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30 Settembre 2024

FISCHIO D’INIZIO/4

Settembre è un “capodanno mentale”, mese di buoni propositi e nuovi inizi. Scolastici, lavorativi, e anche sportivi. I nostri autori per questo numero di Spartaco Magazine hanno preso il via dal loro personale concetto di fischio d’inizio, intrecciando la ripartenza settembrina con tutti i nuovi inizi a cui la vita ci mette davanti, pure quando sembra aver pronunciato la parola “fine”.
Ma gli inizi possono anche chiudere il cerchio di esistenze partite da molto lontano. Origine e destinazione sono tutt’uno nel viaggio ANDATA E RITORNO di Fernando Bermúdez, che celebra l’avventuroso passato della sua famiglia, dall’Italia all’Argentina, e poi di nuovo in Italia con la sua “prima volta” come ospite di “Un borgo di libri” per la promozione del romanzo “Segreto a più voci”. Seduto nel posto lato corridoio di un aereo annulla le distanze di spazio e di tempo.

Fernando Bermúdez, autore di “Segreto a più voci

PUNTO DI PARTENZA DI UN VIAGGIO DI ANDATA E RITORNO

Mi sono appena seduto al posto 4D, lato corridoio, lato corridoio come sempre, dopo aver volutamente evitato il profumo fatto di profumi del Free shop di Capodichino. Non ho mai capito quelli che preferiscono stare accanto al finestrino. Quelli che volontariamente si stringono contro la parete curva dell’aereo soltanto per poter fissare il nulla con una geografia di fondo, con due Cerberi che gli impediscono il passaggio se dovessero aver voglia di alzarsi per qualche motivo, perché i piedi vorrebbero dedicarsi alla loro funzione primaria, o perché il libro è rimasto nella borsa a mano. Io no. Io mi sono appena seduto nel 4D, nella prima fila, dietro quelli che esibiscono un supposto prestigio nel lusso modesto della classe business. Li guardo con un certo sospetto, un momento prima che la hostess faccia scorrere una tenda pensata proprio per impedire ogni curiosità, assicurando loro una privacy della quale neanche sono coscienti. Come se la sola visione dei loro profili intenti a sorseggiare una coppa di champagne potesse sortire l’effetto di medusa su noi che viaggiamo appena qualche fila dietro. In ogni caso, quel limite costituito dalla tenda mi permette di tornare alla mia situazione di stare seduto, con una giacca di lino che sicuramente si spiegazzerà tutta nelle quattro ore di volo, gli auricolari bianchi inseriti nelle orecchie che sussurrano in ordine The Dark Side of the Moon dall’inizio alla fine: No one told you when to runyou missed the starting gun, canta ora David Gilmour un istante prima dell’iconico assolo di chitarra di Time. Se tutto fosse così semplice: fare attenzione al momento del decollo, non lasciarsi andare, perché quello è il momento in cui tutto ha inizio, o quando tutto si perde, senza rimedio. No. La semplicità è invece un miraggio col quale il mondo ci offre la mela dell’Eden e ci condanna al rimorso eterno. Perché, pensiamoci un momento: quando comincia, per esempio, un amore? Gli innamorati sanno che la domanda è sempre un errore di concetto, e per questo rispettano tutte quelle date che festeggiano in segreto: il primo bacio, quella volta che si sono scambiati uno sguardo e hanno capito che era per sempre, il primo appuntamento, il giorno che lei o lui hanno avuto la chiave dell’appartamento di lui o di lei. E sanno che tutte queste cose sono cruciali, che tutte sono a modo loro punti di partenza, decolli. E quando ha inizio un’idea, un affetto, una disillusione, un viaggio? 

Un viaggio in Italia, per esempio; questo mio viaggio in Italia, che tra l’altro è il primo e che perciò è anche un inizio, in qualche modo. Un viaggio durante il quale ho imparato a gustare un babà autentico, a fare tesoro del calore e dell’ospitalità dei fratelli Di Monaco, a rendermi conto delle regole flessibili del traffico della città di Napoli. La risposta non è per niente semplice; certo non basta dire che l’inizio è stato quando ho preso posto nell’aereo a Stoccolma, nel sedile 7C, corridoio anche quella volta, ovviamente. Perché prima ancora ero sceso da un taxi all’ingresso dell’aeroporto, e prima ancora di sedermi in quel taxi, e molto prima, avevo accettato l’invito di Ugo e di Tiziana Di Monaco e avevo deciso la data e le motivazioni del viaggio. E anche perché, prima ancora, mi ero seduto a scrivere un romanzo con un titolo così contraddittorio come Segreto a più voci, avendo in mente un lettore italiano: non un argentino ma un lettore seduto in un caffè di Roma, Napoli o Firenze. Perché mentre lo scrivevo, mentre immaginavo scenari e tradizioni e lottavo anche con le parole, sapevo che il romanzo sarebbe stato pubblicato in Italia prima di esserlo in lingua spagnola. Da lì tutti i cognomi italiani, i destini degli anarchici emigrati…E infine perché questo viaggio è una compensazione dell’altro che avrei dovuto fare un paio di anni prima, quando Spartaco pubblicò La metà del doppio, viaggio con il quale avrei voluto ricambiare le tante generose parole di critici e lettori se non fosse stato per un maledetto virus che ha mandato tutto a carte quarantotto. Posso dire che tutte queste, insieme, sono state le motivazioni del viaggio, alcune silenziose e altre che si facevano a modo loro sentire con insistenza.

E comunque va detto che questi non sono altro che i miei contributi personali prima del viaggio. Ci sono anche quelli di chi lotta nelle trincee culturali per mantenere vivo il piacere della lettura, di chi s’impegna a organizzare un festival letterario in un piccolo centro medievale in cima a una collina, di chi pensa che sia una buona idea che gli scrittori diano la faccia e non si nascondano dietro i loro libri, e di quelli che vengono ad ascoltare gli scrittori, non come origine o garanzia delle loro opere ma come conseguenza biologica di esse.

È per tutti questi motivi che determinare il punto di partenza di una storia è un compito inutile, assurdo e impossibile. Perché tutto è interdipendente, come dicono i buddisti. Ma, se proprio devo fissare una data al momento iniziale di questo viaggio, vorrei che fosse il 4 agosto del 1870, poco più di 150 anni fa, quando Domenico Marin, contadino analfabeta originario di Bobbio, in Val Trebbia, Piacenza (che Ernest Hemingway diceva essere la valle più bella del mondo) s’imbarcò con suo fratello Giuseppe e con un biglietto di terza classe con l’intenzione di “fare l’America”. Ma Domenico, in piena traversata, finì con l’innamorarsi di Teresa Bisay, una cuoca slovena dagli occhi immensi e dalle braccia tanto magre quanto forti. Non poterono scegliere momento peggiore per cercare fortuna in Argentina, perché pochi mesi dopo il loro arrivo a Buenos Aires la gente cominciò a morire di febbre gialla. Ovunque: in strada, nei terreni abbandonati, anche nelle proprie abitazioni. Non so come avranno fatto per ottenere quel lavoro, ma in pochi giorni Giuseppe e Domenico cominciarono a percorrere la città con un carro, trasportando cadaveri per conto della Municipalità di Buenos Aires. Non capivano neanche la lingua, e i loro compagni di lavoro c’erano e pochi giorni dopo non c’erano più: nel giro di una settimana la loro faccia diventava rossa, rimanevano privi di forze e Domenico e Giuseppe li caricavano nel carro ancora tiepidi. Di notte facevano ritorno al capannone che gli avevano dato per dormire, e Domenico rinfacciava al fratello la promessa della notte precedente, che quello sarebbe stato l’ultimo giorno di lavoro. “Resistiamo ancora un giorno, Mimmo”, diceva Giuseppe, “domani lasciamo tutto e ce ne andiamo”. Tutte le notti la stessa promessa, notte dopo notte. Lavorarono per mesi, e finalmente una sera lasciarono il capannone e il carro e andarono via con tanti di quei soldi che mai in vita loro avevano visto, proprio quello che serviva per comprare un terreno e dimenticare sia la febbre gialla che la fame europea. Arrivarono così ad Areco e, in società, comprarono una fattoria che chiamarono Alto verde. Ma benché lavorare un terreno proprio era stata una mutua utopia -prima nel periodo della fame in Italia e poi durante la paura del contagio a Buenos Aires-, dopo un po’ Giuseppe vendette la sua parte al fratello, si sposò con la donna più bella del circondario e andò a vivere in città. Domenico rimase a lavorare la terra e si sposò con Teresa, e quasi senza rendersene conto, ebbero quattro figli. Il minore di loro, José, ebbe una storia alla quale Elia Kazan deve essersi ispirato per la trama de La valle dell’Eden; ebbe anche una figlia, Hebe, cui a sua volta toccò l’incerto onore di essere mia madre. Il cerchio si chiude oggi, un secolo e mezzo dopo, con me nel sedile 4D. Il contadino analfabeta della Val Trebbia, per il quale le parole erano trappole impossibili da decifrare, diede vita, attraverso corpi vicari, a un figliol prodigo, artigiano delle parole, che torna all’origine ricco di trame impossibili.

PUNTO DE PARTIDA DE UN VIAJE DE IDA Y VUELTA

Me acabo de sentar en el asiento 4D, junto al pasillo, junto al pasillo como siempre, después evitar ostensiblemente el perfume hecho de perfumes del Free shop de Capodichino. Nunca entendí a los que prefieren la ventanilla. A los que voluntariamente se encierran contra la pared curva del avión solo para poder mirar fijamente la nada con una geografía en el fondo, con dos Cancerberos cerrándole el paso al capricho de levantarse porque sí, porque los pies quieren dedicarse a su función primordial, o por el libro en el equipaje de mano. Yo no. Yo me acabo de sentar en el asiento 4D, en la primera fila detrás de los que derrochan plusvalía en el lujo modesto de la clase business. Los miro con un recelo automático, justo antes de que la azafata cierre una cortina especialmente diseñada para impedir cualquier curiosidad, garantizándoles una privacidad de la que ellos ni siquiera son conscientes. Como si la sola visión de sus perfiles sorbiendo una copa de champagne pudiera ejercer un efecto de medusa sobre los que viajamos unas filas más atrás. En todo caso ese límite de tela me permite volver a mi situación de estar sentado, con una chaqueta de lino que va a arrugarse para siempre en las cuatro horas de vuelo, los auriculares blancos clavados en las orejas susurrando en orden The Dark Side of the Moon de punta a punta: No one told you when to run, youmissed the starting gun, canta ahora David Gilmour justo antes del icónico solo de guitarra de Time. Si tan solo fuera así de simple: estar atento al disparo de salida, no descuidarse, porque es ahí cuando comienza todo, o cuando todo se pierde sin remedio. No, lo simple es un espejismo con que el mundo nos ofrece la manzana del Edén y nos condena al remordimiento eterno. Porque ¿dónde comienza, por ejemplo, un amor? Los enamorados saben que la pregunta es siempre un error de concepto, y por eso suelen tener todas esas fechas que festejan en secreto: el primer beso, la vez que se miraron y supieron que era para siempre, la primera cita, el día que ella o él recibieron la llave del departamento de él o de ella. Y saben que todas son cruciales, que todas son disparos de salida a su manera. ¿Y cuándo comienza una idea, un calor, una desilusión, un viaje? Un viaje a Italia, por ejemplo; este viaje mío a Italia, que por otro lado es el primero y por lo tanto también es un comienzo, de algún modo. Un viaje en el que aprendí a disfrutar de un auténtico babà, de la calidez y hospitalidad de los hermanos di Monaco y de las reglas flexibles del tránsito de la ciudad de Nápoles. La respuesta no es nada tan simple como que el inicio fue el momento en que me senté en el avión en Estocolmo, en el asiento 7C esa vez, también pasillo; eso está claro. Porque antes de eso me bajé de un taxi al costado del aeropuerto, y antes subí a ese mismo taxi, y mucho antes acepté la invitación de Ugo y de Tiziana y decidí la fecha y el porqué. Y porque antes me senté a escribir una novela, con un título tan contradictorio como Segreto a più voci, con un lector italiano en mente: no uno argentino sino un lector sentado en un café de Roma, Napoli o Firenze. Porque mientras la escribía, mientras imaginaba escenarios y traiciones y luchaba de igual a igual con las palabras, sabía que la novela iba a ser publicada en Italia antes de publicarse en castellano. De ahí todos los apellidos italianos, los destinos de anarquistas migrantes… Y por último porque este viaje es una revancha de otro que iba a darse un par de años antes, en relación con la publicación de La metà del doppio, viaje con el que yo quería retribuir las tan generosas palabras de críticos y de lectores, pero que un virus impertinente malogró ya en ciernes. Y todos esos fueron también disparos de salida, algunos silenciosos y otros con estrépito. 

Y sobre todo porque estas no son más que mis propias contribuciones al comienzo de este viaje. Están también las de los que pelean en trincheras culturales para mantener con vida el placer de la lectura, los que se atreven a organizar un festival literario en una aldea medieval en la cima de una colina, los que piensan que es una buena idea que los escritores den la cara y no se escondan detrás de sus textos y los que asisten para ver a los escritores no como origen o garantía de sus obras sino más bien como consecuencia biológica de ellas. 

Por todo esto es que determinar el punto de partida de una historia es una tarea inútil y absurda e imposible. Porque todo es interdependiente, como dicen los budistas. Pero obligado a ponerle una fecha al disparo de salida inicial de este viaje, querría que fuera el 4 de agosto de 1870, hace poco más de 150 años, cuando Domenico Marin, agricultor analfabeto oriundo de Bobbio, en Val Trebbia, Piacenza, lugar del que Ernest Hemingway decía que era el valle más bello del mundo, subió a un barco con su hermano Giuseppe y un billete de tercera categoría con la intención de “hacer la América”, pero terminó enamorándose, en plena travesía, de Teresa Bisay, una cocinera eslovena de ojos inmensos y brazos tan delgados como fuertes. No pudieron elegir peor fecha para buscar suerte en Argentina, porque a los pocos meses de llegar a Buenos Aires la gente empezó a morirse de fiebre amarilla. Por todos lados, en la calle, en terrenos baldíos, también a veces en sus propias casas. No sé cómo habrán conseguido ese trabajo, pero en cuestión de días Giuseppe y Domenico empezaron a recorrer la ciudad en un carro, levantando cadáveres por encargo de la municipalidad de Buenos Aires. Ni siquiera entendían el castellano, y sus compañeros de tareas eran relaciones necesariamente pasajeras: o desertaban espantados el primer día de trabajo o al cabo de una semana la cara se les ponía roja, se quedaban sin fuerzas y Domenico o Giuseppe acababan por subirlos al carro todavía tibios. De noche regresaban al galpón que les habían dado para que durmieran, y Domenico le reprochaba a su hermano la promesa de la noche anterior de que ese sería el último día de trabajo. “Hagamos uno más, Mimmo” le decía Giuseppe, “mañana dejamos todo y nos vamos”. Todas las noches la misma promesa, cada noche. Trabajaron unos meses y una tarde dejaron el galpón y el carro y se fueron con una cantidad de dinero que no habían visto en toda su vida, lo suficiente para comprar un terreno y olvidarse tanto de la fiebre amarilla como del hambre europea. Así llegaron hasta Areco y entre los dos compraron una estancia y la llamaron Alto verde. Pero aunque cultivar un campo propio había sido una utopía mutua, en el hambre de Italia primero, después en el temor del contagio, al poco tiempo Giuseppe le vendió a su hermano su parte, se casó con la mujer más hermosa de la zona y se fue a vivir a la ciudad. Domenico se quedó cultivando el campo y amando a su Teresa, y casi sin darse cuenta tuvieron cuatro hijos. El menor de ellos, José, tuvo una historia de la que Elia Kazan debe haberse inspirado para el argumento de East of Eden, y tuvo también una hija, Hebe, que a su vez tuvo el dudoso honor de ser mi madre. El círculo se cierra hoy, un siglo y medio después, conmigo en el asiento 4D. El campesino analfabeto de Val Trebbia, para quien las palabras eran intrigas imposibles de descifrar, le dio la vida, a través de cuerpos vicarios, a un hijo pródigo, artesano de palabras, que vuelve al origen munido de intrigas imposibles.

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