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Una maschera cela le sembianze di chi la indossa, rendendolo altro da sé. Può essere un espediente comico, un sotterfugio, un rimedio momentaneo. Maschere sono anche gli strati che velano la realtà e nascondono un mondo invisibile ai più. A volte, ancora, sono abiti di scena che si sovrappongono all’identità, diventando alla fine tutto ciò che resta di un’intera vita.
Piero Malagoli, autore di “Nel rimorso che proveremo“
PURPLE WINGED SNAKE
Il viaggio di ritorno si stava trasformando in un calvario. Dan era stanco e solo il dolore lancinante al fianco gli impediva diassopirsi alla guida.
Doveva smetterla con quella vita. La circostanza che non avesse mai fatto altro e neppure ne fosse lontanamente capace, era stata fino ad allora un’ottima scusa ormai insostenibile. Era un vecchio malconcio con tante fratture malamente saldate da sembrare una marionetta con le articolazioni allentate.
Guidando aveva ancora addosso il costume, si era tolto soltantola maschera che riposava sul sedile del passeggero.
Stava allontanandosi dalla città, verso la roulotte in un campo di diseredati del suo stesso stampo. Non ci stava male. Era tranquillo e a basso costo e potevi vedere spuntare dalle dunealbe fantastiche se la sera evitavi di sbronzarti al punto da nonrimetterti in piedi.
I tempi delle ville e degli alberghi di lusso erano passati da tanto che non ricordava nemmeno più come fosse soggiornarvi.
Andati al pari degli incontri di cartello, dei cachet a quattro zeri, del pubblico urlante e delle ragazze che facevano a gara per entrare di soppiatto nella sua camera. Non si era mai lamentato del fatto che fosse finita, non esiste nulla di più effimero della carriera di un lottatore di wrestling, anzi… aveva avuto la fortuna di vivere gli anni d’oro della federazione, con i manager che si contendevano i campioni a suon di ingaggi principeschi, ma era il modo in cui era finita: troppo tragico e precoce per farsene una ragione.
Aveva appena trent’anni quando successe. Da otto, dopo un’interminabile gavetta di facebuster, suplex e prese di sottomissione era stato notato e coi primi soldi guadagnati si era fatto cucire quel costume e, soprattutto, quella maschera che lui stesso aveva ideato, con la quale era diventato un divo del ring.
Era dipinta a scaglie verdi e viola, come quelle del serpente che sentiva di essere sul ring, infido e sornione, con i fori per gli occhi a goccia e denti digrignanti attorno alla fessura per la bocca per azzannare l’avversario al momento opportuno, senza lasciargli scampo. Ai lati, all’altezza delle orecchie, due piccole ali da Mercurio, dio del guadagno, appena sporgenti nella parte posteriore, che lo avrebbero innalzato da quella vita ordinaria grazie alla fama e ai soldi.
Si era talmente immedesimato in quelle fattezze che rispecchiavano fedelmente la sua indole, tanto da considerarle ormai il suo vero volto. Il merchandising andava a ruba e potevi vedere per strada ragazzini che indossavano maschere verdi e viola sfoggiando minuscoli bicipiti riflessi nelle vetrine del panettiere.
Per lui indossare quella maschera era come trasformarsi in un supereroe, oppure, semplicemente, nel Daniel che aveva progettato di essere. Uomo tranquillo e amichevole nella versione borghese e Purple Winged Snake quando saliva sul ring con il suo terribile costume.
Accadde al Cow Palace di San Francisco in una maledetta notte di febbraio, durante una manifestazione di stelle della WCW. Le trasmissioni via cavo avevano portato il wrestling al grande pubblico e gli eventi si facevano sempre più sfarzosi.
Il suo primo avversario era un ragazzotto di belle speranze, grosso come un’autorimessa, ma ancora grezzo nella tecnica. La sua immagine si fondava sullo stile campagnolo: pantaloni da lavoro e una bandana attorno alla fronte a cingere una cascata di capelli biondi. Era poco più di uno sparring, perciò nientemaschera, né vestaglia da togliere con mosse sapienti tra gli ululati del pubblico.
Entrò con un puma al guinzaglio, che lasciò all’angolo, affidandolo ai secondi.
Doveva essere una vittima predestinata, carne da macello per il Serpente Alato, che, come in una sceneggiatura, avrebbe incassato alcuni colpi a freddo per poi accendersi grazie al sostegno dei numerosi fans e reagire da par suo, stendendolo con un paio di mosse a sorpresa.
Quasi tutto andò come previsto, tranne il colpo finale, un Canadian Backbreaker Drop, una mossa spaccaschiena che prevede di sollevare l’avversario con il dorso poggiato sulla propria spalla e dopo alcuni scossoni lasciarsi cadere in ginocchio, infliggendo il colpo di grazia alle vertebre del contendente. La prassi imponeva che il soccombente attutisse l’urto alla schiena scivolando lateralmente dalla spalla dell’avversario schiantandosi sul tappeto, ma il ragazzo non mollò in tempo la presa al collo e rimase in bilico sul suo trapezio subendo il terribile contraccolpo.
Il grido lacerante era da copione, ma Dan aveva sentito qualcosa spezzarsi, come un ramo di salice piegato oltre i limiti di flessione. Mentre il ragazzo rimaneva immobile a terra, Purple Winged Snake percorreva il perimetro del ring incitando il pubblico che gli tributava quella che sarebbe stata la sua ultima ovazione.
Il giovane rimase paralizzato, inchiodato su un letto dalla frattura della colonna vertebrale senza speranze di recupero. Dan, devastato dall’accaduto, non fece nemmeno in tempo a rivederlo, perché due mesi dopo si tolse la vita ingoiando in un colpo solo i potenti antidolorifici di una settimana intera che aveva pazientemente conservato nella federa del cuscino.
Non poteva biasimarlo… al suo posto avrebbe fatto lo stesso.
Le porte dell’agonismo, per lui, si erano chiuse. L’ipocrisia di un mondo che applaude una violenza senza conseguenze non reggeva di rivedere quella maschera a scaglie che ricordava una delle notti più buie della federazione. Per un po’ gli raccontarono che sarebbe bastato qualche mese di latitanza, poi che avrebbe dovuto cambiare travestimento, ma col tempo i contatti si fecero sempre più sporadici, i contratti scaduti non vennero rinnovati e Dan dovette fare i conti con affitti, bollette e cure mediche in una incessante revisione al ribasso del propriostile di vita.
Per un po’ si esibì in incontri clandestini, dove la foga degli avversari per accaparrarsi il vanto di battere un ex professionista lo esponevano a una furia cieca, poi si riciclò come esattore di un piccolo ras di quartiere che assegnava alloggi occupati a famiglie di immigrati irregolari.
Lo spegnersi di ogni speranza di calcare di nuovo i grandi palcoscenici del wrestling fu per lui una liberazione e si ritirò a vivere ai margini del deserto, dove il poco che guadagnava era bastante per vivere.
Passati i sessant’anni terminò il suo ergastolo morale. Di lui si rammentavano solo gli anziani, che nei bar amavano ascoltare le sue storie di combattimenti, donne e ovazioni pubbliche.
Anche la famigerata maschera uscì di nuovo dal cassetto dell’armadio, dopo che la sua vera faccia non era stata capace di fruttargli nulla di più di una vita di stenti. Ora la indossava, insieme a tutto il costume, a ricorrenze e feste di laurea, ingaggiato da genitori facoltosi che si ricordavano di lui e pretendevano un ospite a sorpresa che non fosse il solito mago o l’idolo canoro locale. Quella sera tornava dal compleanno di uno stronzetto sedicenne, dove si era dovuto battere con una masnada di teppistelli infervorati dall’alcol.
Finiva sempre così, con lui che insegnava qualche presa ormai fuori moda, poi doveva prestarsi a subire soprusi che, come quella sera, finivano in veri e propri pestaggi sotto gli occhi compiaciuti di genitori annoiati. Mentre era a terra, battendo la mano sul prato ben rasato per invocare pietà, sovrastato da tre ragazzi inferociti, era stato colpito da un calcio al ventre così forte che una miriade di scintille gli era esplosa davanti agli occhi.
Ora il fianco continuava a dolergli sempre più forte, come se qualcosa, là dentro, si fosse rotto al pari di quella schiena che tanti anni prima aveva sentito spezzarsi contro la sua spalla.
Arrivò finalmente alla roulotte, parcheggiò accosto alla veranda, entrò e appena tolto il costume si buttò sul letto sfatto. Nonostante il caldo torrido sentiva brividi risalirgli il dorso. Si disse che la nausea era solo colpa della stanchezza e del buffet che aveva saccheggiato appena arrivato al ricevimento.
Era stato pestato molte volte e molto più duramente, il mattino dopo sarebbe sceso carponi dal letto, avrebbe atteso che il mondo smettesse di vorticare e con un paio Fentanyl tutto sarebbe andato a posto.
Trovarono il suo cadavere solo sei giorni dopo, quando l’addetto al rifornimento del generatore chiamò la polizia che entrò forzando la porta d’ingresso.
La federazione pagò per lui un funerale senza fronzoli a cui parteciparono i vicini e qualche curioso. A causa dell’afa il suo cadavere si era tanto enfiato da non poter calzare il costume come aveva lasciato scritto su un biglietto trovato affisso al frigo con una calamita, ma fu coperto da una vestaglia di raso verde pescata in un negozio di abiti di scena.
Gli fu invece messa la maschera, l’unico volto che aveva saputo dargli il coraggio di affrontare la vita e col quale avrebbe ora fronteggiato l’eternità.
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