonisti più noti. Jules Vallès che si unirà all’indomani del 18 marzo alla rivoluzione, non è un’eccezione. Si forma politicamente nel 1848, quando era ancora un liceale, e in particolare nell’opposizione al colpo di stato di Luigi Napoleone Bonaparte, quando era ormai un diplomato – come nel titolo del suo romanzo autobiografico – “salito” a Parigi in cerca di fortuna (nel lavoro, in amore, negli ideali politici e sociali). È sicuramente repubblicano, per la repubblica democratica e sociale rivendicata dal giugno 1848, e si contrappone alla falsa repubblica, quella liberale-borghese avara di diritti sociali. Frequenta gli ambienti politici ancora fortemente legati alle tradizioni del 1792-93, segue lo storico Michelet ed è un grande ammiratore di Pierre-Joseph Proudhon. La simpatia nei confronti di Proudhon lo spinge vicino agli ambienti della Prima Internazionale, in quella che poi sarebbe stata definita “area libertaria”, favorevole alla costruzione di una società dal basso, attraverso l’autogestione, l’associazionismo dei lavoratori e la federazione universale fondata sulla libertà individuale. Un ideale federativo, o forse sarebbe meglio dire a questo punto comunalista, che deve essere inteso in senso sia politico che sociale. Si tratta di tenere insieme quello che la tradizione liberale borghese e poi marxista avrebbe separato: questione politica e questione sociale. Il mezzo non può essere l’abolizione della proprietà privata, ricollocata nelle mani dello Stato, bensì l’universalizzazione della proprietà e del potere.
Dal punto di vista della strategia politica, Vallès, è ugualmente affine alla tradizione politica repubblicana europea che promuove insurrezioni popolari attraverso l’azione e la parola dei singoli. È vicino in tal senso al gruppo all’epoca più determinato, quello dei blanquisti – politicamente riconducibili all’area più socialista del repubblicanesimo – anche se si allontanerà progressivamente dai metodi violenti e autoritari promossi dal loro leader Auguste Blanqui: dubbi sulla possibilità di autentica riuscita di rivoluzioni fatte da “avanguardie”.
Questi elementi così eterogenei, persino contraddittori, non devono far pensare che nella Comune e tra i comunardi vi fosse una “immaturità politica”, ciò che le correnti successive del socialismo si sarebbero incaricate di biasimare e “superare”. Quando, anni dopo, chiesero a Vallès di schierarsi tra collettivisti e anarchici, lui risposte di non volersi legare a un partito, a una corrente, a una fazione per avere tutto il campo libero. Forse, proprio in questo rifiuto sta uno dei segreti dell’enigma Comune, e del fascino che questa babele aperta a ogni possibilità continua a esercitare su di noi.